Duello di gole ringhianti tra il sibilo dei venti canadesi

È un’osservabile caratteristica di molte culture tra quelle che vivono a stretto contatto con la natura, dipendendo da essa per la propria sopravvivenza e il benessere della propria famiglia, il costante ed enfatico tentativo d’imitare alcune delle sue caratteristiche più importanti. Le forme di piante, animali e paesaggi attraverso la pittura. La relazione tra causa ed effetto nelle espressioni letterarie di tipo folkloristico/tradizionale. Ed i suoni più armonici prodotti da uccelli, artropodi e mammiferi, grazie alla messa in pratica pratica di una o più sofisticate tradizioni musicali. In nessun caso, tuttavia, quest’ultimo punto è maggiormente evidente rispetto al modo in cui avviene per gli Inuit dalla parte settentrionale del Quebec, che potreste conoscere con la definizione risalente a qualche secolo fa, oggi considerata erronea, di eschimesi. Dove proprio l’assenza, piuttosto che la presenza di molte delle succitate fonti d’ispirazioni, ha saputo creare nel contesto di un’epoca remota ed incerta una particolare espressione canora, che pur trovando corrispondenze funzionali nella tradizione di paesi distanti, possiede alcune caratteristiche in grado di renderla fondamentalmente unica nel mondo. Katajjaq o il “duello delle due voci femminili” (un termine d’etimologia incerta) che si dice derivare direttamente da un contatto accidentale tra una famiglia dei tempi che furono e le demoniache teste volanti degli uomini-uccello tatuati che abitano gli igloo abbandonati, comunemente chiamati col nome onomatopeico di Tunnituarruit, i quali erano soliti comunicare con suoni gutturali e ringhianti che noi potremmo definire simili al verso prodotto da rane, lupi o cornacchie in amore. Un paragone prosaico che lascia presagire come, questa particolare espressione etnomusicale non vada effettivamente ricondotta a una qualche rigida tradizione sacrale ed immutabile, costituendo piuttosto l’esempio evidente di un piacevole, divertente e talvolta comico passatempo. Messo in pratica, fin dall’albore dei tempi, dalle mogli e figli di coloro che andavano a caccia per procurare fondamentali mezzi di sostentamento, con soltanto la vaga speranza che potesse saziare gli spiriti, rivelandosi in qualche modo di buon auspicio.
L’espressione più tipica del canto di gola katajjaq, spesso di tipo bitonale come quello tuvano o mongolo (ma non sempre) si svolge secondo una metodologia e prassi rigorosamente tramandate in giovanissima età, fin da quando le bambine piccole vengono portate in giro dalle loro madri all’interno dello speciale cappuccio dell’amauti, il caratteristico parka di queste popolazioni. Configurato come una gara d’abilità o per essere più specifici, della capacità di mantenere la concentrazione e far durare il fiato. Le due praticanti prendono posizione a poca distanza, con le mani rispettivamente sui fianchi o le spalle dell’altra, fissandosi intensamente negli occhi. Quindi una di loro inizia ad emettere un suono ripetuto, che può essere un singolo fonema latore di significato, ma anche una sillaba senza senso, un’esclamazione o un risucchio. Al quale, entro pochi secondi, l’altra dovrà rispondere, insinuando al propria voce nei brevi attimi in cui la rivale dovrà fermarsi a riprendere il fiato. E così via a seguire vicendevolmente, in un crescendo d’intensità e armonia (almeno, auspicabilmente) che può soltanto condurre a due possibili esiti: che sia l’una, oppur l’altra, a stancarsi scoppiando a ridere per nascondere l’imbarazzo. Il che segnala, per le eventuali spettatrici o spettatori, il momento per esultare della vittoria e rallegrasi al tempo stesso dell’ironia di colei che ha perso. Null’altro più che un gioco, dunque, ma quel tipo di gioco che deriva in maniera diretta dalla conoscenza mantenuta in forza degli antichi idiomi, metodi e significati, di regioni come il Nunavik, l’Arviat e le isole di Baffin. Al punto da aver conseguito, a partire dal 2014, il prestigioso status di elemento immateriale del Patrimonio Culturale della provincia del Quebec, arrivando ad essere messo in scena durante importanti eventi politici e speciali circostanze…

