En garde! Sto alzando il mio bastone da passeggio…

Canne de combat

…Che si chiama Durlindana! Se l’anima del samurai è la sua spada curva, arma infusa dello spirito degli antenati, quale potrà essere la nostra, di uomini privi di connotazioni bellicose? La risposta va cercata nella vita quotidiana di una volta, quando la lotta senza appositi strumenti, piuttosto che un’attività sportiva, era una pratica che proveniva dal bisogno. Ma prima d’inoltrarci nei fumosi vicoli della Londra vittoriana, piuttosto che dietro gli alti padiglioni o ai metallici edifici e simboli dell’Esposizione Universale di Parigi (quella del 1900) sarà meglio procedere con metodo scientifico appropriato. Conoscere le vie nascoste dell’autodifesa, certe volte, vuole dire prevalere sui briganti. Soprattutto nel campo eclettico delle arti marziali d’Occidente.
Nelle Olimpiadi dei tempi moderni, la cui seconda edizione ebbe luogo durante la già citata fiera internazionale, esisteva fino a poco tempo fa una sentita tradizione, praticata fino al 1992 e detta in francese (lingua ufficiale dell’evento) sport de démonstration, secondo cui alla nazione ospitante, subito dopo l’accensione della torcia titolare, veniva consentito di dar spazio ad una sua particolare tradizione atletica, non necessariamente di natura agonistica o convenzionale. E la stessa capitale della Francia, avendo ricevuto l’onore di ospitare i Giochi, mise fieramente in mostra, nell’ordine: il volo degli aquiloni, il pronto soccorso, il caricamento dei cannoni ed alcuni interessanti precursori degli sport moderni, come il tennis e il gioco delle bocce. Ci fu quindi un crescendo, nelle edizioni immediatamente successive, per eguagliare o superare tali memorabili momenti. Con proposte storiche davvero imprevedibili: il football gaelico a St. Louis, Stati Uniti (1904), il polo in bicicletta (Londra, 1908) la lotta vichinga del glima, fedelmente ricostruita grazie alle associazioni culturali di Stoccolma (1912) e il korfball, o pallacesto olandese, ad Anversa nel 1920. Ogni volta c’era una sorpresa. Fino a quel fatidico momento, dopo esattamente vent’anni e come stabilito da principio, quando l’onore di tenere i Giochi Olimpici ritornò ai parigini, coloro che, giustappunto, li avevano riportati in auge, nell’epoca dei primi notiziari radiofonici. Con la posta molto in alto e una palla a centrocampo, per usare un eufemismo, quanto meno incandescente. Come superare, in spettacolarità, tanti insigni anfitrioni dei diversi continenti?
Nessun problema: all’alzarsi del metaforico sipario sull’arena, il mondo ebbe ancora una volta il piacere di restar basito. Ecco due uomini agilissimi, in uniforme protettiva, che tentano di colpirsi alle caviglie con dei semplici bastoni. Nelle loro mani, oggetti molto simili a quello che ancora era, in quei tempi, tra gli accessori maschili largamente considerati irrinunciabili: the cane o come lo chiamavano da quelle francofone parti, la canne, oggetto fatto spesso in legno, qualche volta riccamente decorato, sempre rigido e pesante, all’incirca, quanto una sciabola da fianco. Caratteristica, questa, in grado di renderlo due volte utile, al bisogno! Come avevano notato Michel Casseux, farmacista marsigliese (1794–1869) e Charles Lecour (1808–1894) rispettivamente caposcuola e teorico dell’arte marziale del Savate, comunemente detta boxe francese. Nata, secondo la leggenda, sulle instabili navi in viaggio verso le colonie dei diversi grandi Imperi, quando i marinai, per ricevere soddisfazione in una disputa, erano soliti menar le mani in modo nuovo: ovvero, usando soprattutto i piedi, mentre con quelle si reggevano al sartiame. Per poi sbarcare, qualche tempo dopo, e prendersi a sonore mazzate.

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La leggenda delle torri sull’Oceano

Lighthouse relief

La nostra bestia addormentata, questo dinosauro-continente, vanta l’ornamento di due corni che si estendono verso le acque d’Occidente, percossi dalle turbolente onde dell’Atlantico selvaggio: sono la Cornovaglia d’Inghilterra, da una parte, e dall’altra la propaggine finale della Francia, tanto prossima a quell’altra, anche culturalmente, che già i Romani la chiamavano Britannia Minor, vista l’evidente analogia. Appellativo che nel tempo diventò Bretagna, ritrovandosi l’aggiunta di un trascurabile fonema /ɲ/ [-gn]. Ben poco cambiò il nome, di una tale terra, di Namneti, Osismi, Lexovii, Baiocassi, Diablinti, Coriosoliti, e di tutti gli altri popoli del ceppo celtico, tanto numerosi e variegati, quante le insenature delle loro coste, così poste sull’estremo settentrione. Molto cambiò invece il resto, di palazzi e torri, fari persi tra tempeste battenti… Non rassomiglia certamente al corno di una mucca, questa penisola, bensì a quello di un possente cervo. Perché ha duecento ramificazioni, scogli acuminati e piccole propaggini sabbiose, ostacoli tremendi alla navigazione. Molto più benevoli furono Scilla e Cariddi, gli antichi mostri geografici della nostrana tradizione, al confronto di una tale zona frastagliata, dove le fredde acque del Baltico e del Mar del Nord, sfociando nell’Oceano, turbinando si trasformano e scatenano la loro forza. Il placido Mediterraneo, culla di grandiose civiltà, mai conobbe questa guerra tra giganti. Per fortuna: che può fare l’uomo, contro tali forze? Guardarle, sorvegliarle, fargli luce nella notte, al massimo, per la maggiore sicurezza dei natanti. La Jument. Nividic. Kreac’h. Nomi che risuonano del peso dei naufragi ormai trascorsi. Questa è la ragione di tre torri, naufragate in questo mare da cent’anni, eppure, mai perdute, ancora vive e vegete, soprattutto grazie all’operato dei sistemi meccanici informatizzati – Non c’è molto da meravigliarsi. Ben pochi coraggiosi, oserebbero salire in sedi come queste.
Che noia, la vita del guardiano del faro! O almeno così dice, chi ancora non l’ha mai provata. Nel video soprastante, caricato giusto ieri su YouTube, viene mostrata l’esperienza memorabile del cambio della guardia presso un tale regno del sensibile, oltre lo sguardo di chi vive sulla terra firma propriamente detta. Della solida pietra su cui poggia il plinto, da cui sorge l’edificio, non v’è traccia; è stata nascosta, sia ben chiaro, dalla spuma delle acque turbolente. Non è questa una torretta galleggiante verticale, da cui calarsi sull’imbarcazione, giunta misteriosamente in mezzo al nulla. Se così sembra, sarà uno scherzo dell’inquadratura. C’è un segreto. Altrimenti a cosa servirebbe la testimonianza? La costa non compare mai, nell’iconografia dei fari.

