Non tutte le tarantole blu cobalto nascono uguali

Una volta che si prendono in considerazione le implicazioni più profonde di un modo di dire umano come “l’abito non fa il monaco” inizia ad apparire evidente lo spettro relativamente limitato delle sue applicazioni. Poiché se una creatura del mondo naturale si presenta con una particolare livrea, generalmente il frutto di uno specifico percorso evolutivo, che risulti essere del tutto differente da quella tipica della sua tipologia d’appartenenza, questa indica “pericolo, pericolo” o in determinati casi addirittura “se soltanto provi a toccarmi, sei morto”. Il che sembra trovare applicazione in modo particolare nel phylum degli artropodi, dove il nemico principale da cui guardarsi proviene molto spesso dall’aria, e in conseguenza di ciò possiede un senso della vista assai sviluppato. Ma a nessun passero, merlo, condor o sparviero, verrebbe in mente di aggredire un nido di vespe, benché esistano particolari specie in grado di ghermire i singoli esemplari in esplorazione. E tanto meno andrebbe a disturbare un variopinto ragno velenoso, il cui morso può determinare shock sistemici capaci di annientare organismi ben più grandi e resistenti del loro. Il caso della famiglia delle migale (ragni con le zanne parallele) Poecilotheria, anche dette tarantole paracadutiste, il problema sembra configurarsi in maniera decisamente più inevitabile: poiché saranno proprio quest’ultime coi loro impressionanti 20 cm di ampiezza, all’alba ed al tramonto, a fuoriuscire dal cavo degli alberi in cerca di un nido temporaneamente indifeso. Per ghermire, avvelenare ed iniziare a fagocitare i malcapitati pulcini che costituiscono un parte fondamentale della loro dieta!
Davvero curioso risulta essere il modo in cui funziona l’immaginazione umana. Ragion per cui, se simili creature fossero state brutte, pelose e nere, oltre che cattive, saremmo stati naturalmente propensi a tenercene ben lontani. Mentre proprio la pigmentazione bluastra assai notevole di queste 13 specie, tutte originarie d’India, Sri Lanka e nazioni limitrofe, originariamente un altro mezzo difensivo dell’octopode sempre pronto a inoculare il suo veleno, sarebbe bastata a renderlo un beniamino favorito d’innumerevoli collezionisti d’animali esotici, arrivando nei fatti a mettere in pericolo la sua stessa continuativa esistenza in natura. Particolarmente, e non è un caso, per la varietà maggiormente affascinante (e costosa) del P. metallica, in cui alle macchie bianche nere, bianche e gialle si aggiunge uno splendido colore blu profondo, sufficiente a farlo considerare uno dei ragni più belli e desiderabili al mondo. Pur non essendo in alcun modo adatto a un principiante, vita la sua naturale iperattività ogni qualvolta dovesse venire “disturbato” e l’occasionale propensione a mordere la mano che lo nutre, per errore o rabbia momentanea, finendo talvolta per mandare il suo padrone al pronto soccorso con dolorosi spasmi muscolari. E cosa non saremmo pronti ad accettare, per amore dei nostri piccoli amici con [numero non pervenuto] di zampe…

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L’orso-gatto che si appende ai rami come Spider-Man