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Il triste fato del castello più inutile degli Stati Uniti

Fucili spianati, picche acuminate, tizzoni ardenti. Quale, tra i due popoli non propriamente nativi che occupano i più vasti territori del continente nordamericano sareste maggiormente inclini ad associare a simili implementi di guerra? Ebbene, se aveste rivolto una simile domanda a James Madison, rifugiatosi nel villaggio di Brookeville dopo la sconfitta delle sue truppe a Bladensburg nel 1814, egli non avrebbe esitato neanche l’alito di un singolo istante: “Quello a cui appartengono le truppe che, sotto la guida di un feroce generale, stanno facendo del loro meglio per radere al suolo Washington e la stessa Casa Bianca.” Già perché erano in molti a dimenticare, persino allora, come il Canada facesse ancora parte ufficialmente dei possedimenti di re Giorgio III del Regno Unito, e in funzione di ciò, presidiato da soldati inglesi, cannoni inglesi e i fedeli benché naturalizzati militi profondamente avversi alla rivolta più eclatante nella storia del colonialismo europeo. Caso volle che la notte di quel fatidico 24 agosto, ad ogni modo, una tempesta estiva imprevista avrebbe scatenato ettoliti infiniti sulla città messa a ferro e fuoco, spegnendo gli incendi e calmando gli animi col flusso purificatore dei rovesci. Così mentre l’acqua ancora scorreva assieme alle copiose lacrime, l’uomo più potente del suo paese si prese la briga di formulare un giuramento: “Mai più, mai più dovrà succedere qualcosa di simile!”
Ci sarebbe stato, dopo tutto, un seguito: la famosa battaglia del lago Chaplain, vero e proprio portale d’accesso verso il fiume Hudson e attraverso quello, il cuore stesso della nazione, combattuta soltanto due settimane dopo, nel corso di quel grave conflitto destinato a passare alla storia come “guerra del 1812” e considerato dal punto di vista europeo come un mero teatro secondario delle guerre napoleoniche. E sebbene gli americani avrebbero, almeno in quel caso, conseguito il loro trionfo ed ottenuto il favorevole trattato di Ghent, loro massima preoccupazione fu assicurarsi che i nuovi possedimenti stessero al sicuro da eventuali eventi di una comparabile gravità. Ragion per cui, il presidente giunto quasi al termine del suo mandato nel 1817 diede l’ordine che lì venisse costruito un forte inespugnabile, dotato delle ultime tecnologie e soluzioni difensive. Ad occuparsi della sua messa in opera sarebbe stato niente meno che Joseph Totten, uno dei pochi genieri militari ad aver raggiunto il rango informale di eroe della Repubblica, grazie al successo conseguito dalle sue fortificazioni proprio durante i recenti conflitti con il Canada inglese, mentre il nome attribuito all’edificio avrebbe dovuto richiamarsi a niente meno che Richard Montgomery, il fiero generale di origini irlandesi in grado di dare inizio, quasi 60 anni prima, al difficile progetto di espugnare e conquistare l’intero Canada, soltanto per perire coraggiosamente nel corso dell’assedio di Québec City assieme al sogno di una così remota idea. Ma il possente forte dalla pianta a stella sarebbe stato destinato a passare alla storia con un diverso e ben meno lusinghiero nome: “Forte Cantonata”, principalmente per il fatto che, come si scoprì soltanto troppo tardi, l’isola artificiale sopra cui sarebbe sorto era stata costruita, per un “piccolo” errore, al di sopra del 45° parallelo. Il che ne faceva, per tutte le leggi ed i trattati vigenti, un possedimento legittimo del Canada e dei suoi soldati. Il cantiere venne dunque abbandonato immediatamente, mentre l’amministrazione dei presidenti successivi a Madison fece la promessa implicita di non parlarne mai più. Ma la storia, si sa bene, è una creatura fluida e imprevedibile, ragion per cui trent’anni dopo, alla stipula del nuovo trattato di Webster–Ashburton del 1842 grazie alle argute manovre diplomatiche di John Tyler, decima persona a ricoprire quell’ambita carica, la parte settentrionale del lago Chaplain sarebbe ritornata sotto il controllo americano. E con essa, l’isola costruita come unico bastione nella parte settentrionale di quel territorio vasto e incontaminato. Al che venne deciso che il mai dimenticato Montgomery avrebbe ricevuto, finalmente, il suo castello. E così fu.

