Persone della notte vivono nella natura, libere, selvatiche, potenti nella loro pratica distanza dalle regole imposte nel sistema di civile convivenza metropolitano. E se non vai a dormire, qualche volta potrà capitarti d’incontrarle ma chi pone un limite, davvero, alle crudeli peregrinazioni di coloro che venuti dalla giungla, pretendono di ritornarvi insanguinati a satolli? Chi uccide gli uccisori dei contesti tropicali sudamericani? Chi disegna i limiti del territorio sorvolato dai seguaci silenziosi dell’obnubilata condanna? In un importante mito messo per iscritto dalla tarda civiltà Maya, i due eroi gemelli Hunahpu e Xbalanque si erano recati ad affrontare delle prove nei territori sotterranei dell’oltretomba. Infiltrandosi nella pericolosa casa dei pipistrelli, essi dovettero impiegare la magia per nascondersi all’interno delle rispettive cerbottane. Ma Hunahpu, convinto che il peggio fosse passato, si sporse troppo presto con la testa per controllare i dintorni. E forti artigli piombarono a decapitarlo, trasportando via l’oggetto cranico per impiegarlo come palla nel gioco sacro delle divinità superne. Minaccioso e terribile, potente spirito esiziale: Camazotz era un peloso volatile antropomorfo dai diversi avatar disseminati tra gli alberi di questa Terra. Il più impressionante dei quali, senza dubbio, può configurarsi come l’agile “vampiro” gigante, la cui apertura alare sfiora, e qualche volta supera il metro bastando a farne il più imponente pipistrello carnivoro al mondo. Ora è consigliabile specificare come, contrariamente a quanto avessero pensato i primi classificatori scientifici nel XVIII secolo, il Vampyrum spectrum non succhi affatto il sangue (pratica connessa unicamente a tre specie di chirotteri: Desmodus rotundus, Diaemus youngii, Diphylla ecaudata) ma uccida piuttosto tramite un letale morso della sua mandibola, semplicemente la più forte, in proporzione alla grandezza, di ogni altro mammifero al mondo. Risultando sufficiente a ghermire i tremanti topi del sottobosco, gli incolpevoli pennuti assopiti nei nidi ed ogni volta che ne capiti l’opportunità, altri pipistrelli che cattura facilmente in volo, tracciandone il verso di ecolocazione grazie all’udito straordinariamente affinato. Così come l’olfatto, capace di farne un vero e proprio investigatore delle potenziali fonti di cibo oltre il velo impenetrabile dell’oscurità notturna. Perpetrando rituali non del tutto scevri di malignità apparente, il cui effettivo dipanarsi resta largamente ignoto a noialtri abitatori del cotesto diurno. Giacché non è particolarmente facile sottoporre a studi approfonditi chi abita in recessi assai remoti e raramente adiacenti, necessitando di ampi spazi ove trascorrere le lunghe ore in caccia per nutrire se stesso e la propria famiglia. Creature rare, anche nelle migliori delle circostanze, ed ancor prima che il Progresso si mettesse di traverso sulla strada della loro incolpevole sopravvivenza ulteriore…
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L’annosa infatuazione internettiana per la cosiddetta banana gigante
Nell’ultimo tra i video virali provenienti dal caotico TikTok, un uomo dai lineamenti orientali impugna l’incredibile oggetto con evidente senso di aspettativa, procedendo con un gesto abile a sbucciarlo in appena un secondo. Candida e perfetta, il suo arco il simbolo di un Universo che non ha misteri, l’individuo spalanca la mascella fino ai limiti permessi dall’anatomia umana. Quindi, lietamente, v’inserisce quella “cosa” straordinaria. Che cosa abbiamo visto, esattamente?