Guardando indietro alla cultura popolare dell’inizio 2000, fu una scena che cambiò profondamente le aspettative in merito al nuovo genere cinematografico dei supereroi. Un genere che, finita l’epoca del pulp dei primi Batman, stava entrando a pieno titolo nell’immaginario delle nuove generazioni, con l’inizio di serie decennali come Blade e gli X-Men. Eppure, persino allora, il concetto di un eroe della giustizia che si veste in modo stravagante per combattere il crimine, sullo schermo argenteo come aveva fatto fino ad allora dalle pagine dei fumetti, lasciava una parte del pubblico perplessa, per via dei pregiudizi nei confronti di un mondo e una cultura considerati “da nerd”. Almeno finché l’attore Toby Maguire, scoperto di avere poteri non propriamente umani, salva la sua amata da morte certa e poi calandosi dall’alto mentre si trova ancora in costume,  la bacia appassionatamente rimanendo a testa in giù. Si tratta di un’immagine abbastanza bizzarra da lasciare il segno, mentre raggiunge al tempo stesso il nocciolo della questione per tanti di quei ragazzi ed ex-ragazzi, che per buona parte della loro vita sono stati del tutto incapaci di relazionarsi con altri esseri viventi, per lo meno fuori dalla pagine stampate dei propri fantasiosi eroi.
Analizzando una simile sequenza, appare chiaro ciò a cui il regista Sam Raimi stesse facendo volutamente riferimento: la posizione di un ragno appeso a un filo, che scende verso il pavimento mentre cerca un nuovo luogo per ricostruire la propria tela. Ma qualora ci si mettesse per un attimo a pensare all’effettiva predisposizione di un essere umano (in modo particolare se appartenente alla categoria dei giovani innamorati) e confrontarla con quella di un aracnide carnivoro e predatorio, apparirà evidente come altre creature del regno animale, a questo mondo, avrebbero rappresentato delle metafore assai più calzanti. Che ne dite, ad esempio, di un ipotetico uomo-orso-gatto (Manbearcat)? Giusto, dimenticavo! Fuori dal suo territorio d’appartenenza nel Sud-Est asiatico, praticamente NESSUNO conosce l’agile mammifero scientificamente denominato Arctictis binturong, nonostante altri membri della sua famiglia, come zibetti, genette e zibetti delle palme siano stati fatti oggetto di una quantità spropositata di documentari, partecipazioni televisive e rappresentazioni a cartoni animati di vario tipo. Finché non ci si reca in visita presso un villaggio nel bel mezzo della giungla indonesiana, Thailandese o un qualche santuario d’Occidente che ne ospita esemplari, e ci si ritrova a offrirgli da mangiare nella speranza di riuscire a toccarlo. Il che comporta in genere uno sguardo rivolto verso l’alto, poiché si tratta di creature decisamente arboricole, nonostante la loro massa considerevole di fino a 20 Kg, che li porta ad essere i più grandi della loro categoria. E ad un certo punto, con la mano protesa innanzi, ci si ritrova improvvisamente nello stesso ruolo a quei tempi recitato da una perfetta Kirsten Durst, mentre la creatura irsuta e di colore nero, con un solo fluido movimento, inverte se stessa di 180 gradi e si appende al ramo sovrastante, mentre pende con la bocca spalancata in attesa di… Beh, questo dipenderà da voi. È possibile che dare un bacio a chi aspettava un platano da sgranocchiare sia decisamente controproducente. Del resto, potreste anche riuscire a fare colpo, guadagnando un nuovo ed inaspettato amico.
È d’altra parte notevole, soprattutto considerato il loro habitat spesso remoto e inospitale, la naturale propensione dell’intera famiglia dei viverridi ad adattarsi e a vivere a stretto contatto con gli umani, dimostrando in questo modo la stretta somiglianza biologica con uno degli animali domestici per eccellenza: il felino che abita nelle nostre case. Con cui potrebbero anche aver avuto un antenato in comune, prima che le rispettive strade percorse nell’evoluzione li portassero a cambiare ciascuno a suo modo, perseguendo degli obiettivi radicalmente diversi. Che nel caso del binturong, lo hanno reso perfetto per un ambiente come quello della foresta pluviale, o tropicale che dir si voglia, dove svolgere un’esistenza onnivora nutrendosi di piccoli mammiferi, uccelli, pesci, uova e carogne, senza tralasciare pietanze vegetali come frutta e semi. Tra cui in particolare quelli del fico strangolatore (Ficus altissima) la pianta parassita che cresce togliendo l’anima e la luce agli altri tronchi della giungla, prima che la legge della sopravvivenza riesca a renderla sovrana del proprio angolo di giungla. Ma non riuscirebbe certo a propagarsi, se non passando per l’apparato digerente di questi famelici viverridi dalla coda prensile, come quella delle scimmie…

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Tronchi tonanti nell’arena dei boscaioli australiani