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Anno 1899: la nave che sfidò le regole dello spazio-tempo

Esiste una tradizione mai ufficialmente discussa che costituisce l’unico caso in cui un’imbarcazione militare toglie temporaneamente la bandiera americana, per sostituirla con la macabra Jolly Roger: il teschio e le ossa incrociate usato dai pirati dei Caraibi, come i loro emuli di altre regioni del vasto mare. O almeno, questo afferma la diceria: che nel preciso momento in cui ci si ritrovi ad attraversare l’equatore per la prima volta (ed è praticamente impossibile, con le oltre 1.000 persone a bordo dei vascelli più imponenti, che almeno un membro dell’equipaggio manchi di una simile esperienza) ci si dimentichi temporaneamente il proprio ruolo istituzionale con il beneplacito del capitano, per dare inizio all’importante cerimonia di nomina dei nuovi shellback: ovverosia letteralmente, quei marinai che accedono finalmente alla corte di Nettuno, diventando degli “onorati crostacei” potendo finalmente porre un tale marchio sulla propria promettente carriera. Anticamente, a quanto pare, l’evento includeva veri e proprie tecniche di hazing tra cui colpire i malcapitati con delle corde bagnate o assi di legno, quando non addirittura gettarli fuori bordo e recuperarli con la massima calma, in mezzo alle onde spaventose dell’oceano esterno. E benché simili spiacevoli o pericolosi rituali siano oggi soltanto un ricordo lontano, un qualche tipo di rituale, con recite ampollose e vari tipi di commenti umoristici viene compiuto tutt’ora, più o meno rilevante a seconda della tolleranza del proprio capitano.
Varcare questa linea immaginaria che divide l’emisfero settentrionale da quello meridionale, è inutile negarlo, costituisce un momento già notevolmente significativo, in cui si passa istantaneamente dall’inverno all’estate o viceversa. Esiste però un tipo particolare di veterano-guscioduro, il cosiddetto shellback dorato, che in un momento compatibile della propria esperienza pregressa si è trovato ad attraversare un’altro fondamentale confine: quello della linea della data internazionale. Immaginate quindi di viaggiare in senso contrario alla rotazione della Terra, presumibilmente in aereo, a una velocità superiore ad essa. Ad ogni fuso orario attraversato, perderete un’ora, viaggiando idealmente indietro nel tempo. Finché, oltrepassato trasversalmente il Passaggio a Nord-Ovest tra l’Alaska e la Siberia Orientale, questo vostro guadagno dovrà essere “compensato” portando avanti di un giorno il vostro calendario. La cerimonia di nomina dei golden shellback, idealmente piuttosto rara, si verifica in realtà a seguire di un particolare tragitto: quello che separa il Canada dall’Australia. Che diagonalmente interseca, la maggior parte delle volte, l’incrocio esatto tra equatore e linea della data, facendo dei suoi veterani non più meri sicofanti, bensì veri e propri compagni onorati della corte del dio dei Mari. Ma se ora vi dicessi che l’attraversamento, maggiormente significativo nella storia, di questo punto saliente sulle mappe non è in realtà stato compiuto dai fieri depositari di tale nomina, bensì da una nave civile a vapore, alla soglia dell’inizio del secolo scorso e come orgogliosamente testimoniato dalla quasi totalità dei suoi passeggeri?
Sto parlando della SS Warrimoo (dal nome di un villaggio nell’Australia meridionale) il cui capitano ricevette, nel giorno esatto del 31 dicembre 1899, una nota strano appunto del suo vice, esperto utilizzatore di cronometro marino e sestante. “Signore, mi ascolti. Anche in assenza di un dispositivo di geolocazione fatto funzionare mediante il segnale di un carro magico nei cieli, sono riuscito a determinare che la nostra posizione in relazione al preciso momento storico ci permetterebbe, volendo, di diventare l’Alfa e l’Omega dei sette mari…” John Phillips, fresco di nomina da parte della neozelandese Union Company, ci pensò soltanto per qualche secondo. Quindi, con un ghigno fanciullesco, diede l’ordine al timoniere di alterare lievemente la rotta, verso l’inseguimento di un sogno.