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Napoleone prima dell’epoca di Excel

Charles Minard

Che l’avanzata del progresso sia stata tracciata dai fermi propositi dei grandi personaggi, piuttosto che dalle gesta dei popoli sospinti dal bisogno, è tra le maggiori questioni a carico della storiografia moderna. Tuttavia, almeno questo è certo: la vicenda umana è fatta con i numeri. Un crogiolo di cifre soggette ad infinite connessioni, l’estrapolazione di un fondamentale database che, proprio in quanto tale, può riassumersi attraverso infinite metodologie di visualizzazione. Siamo tutti dei computer, soprattutto dinnanzi agli occhi stocastici della sociologia. 1869, appena 56 anni dopo l’ingloriosa conclusione della campagna russa di Napoleone: Charles Joseph Minard, ingegnere civile francese della École nationale des ponts et chaussées, disegna la sua infografica migliore. Forse la più celebre di sempre, un disegno annotato in poche linee, con appena due colori, attraverso cui ricompaiono i passaggi progressivi di una terribile tragedia generazionale, la marcia che costò la vita ad oltre 400.000 giovani soldati di un’Europa in guerra. E chissà quanti altri fra civili russi, contadini, artigiani moscoviti e spettatori intrappolati ingiustamente tra le serpeggianti spire degli eventi.
Come per il quadro di Jacques-Louis David, Napoleone al Gran San Bernardo, in cui lo splendido condottiero sovrasta le Alpi dalla sella del suo immancabile destriero bianco, il diagramma di Minard possiede una forza espressiva che colpisce gli occhi al primo sguardo e poi, lentamente, riempie la mente di nozioni, valide ad interpretare l’epoca e il suo formidabile protagonista. È un logotipo precursivo, la prima manifestazione di un metodo dialettico senza termini di paragone coévi. Ci sono vari modi per avvicinarsi ai classici dell’arte, sia questa l’opera di un pittore, poetica e idealizzata, oppure quella tecnica ed ingegneristica, di chi analizza i fatti per il tramite di quote, vettori e punti cartesiani. Eccone uno interessante: nel video di apertura, creato dallo YouTuber Brady Haran, traspare un certo grado di spontaneità, l’entusiasmo di un appassionato numerologo che si applica ad una branca trasversale, questo studio geometrico dell’epocale sconfitta di Napoleone. Perché sua è la consapevolezza di un vantaggio implicito della sua scienza: purché i dati di partenza siano giusti, ciò che ne deriva è pura verità.

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Sorvolando le Alpi con gli sci

Vincent Descols

Lo speed flying è quello sport estremo, nato in Francia sull’inizio del 2000, che combina il base jumping, lo swooping col parapendio e gli sci, da praticarsi rigorosamente, pericolosamente fuori pista. Scegliendo un picco sufficientemente dirupato, l’aspirante pilota, un comprovato esperto di ciascuna delle tre discipline costituenti, delinea la sua strada personale verso il predominio di natura e forza gravitazionale, sull’onda in piena dell’adrenalina e dello spirito sperimentale. Come il falco e come il vento, a 140/150 Km/h. A seconda dei casi, questo temerario, inseguendo l’obiettivo dello sguardo, percorre candide distese, vuoti d’aria tra rocce spigolose oppure boschi, sempre, comunque, verso il fondo della valle, sia questo sito a centinaia, oppure migliaia di metri di distanza. Tale pratica potrebbe dirsi, fondamentalmente, la versione più accessibile del folle balzo con la tuta alare. Oppure, a seconda dei punti di vista, del più fantastico, e avventuroso, sistema per saltare con gli sci. Per toccare terra, mirabilmente, un paio di chilometri più giù. Il punto di fuga, dopotutto, è sempre quello – cambia solo il modo di arrivarci.
Non c’era un trampolino, quel giorno sul tracciato alpino scelto da Vincent Descols, detto Le Blond, colui che ha scelto il nome dell’evento: Denivelator. Neanche un precedente, visto che si trattava di “aprire” nuove strade; c’erano soltanto quattro vele, otto sci, molta voglia di provarci. Partecipavano, per l’appunto, anche Julien Fassino, Marine Galves e Anaël Vaquette. Qui compaiono soltanto sul finale, già giunti sull’invisibile linea del traguardo, in attesa del protagonista della scena. Il video dell’impresa, registrato con la sua telecamera da casco, è presente su YouTube da qualche anno, nonostante il medio-basso (in proporzione) numero di visualizzazioni – risale, nello specifico, al 2012. Il nome della montagna, purtroppo, resta misterioso.

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