Ci sono almeno due modi per abbattere un albero: il primo è per l’appunto, abbattere l’albero. Il secondo, consiste nel ricavare una tacca con la propria ascia nel suo tronco perpendicolare al suolo, incastrarci dentro l’apposita asse con un’estremità metallica e quindi salirci sopra, per praticare una nuova tacca più in alto e ripetere lo stesso gesto. Due volte, fino al raggiungimento della cima, dove s’impiega l’affilato strumento, ancora una volta, allo scopo di erodere un lato del tronco sottoposto all’atroce condanna dei cento e più colpi. Che neanche allora potrà avere fine: poiché a quel punto, l’esperto boscaiolo il più delle volte proveniente dalla terra d’Australia, dovrà compiere i propri gesti a ritroso, estrarre le tre assi e piantarle nuovamente dall’altro lato dell’albero, allo scopo di salirci e completare la rimozione della sua cima. Di certo i più attenti ai dettagli di natura maggiormente insignificante, a questo punto, potrebbero far notare che la vittima della procedura in questione non sia propriamente il tipico arbusto a fusto corteccioso, che si erge nel tipo di territorio generalmente definito come “bosco” o “macchia forestale”. In primo luogo perché manca di fronde, rami, radici, nidi di uccelli, cuoricini incisi con il coltello recanti scritte I love you. E secondariamente, per il fatto che sia stato effettivamente rimosso dal suo luogo di appartenenza, per essere eretto perpendicolarmente al suolo all’interno del più famoso stadio temporaneo della città di Sydney, indissolubilmente legato alla tradizione vecchia di quasi due secoli dello Show di Pasqua, per cui questo particolare evento ha finito per essere, annualmente, il più celebre e rappresentativo.
Lo sport noto convenzionalmente come tree felling (abbattimento dell’albero) rappresenta in effetti la singola prova fisica più difficile a cui possa essere sottoposto un individuo che si dichiari esperto nel trasformare la vita vegetale in legna da ardere o materiali da costruzione, nonché uno spettacolo dall’alto grado di spettacolarità. Questo soprattutto in funzione della durata di fino a due o tre minuti di una singola gara, decisamente superiore a quella di qualsiasi altra specialità. E non è probabilmente un caso, che la disciplina nasca e venga praticata inizialmente soprattutto nel secondo continente più meridionale al mondo, dove l’esistenza di un certo tipo di albero, e la sua importanza per l’economia locale, ha insegnato da lungo tempo a trattare la legna con un certo senso di riverenza e rispetto, in funzione dell’abilità necessaria da parte degli addetti ai lavori per foraggiarne quantità ingenti e funzionali allo scopo. Stiamo parlando, nella fattispecie, dei generi degli eucalipti e le acacie legnoscuro, entrambi notoriamente caratterizzati da quel grado di durezza che gli ha fatto riservare la definizione in lingua inglese di hardwood, la cui resistenza al di sotto degli strati esterni rende difficile abbatterli senza causare crepe lesive per la qualità finale del materiale, con una serie di problematiche paragonabili a quelle di certe varietà di marmo. E fattori addizionali, che non fanno che accrescere il grado di spettacolarità per il pubblico, il quale nel corso delle circa 10 leggendarie giornate ogni anno, potrà assistere coi propri stessi occhi al progressivo sollevarsi di un letterale vortice di schegge, scagliate in ogni direzione al sopraggiungere di ciascun colpo d’ascia portato al bersaglio; sempre sperando, comprensibilmente, che un’ascia non sfugga di mano durante l’impiego da parte del suo forzuto utilizzatore. Con un effetto nei confronti degli spalti piuttosto orribile, a immaginarsi…

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Non c’è pace nei giardini dove cresce l’albero di spade americano