Assoluta unità di colore, sapore ed aspetto: questo in genere pretende la comunità indivisa, per quanto concerne ciò che riempie le sue tavole ed i recipienti dedicati agli apprezzabili frutti della natura. Dopo tutto è ancora una banana quando non è gialla, lunga e curva? Quando non contenga almeno 350 mg di potassio? Il che ci porta a un delicato ed altrettanto pervasivo tipo di fraintendimento. Poiché se qualche cosa tende a presentare l’evidente incontro di queste tre caratteristiche, cos’altro potrebbe mai essere, se non una banana? Genere Musa, ordine Zingiberales, la cui pianta è assai probabilmente originaria delle giungle di Malesia, Indonesia, Filippine… Ma che venne conosciuta in Occidente in occasione della campagna in India di Alessandro Magno, assieme al termine in lingua sanscrita impiegato per definirla: varana. Parola che persiste, con minime variazioni, nell’odierno panorama linguistico globalizzato, quasi a riconfermare la percepita ed altrettanto sacra invariabilità del dolce prodotto della pianta erbacea più imponente al mondo. Sarebbe stato dunque lo stesso Linneo, nel suo Systema Naturae, a stabilire in via preliminare la suddivisione di quelle che costituiscono effettivamente un tipo di bacche tra Musa sapientum e M. paradisiaca, definendo come le prime commestibili direttamente una volta colte, e le seconde che necessitavano di un processo di cottura prima di essere impiegate come ingredienti. In altri termini e secondo la nomenclatura corrente, dei platani. Il che permette di ridefinire in chiari termini la nostra questione d’apertura. Poiché fin dall’epoca della modernità, banana può e dovrebbe essere soltanto una di tre cose: un cultivar proveniente dalla specie selvatica Musa acuminata; oppure dalla sua cognata M. balbisiana. O ancora una combinazione di alleli provenienti dalle due distinte discendenze, combinate grazie all’applicazione di quella che potremmo definire ingegneria genetica ante-litteram. E questo tipo di banane assai difficilmente tendono essere molto più della stereotipica varietà di Cavendish come anche mostrata, tanto orgogliosamente, dal nostro misterioso Virgilio d’apertura. L’iconica rappresentante di un intero Paradiso di sapori ed apprezzabili realtà culinarie…
Il taglio controverso per creare fabbriche dagli alberi della foresta europea
Creazione, distruzione: nella stessa essenza del rapporto filosofico tra uomo e natura, esiste un equilibrio che agevola la realizzazione di concetti ed obiettivi realisticamente perseguibili, mediante la trasformazione delle condizioni inerenti. Così l’odierno amante di animali e ambienti tropicali può anche lamentarsi, vocalmente o per iscritto, delle attuali propensioni dell’ecozona che ospita la maggior parte dei paesi del primo mondo. Ove spazio e industria sono, ormai da plurime generazioni, dei sinonimi possibilmente intercambiabili, a discapito di ciò che era al tempo in cui foreste ricoprivano il terreno dell’attuale mondo urbano ad ampia densità abitativa. Ma è possibile odiare quel particolare sfruttamento, amando nel contempo i massimi traguardi dell’architettura e dell’artigianato pre-moderno? Giacché porre le basi di un qualcosa di attraente sottintende, in maniera imprescindibile, sfruttamento. “Perciò tanto vale” afferma l’ideale boscaiolo di un tempo “Lavorare con scaltrezza, piuttosto che duramente.”
