Appare strano voler individuare nella comunicazione di questo periodo, tra tutti quelli di cui abbiamo memoria, un qualsivoglia tipo di tendenza alla spensieratezza. Eppure forse proprio per la complicata concatenazione degli eventi, verso una stagione festiva tra le più buie di cui recenti (e non tanto recenti) giovani abbiano memoria, il desiderio di sorridere si fa quasi palpabile, con lo sguardo attratto da ogni cosa strana, surreale o insolita rispetto al prevedibile grigiore della pandemia incipiente. Ed è per questo che negli ultimi giorni, forse complice la sua ricomparsa all’interno di un montaggio dei “momenti più divertenti” del canale di URBEX “Exploring the Unbeaten Path”, questo particolare frangente registrato oltre un anno fa dai viaggiatori Bob Thissen & Frederik Sempels si guadagna (nuovamente?) uno status di video virale, circolando con un alto grado di visibilità tra i soliti canali social e i portali della stampa internazionale. Per una chiara ed evidente carica umoristica, sottolineata dalle contagiose risate dei protagonisti, che si aggirano increduli all’interno di un edificio religioso ragionevolmente integro, sebbene inclinato fino alla pendenza di 17 gradi, contro gli “appena” 3,97 della torre di Pisa. Una visione certamente insolita, che giustifica il divertimento di coloro che si trovano fuori contesto ad affrontare un simile fatto straniante, compresa la stragrande maggioranza degli spettatori digitali di quei momenti. Sufficientemente ragionevole potrebbe risultare, d’altra parte, un’aspettativa di maggior cautela ed approfondimento presso chi ha l’inclinazione a definirsi una testata giornalistica o d’informazione, piuttosto che la semplice didascalia sulla location disastrata, quasi si trattasse di un’insolita attrazione per i turisti di quel paese. Questo perché il villaggio di Ropoto, forse anche contrariamente alle apparenze, non è un parco di divertimenti come la “casa storta” di Mystery Spot vicino a Santa Cruz, in California. Ma l’effettiva conseguenza di un’ora derelitta, l’attimo abbastanza inaspettato in cui natura e aspirazioni dell’uomo, per una coincidenza di fattori, si trovarono a cozzare fortemente l’uno contro l’altra. Finendo per costare, molto, moltissimo, a un gran totale di 300 famiglie che abitavano nell’area circostante al palcoscenico inclinato di un così notevole show.
Che la Grecia sia un territorio geologicamente complicato, d’altra parte, è un fatto largamente dato per buono da ampie fasce di utilizzatori del senso comune, sebbene un tale assioma tenda a prendere direttamente in considerazione soprattutto i sommovimenti di tipo sismico, lasciando in secondo piano il secondo pilastro di un così potente potenziale di crisi: l’instabilità o mancanza di compattezza, dovuta alla composizione spesso incerta, del sottosuolo. Una piccola svista forse, ma dalle ramificazioni imprevedibili, soprattutto quando a commetterla sono proprio i pianificatori e supervisori dello sviluppo urbanistico, come quelli che cominciarono a inviare segnalazioni di strane crepe nei muri verso la fine degli anni ’60, motivando alcuni tentativi di sondaggio e un’evacuazione preventiva del centro cittadino. Se non che l’attesa ora del disastro sembrò tardare a palesarsi, così da indurre l’emergenza a rientrare formalmente ed un ritorno alle comuni iniziative architettoniche di un centro abitato dall’economia fiorente. Centrale nella verdeggiante e popolosa comunità della Tessaglia, situata non troppo lontana dalla città di Trikala, era sempre stata una redditizia industria agricola guidata dal successo e la qualità dei meleti locali, oltre alla presenza di un certo numero di distillerie, verso l’acquisizione di una piccolo tesoro che gli abitanti non avevano tardato a reinvestire nelle cose che trovavano maggiormente importanti. Con la costruzione di molte abitazioni ragionevolmente lussuose, ma anche la scuola, la grande chiesa, un capiente e moderno albergo. Sembrava in quegli anni che nulla fosse più facile da ottenere che un permesso edilizio, mentre ogni preoccupazione pregressa svaniva come un ombra verso l’orizzonte della brughiera. Questo almeno finché il 12 aprile del 2012, per una convergenza di fattori tra cui una lunga serie di piogge, successiva ad un periodo di temperature sufficientemente elevate da causare lo scioglimento di un ghiacciaio vicino, l’acqua di un torrente aumentò fino a penetrare attraverso gli strati permeabili del suolo. Primo capitolo, attraverso le pagine pregresse della nostra Storia, di un alto numero di tragiche frane o smottamenti…