Sono le 19:20 quando dopo una lunga giornata di lavoro nella placida contea del Suffolk, con al seguito le buste di un acquisto rapido dei generi di prima necessità, fate il vostro ingresso nel vialetto buio e, come sempre, parcheggiate l’automobile davanti a casa. Aperto quindi il portabagagli, prese le due buste dal peso non propriamente indifferente, vi avviate con tranquillità evidente verso l’uscio che si apre verso la cucina. Ed è allora che per un caso estremamente sfortunato, mettete il piede in fallo sullo skateboard dei vicini, lasciato qui dal loro figlio orribilmente disordinato. Un passo rapido a sinistra, per tenervi in piedi, quindi uno in avanti, e vi trovate con la fronte a pochi millimetri dalla ruvida corteccia dell’albero che la natura, nella sua infinità generosità, vi ha regalato. Del cappellino da baseball che portavate in testa, non resta traccia. Qualcosa di simile a una griglia, composta da una serie di pericolosi aculei, vi mantiene in una morsa sistematica e pericolosa. Paralizzati dal pericolo scampato, sentite qualcosa di caldo che vi cola sulla nuca… Ssangue? “Oh, dannato albero di Giuda!”
Ore 12:20, sul finire del taglio dell’erba domenicale, portato a termine col tagliaerba della John Deere. Seduti comodamente, le mani salde sopra il piccolo volante, annusate quell’odore intenso della primavera, simile all’aroma del glicine europeo. Con un rapido quanto elegante gesto, girate attorno ai tronchi dell’assembramento responsabile, sorridendo all’indirizzo di quelle piante preistoriche, simbolo di un’epoca dimenticata. Ed è allora che sentite l’odiato suono, come uno SNAP seguito da un sobbalzo del veicolo tremendamente sfortunato. Seguito dal sibilo dello pneumatico anteriore destro che perde pressione. Prima ancora di fermarvi, sapete perfettamente di cosa si tratta; “Oh, dannato albero di Giuda!”
Ore 7:00 di mattina, siete un’ape in cerca di nettare per l’alveare. Girato attorno all’area delle aiuole, v’inoltrate in territori nuovi, lungo l’asse della strada per le tipiche villette a schiera degli umani. È inverno e dunque, il buio rende impercettibili gli spostamenti ai margini del campo visivo. Un lieve fruscio, un battito d’ali, è tutto quello che avete il tempo di notare, prima che il becco dell’averla torturatrice vi ghermisca e vi trasporti in alto, verso il luogo dell’ultimo annientamento vegetale. Dannato uccello, che cosa ti ha fatto spingere fin quaggiù! L’ultima cosa che vedete, prima della fine, è l’acuminata triade di enormi aculei, lunghi come coltelli, che emergono dal tronco dell’orribile COSA. “Bzzt, dannato albero di Giuda?”
Perciò è strano, per non dire totalmente incomprensibile, che nell’intero areale di una tale pianta nessuno faccia niente per rimuoverla col fuoco, quando necessario, vista la quantità d’infortuni, danni e l’influenza spesso significativa indotta sull’ecosistema circostante. È stato spesso affermato che se può esistere una specie invasiva all’interno del suo stesso ambiente di sopravvivenza, questa è certamente il Gleditsia triacanthos, comunemente detto Spinacristi (perché sarebbe stato usato per la Sua corona) o in lingua inglese, albero della locusta del miele. Il cui nome non costituisce, incidentalmente, l’appellativo di un insetto in carne, chitina ed ossa, bensì un ulteriore riferimento biblico, al versetto del vangelo secondo Marco in cui si parla del santo Giovanni Battista, il quale espiava i peccati terreni vagabondando con un saio in pelle di cammello, mentre sopravviveva nutrendosi soltanto “di locuste e miele”. Il che conduce ad un’ulteriore analogia per lo più metaforica, possiamo ben dirlo, visto che questa specie non sarebbe giunta fino al continente eurasiatico prima del XVII secolo trascorso dopo lo svolgersi degli eventi vissuti nella provincia di Galilea (compresa l’Italia e in modo particolare la Sicilia, dove viene talvolta rinominato “acacia spinosa”). Detto ciò, non pensate che una tale pianta possa risultare utile nel procacciarsi il nettare o la mielina sotto la corteccia, usata dai sopra citati insetti eusociali per produrre quella dolce sostanza. L’unica parte commestibile dell’albero, in effetti, si trova al centro dei suoi baccelli prodotti verso il termine della primavera. Soltanto i più spericolati, d’altra parte, osano allungare le mani dentro quel groviglio acuminato, per cogliere lo snack di un tanto insignificante valore. Per gli altri, l’albero costituisce sopratutto un fastidio. Eppure, non è affatto facile liberarsene: tutti, nel suo paese di provenienza, conoscono la sua straordinaria capacità di proliferare. Disseminato da passeri, scoiattoli e altri piccoli animali, ha l’abitudine di palesarsi con rapidità inaspettata all’interno delle proprietà più disparate. Finché qualcuno, non conoscendolo o impietosito dai suoi molti tentativi, non finisce per esclamare: “Però, dopo tutto… Qui un albero potrebbe anche farci una bellissima figura.” Ed a quel punto, è troppo tardi…

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