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Il tortuoso viaggio di una torre alta 96 metri

Dei tipi davvero complicati, questi idrocarburi. Non puoi vivere a stretto contatto con loro, ma non puoi nemmeno farne a meno. Resti fossili della Preistoria, rimasugli liquidi o gassosi di creature ormai dimenticate, trasformazione alchemica di ciò che un tempo camminava, strisciava, nuotava e volava su questa Terra. Oggi preziosi per una ragione sopra tutte le altre: la combustibilità. Ma non solo. E se io fossi qui per ricordarvi come ogni oggetto di plastica nelle vostre case costituisce in realtà la remota derivazione di un’insieme di cellule un tempo scintillanti, sublimate da quel brodo primordiale per trovarsi riordinate in un reticolo proficuo ed altrettanto redditizio? Attraverso uno specifico processo condotto in verticale dentro l’alambicco, in ciò che abbiamo la capacità di ricondurre al semplice strumento di un laboratorio, oppure una distilleria di liquore.
Perché ogni cosa può essere declinata su diverse scale di grandezza e quell’oggetto monumentale che ha fatto la comparsa, esattamente quattro giorni anni fa, sulle strade canadesi vicino la capitale regionale di Edmonton, nella provincia di Alberta, per procedere accompagnato dal più impressionante dispiegamento di forze da parte della multinazionale olandese degli iper-traslochi Mammoet, altro non era che la declinazione metallica di quell’oggetto sulla lunghezza approssimativa di un campo da calcio, secondo le precise linee guida identificate nel progetto di una torre di frazionamento. E di certo in molti l’avranno capito, mentre marciava quasi a passo d’uomo spinta innanzi da letterali dozzine di camion e un paio di piattaforme semoventi dai 26 assi (e che notevole risultato, per un oggetto dal peso di 800 tonnellate!) lungo le 12 strade e viali che collegano la zona industriale della sesta area metropolitana più vasta del Canada fino alla località nei pressi dell’ex-fortezza di Saskatchewan, dove a partire dai prossimi mesi, si occuperà di trasformare il gas propano estratto localmente in una quantità stimata di 525.000 tonnellate di plastica ogni anno.
Un’impresa difficile, un record nazionale ed in qualche maniera assai probabilmente, anche globale, a patto d’individuare il giusto numero di tratti di distinzione nel riassunto dell’impresa. Eppure anche l’unico modo possibile di ottenere il risultato desiderato, quando si considera il basso grado di tolleranze e le specifiche esigenze di un tale apparato, per sua stessa natura praticamente impossibile da assemblare in loco. Stiamo parlando, dopo tutto, del cuore stesso di un impianto petrolchimico come quello della Inter Pipeline che l’ha commissionato, il cui funzionamento stesso e condizionato da ogni singola saldatura, ciascuna svolta a gomito del suo arzigogolato percorso interiore…

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