geologia
La rara “pietra danzante” che si piega come fosse una piadina romagnola
In molti ricorderanno attraverso il corso delle proprie esperienze cinematografiche degli anni ’80 il personaggio del Mordiroccia, descritto dallo scrittore originale del romanzo Michael Ende come un gigante dalla pelle coriacea, capace di trarre sostentamento tramite il consumo di materia non organica, frantumata entusiasticamente tra i suoi denti simili a possenti mole. Ultimo della sua specie (come potrebbe essere altrimenti) l’essere descrive quindi all’eroe protagonista della narrazione il gusto posseduto dai diversi minerali: la spontanea dolcezza dello zinco, il sapore salato del rame, l’intenso umami posseduto dal ferro. E le consistenze tanto varie e sconosciute agli uomini, numerose quanto quelle di pietanze distribuite sulle nostre tavole dell’ora di cena. Ma se quel titano gentile, ci viene dato ad intendere, avesse mai voluto masticare, masticare qualche cosa per un tempo superiore al singolo minuto, si sarebbe ritrovato a fare i conti con un grave ostacolo procedurale: l’effettiva mancanza, a beneficio delle proprie proporzioni e preferenze alimentari, di un qualcosa che potesse fungere in maniera simile ad un chewing gum. Un gran peccato, per il regno di Fantàsia, quando si considera come la nostra prevedibile e familiare Terra ospiti tra i suoi depositi geologici qualcosa in grado di servire esattamente a tale scopo. Una cosa che parrebbe sfuggire alla definizione stesso del concetto espresso da tale parola, eppure per sua formazione, provenienza e composizione, giammai potrebbe essere null’altro di apprezzabile dall’esperienza sensibile di chi usa gli strumenti della ragione. “A-arenaria?” Pare quasi di sentire il rombo che riecheggia in mezzo alla palude, mentre mette in bocca il singolare dono proveniente dall’altro lato del portale: “Quanto dura il suo sapore, oh, quanto dura!”
Più che dura ed abbastanza, potremmo affermare con particolare presenza di spirito e d’intenti. Poiché qui di effettivamente durevole, c’è soltanto quello; mentre il pegno mineralogico del nostro affetto, con tanta magniloquenza offerta all’imponente ospite della serata, oscilla a trema, si piega e non mantiene la sua forma. Ovvero tutto quello che ti aspetteresti da un qualcosa di derivazione vivente, ovvero scheletro o residuo di esseri già fagocitati dal furioso Nulla delle circostanze. Niente di più sbagliato… Di questo! Griderebbe al nostro indirizzo il Marchese di Lavradio, vicerè di Rio de Janeiro, che per primo nel 1780 scoprì e descrisse le notevoli caratteristiche di un tale materiale ritrovato presso il monte Itacolumi, nella porzione meridionale della regione sudamericana di Minas Gerais. Mancando di assegnarli un nome ma annotando la presenza di una certa quantità di talco, clorite e mica, all’interno di un corpo mineralogico a base di arenaria fissile trovata nel sostrato coloniale. E soprattutto la capacità niente meno che sorprendente, da parte di un simile soggetto sperimentale, di piegarsi per l’effetto di una sollecitazione ragionevole, o persino sotto il suo stesso peso, una volta tagliata in strisce abbastanza sottili. Una dote per di più isotropica, ovvero indipendente da una singola direzione della grana, bensì in grado di verificarsi lungo l’estendersi dell’oggetto in qualsivoglia senso, proprio come si trattasse di un foglio di carta o tappetino per il bagno ammorbidito dall’acqua furiouscita da una vasca eccessivamente piena. Pur mancando dei moderni metodi d’analisi petrologica, e mancando di assegnargli un nome più specifico di quello di “arenaria flessibile” il Marchese avrebbe quindi trovato una conferma delle sue ricerche nei rapporti di Mr R.D. Oldham, direttore dell’Istituto Geologico dell’India, capace di trovare un tipo di pietra molto simile presso le pendici del monte Kaliana, vicino Dadri a Jhind. Con la sola significativa differenza di una grande quantità osservabile di quarzite nella sua composizione, tuttavia capace di accrescere, piuttosto che diminuire, le sue implicite capacità di flessione. Un effettivo appellativo utilizzabile per il concetto di tale misteriosa materia sarebbe quindi giunto dal mondo accademico europeo, alla consegna dei campioni in sede al geologo Von Eschwege, che scelse di chiamarla semplicemente itacolumite, dal suo luogo di provenienza originale in Brasile. Fu questo l’inizio, di un lungo periodo d’approfondimento ed introspezione…