La capitozzatura è dunque la creazione del perfetto mostro di Frankenstein vegetativo. Un albero in cui ogni centimetro serve essenzialmente ad uno scopo! Pur restando, in condizioni ideali (i.e, che ogni cosa sia stata fatta in modo corretto) vivido e persino longevo al di là della sua innata predisposizione. Allorché gli eredi professionali di tale antica prassi, armati di attrezzature adatte e abbondante olio di gomito, rimuovono ogni ramo al di sopra della prima biforcazione, lasciando solo il tronco sovrastato da quel capitello legnoso, che parrebbe suscitare per l’appunto la sagoma di una testa. Un affronto visuale per molti, soprattutto quando praticato senza uno specifico ed abile criterio, ripetuto molte volte fin dalla giovane età della pianta. Come avveniva, tradizionalmente, in plurime regioni dell’Europa medievale e non solo, al fine di disporre di legna di ardere e cibo per il bestiame qualora le fonti alternative non fossero risultate sufficienti. Ben sapendo di poterlo fare ancora e ancora, dopo il trascorrere di un tempo raramente superiore ai 6 anni. Questo perché vi sono specie ad alto fusto, particolarmente il salice (Salix) ma anche il gelso (Morus) il castagno (Aesculus) e il tiglio (Tilia) che una volta sottoposti all’eliminazione sistematica della loro fondamentale fabbrica di clorofilla, piuttosto che soccombere attivano un meccanismo di sopravvivenza particolarmente evoluto. Che li porta ad attivare gemme nascoste stimolando una crescita esponenziale ed un ritorno rapido alla situazione di partenza. Affinché il diffuso mammifero a due gambe, con le sue alte scale ed affilate seghe, possa reiterare l’incessante crimine della sua persistente esistenza. Con che guadagno? Dipende…
Entra in una mano, l’arboreo e variopinto alligatore della foresta mixteca
Tra le meno conosciute rappresentanti del subordine degli anguimorfi, i cui membri più imponenti includono i varani ed il mostro di Gila, le lucertole del Nuovo Mondo del genere Abronia si distinguono in modo particolare per la propria sfortunata, alta desiderabilità nel commercio internazionale di rettili a scopo di collezionismo. La motivazione è duplice è può essere rintracciata nelle loro dimensioni contenute, inferiore nel caso delle varietà maggiormente apprezzate ai 15 cm di lunghezza (coda inclusa) ed il loro aspetto indubbiamente memorabile, caratterizzato da una disposizione delle squame sovrapposte, che ricorda vagamente quella dei dinosauri o in alternativa, l’armatura di un cavaliere del nostro Medioevo. Insettivore, preferibilmente notturne, arboricole ed inclini al mimetismo in tenera età, causa predazione da parte degli uccelli tra cui la temibile averla impalatrice, esse non possiedono tuttavia particolari strategie d’autodifesa fatta eccezione per la capacità di gettarsi repentinamente a terra, riuscendo a sopravvivere nella maggior parte dei casi. Detto ciò, trascorso il periodo giovanile caratterizzato dalla livrea tendente al marrone spento simile ai tronchi degli alberi, virano nel caso della tipologia messicana gradualmente verso una colorazione maggiormente accesa, che vede i maschi di un acceso color smeraldo e le femmine tendenti al verde acqua o un azzurro simile al mare d’estate. Forse con intento aposematico, magari per la percezione istintiva delle creature troppo visibili come potenzialmente lesive e velenose, una percezione in questo caso erronea che ha portato le popolazioni locali a soprannominare le Abronia come escorpion de arbol, scorpioni degli alberi. Particolarmente presso gli altopiani della zona Sierra Madre de Oaxaca, ove risiede la specie non simpatrica ad altre delle A. graminea, così chiamate dal naturalista E.D. Cope a partire dal 1864, con probabile riferimento alle piante graminacee sopra cui egli ne aveva avvistato i primi esemplari. Questo nonostante le lucertole alligatore siano maggiormente associate, quanto meno nell’osservazione moderna, alla famiglia delle bromeliacee utilizzate localmente per l’alimentazione umana fin dai tempi delle popolazioni Inca ed Azteca. Uno studio scientifico stranamente limitato nel corso delle decadi, tanto che oggi possiamo vantare una conoscenza tutt’altro che approfondita in merito alle abitudini e caratteristiche di buona parte delle 29 specie riconosciute, principalmente derivanti dagli esemplari tenuti, loro malgrado, in cattività. Tali da farne un animale domestico le cui esigenze vengono generalmente soddisfatte da ogni punto di vista, benché le circostanze della vita all’interno di un terrario risultino essere raramente ideali…