L’albero africano che potrebbe possedere la capacità d’individuare i diamanti
Il fatto che una forma di vita vegetale possa essere utilizzata, per associazione diretta, come punto di riferimento al fine di procedere allo sfruttamento di una specifica risorsa terrestre ha sempre costituito una cognizione controintuitiva, ma non totalmente limitata al mondo metafisico della prospezione alchemica e la presunta veggenza dei minatori. Così come ampiamente dimostrato, fin dal tardo Medioevo, dai cercatori di metalli utili in Svezia, che erano soliti attivarsi unicamente in presenza di macchie violacee di Lychnis alpina, pianta perenne anche nota come “fiore del rame”. Una correlazione di tipo popolare che soltanto avrebbe molti anni dopo trovato la conferma, grazie all’applicazione del metodo scientifico, grazie alla capacità del suddetto vegetale nel riuscire a tollerare ingenti quantità di un simile metallo, generalmente tossico per qualunque arbusto incline a mettere radici o far sbocciare la propria chioma. Che oggi questo approccio alla questione possa risultare utile, nell’applicazione della scienza poco nota della geobotanica, resta tuttavia opinabile, data la relativa facilità nell’individuare simili depositi mediante l’impiego dei mezzi tecnologici contemporanei: magnetico, gravimetrico, radiometrico, sismico… Considerate ora, di contro, l’ipotetica identificazione di un marker vivente utile al ritrovamento di una pietra minerale assai più rara, e interconnessa ad una fitta rete di misticismo economico al punto di essere considerata favolosamente (e non del tutto giustificatamente) preziosa. Sto parlando del diamante, ovviamente, nient’altro che un cristallo trasparente di carbonio i cui atomi, sotto pressioni straordinariamente significative, hanno assunto una disposizione del reticolo a struttura tetraedrica, agevolando la trasformazione in uno dei più significativi simboli materialistici del Vero Amore. O almeno questo ci hanno insegnato a pensare alla De Beers e altre aziende del settore, attraverso una campagna di marketing che dura ormai da più di un secolo, fondata sul controllo ferreo del mercato e delle fonti geograficamente limitate di una così inaccessibile, e relativamente rara risorsa terrestre. Miniere per le quali sono state combattute vere e proprie guerre, paesi disagiati hanno schiavizzato la loro stessa popolazione e interi racket internazionali hanno continuato a sfruttare il segreto di una delle pulsioni più antiche e imprescindibili della razza umana: l’avidità. Possibile che in questo intero mondo, assoggettato a regole fisiche e biologiche ormai largamente acclarate, non esista un tipo d’approccio migliore?
Questa domanda sembrerebbe essersi posto a priori Stephen Haggerty, ricercatore di Scienze della Terra presso l’Università Internazionale della Florida, fino alla pubblicazione di uno studio 6 anni fa che avrebbe potuto anche rivoluzionare i metodi di prospezione diamantifera impiegati nell’intera Africa Occidentale, se non ci fossero stati fortissimi interessi nel mantenimento di un redditizio status quo procedurale. E il tutto a partire da una mera osservazione effettuata nel corso di una collaborazione mineraria in Liberia, durante cui ebbe modo di registrare la presenza di una strana pianta in corrispondenza di quello che viene geologicamente definito come un tubo di kimberlite, ovvero il residuo stratigrafico di un antico condotto magmatico, dalle distanti viscere della Terra fin quasi alla superficie. Per un’associazione poi riconfermata in un secondo ritrovamento, situato ad oltre 50 Km di distanza.
Di un tipo di formazione, spesso considerata difficile da individuare, formalmente associata ad una buona percentuale di depositi diamantiferi economicamente redditizi, stabilendo siti utili all’inaugurazione di un nuovo impianto di scavo. Ma sarebbe ancora davvero opportuno considerare tali luoghi un segreto, dal momento in cui un arbusto alto 25-30 metri diventasse il punto di riferimento estremamente chiaro, nonché visibile sulla distanza, della potenziale cornucopia di un tesoro in pietre preziose? Il tutto previa identificazione non propriamente facilissima, s’intende, del perché e del cosa…
Il grande albero di magma che lambisce il sottosuolo dell’isola di Réunion
Immaginate dunque la sorpresa degli scienziati, successivamente all’attivazione dei primi sismografi moderni a banda larga, nello scoprire come non tutte le onde dei terremoti viaggiassero alla stessa velocità. Ma piuttosto in punti definiti, volta dopo volta, subissero rallentamenti esattamente prevedibili, causando uno scaglionamento nella propagazione circolare del turbamento. Questo perché nessun tipo d’energia, per quanto primordiale e imprescindibile, può muoversi allo stesso modo indipendentemente dal materiale che la circonda. E là sotto, molti chilometri sotto la superficie della Terra, c’era un qualcosa in grado di opporre resistenza rispetto alla formazione di una serie di cerchi perfetti. Ci sarebbero voluti tuttavia parecchi anni, e formalmente fino alla proposta elaborata nel 1963 dal geologo canadese J. Tuzo Wilson, affinché s’iniziasse a comprendere la possibile ragione di una tale serie d’anomalie. Con l’ipotesi ambiziosa ma del tutto inconfutabile, che in determinati punti della geografia planetaria, dei veri e propri condotti attraversassero lo spesso strato tra il fondo del mantello e la crosta, all’interno dei quali roccia incandescente, e per questo fluida, risaliva costantemente verso la superficie. Radici dei vulcani, senz’altro, ma anche venature profondissime capaci di modificare la percezione stessa su cui possiamo basarci in relazione alla struttura stessa dell’unico corpo astrale che sappiamo essere stato in grado di ospitare la vita senziente. Con il tempo, ed analisi progressivamente più precise, saremmo giunti ad un quadro piuttosto chiaro ed approfondito della situazione, coerente ad una serie di regole fisiche del tutto ragionevoli e conformi alle teorie di partenza. Almeno, fino al progetto franco-tedesco denominato RHUM-RUM (Réunion Hotspot and Upper Mantle – Réunions Unterer Mantel) iniziato nel 2012 per approfondire l’esatta forma di uno dei punti di attività simica e vulcanica più rilevanti in assoluto. Il cui studio approfondito avrebbe dato vita alla metafora vegetale più gigantesca ed impressionante nell’intera storia pregressa della geologia umana. Un’effettivo Albero della Creazione, capace di agire come un ponte metafisico tra i mondi. Le cui ramificazioni (in più di un senso) stanno finalmente iniziando ad apparire chiare soltanto al trascorrere di un periodo di quasi dieci anni…
Veniamo a noi nello specifico, ovvero presso la parte occidentale dell’Oceano Indiano, nell’isola di lingua ed amministrazione francese situata 550 Km ad est del grande Madagascar, nota fin dal 1793 con il nome di Réunion. Oltre che per l’insistente possenza della sua attività vulcanica, perfettamente esemplificata dal temibile vulcano centrale di Piton de la Fournaise. Terra emersa situata in corrispondenza del tragitto compiuto, a partire da 71 milioni di anni fa, dallo spostamento progressivo della placca che sarebbe diventata un giorno il subcontinente indiano. Eravamo quindi attorno ai 66,25-66 mya quando, secondo gli studi effettuati sulla composizione e la stratigrafia del suolo, nella storia del pianeta sarebbe capitato qualcosa d’inusitato: l’accumulo di lava fusa in prossimità della superficie, attraverso il progredire di molti millenni pregressi, avrebbe raggiunto il punto critico di non ritorno. Per scaturire all’improvviso verso la parte meridionale dell’India, con la massima potenza, in un’area grossomodo corrispondente al territorio intero dell’Europa Centrale. Fu questa l’epoca di formazione dei vasti Trappi del Deccan, oggi definiti una semplice “provincia ignea” ma che attraverso un periodo di molti secoli, avrebbero assunto l’aspetto di un vero e proprio oceano di fuoco e pietra fusa, letteralmente inavvicinabile per la vita. Nonché potenzialmente, uno dei fattori contributivi nei confronti dell’estinzione dei dinosauri. Abbastanza da giustificare la disposizione, previa raccolta di una quantità di fondi adeguata, di una colossale rete di sismografi entro un territorio di 2.000×2000 chilometri quadrati attorno all’isola, finalizzata all’ottenimento di un quadro esatto delle condizioni capaci di scatenare una simile furia, e nella speranza che nulla di simile potesse accadere di nuovo. Ma l’effettiva natura del mistero, in se stessa, era ancora ben lontana dal poter rivelare l’intera portata della sua imprevista essenza!