I quattro* di Liverpool sul Fronte del Porto

Un altro giorno, un’altra massa di turisti che s’inoltra lungo le spaziose strade che si affacciano sul fiume Mersey, dove un tempo si affollavano le navi partite dal più antico porto con darsena del mondo. Uomini e donne, virgulti ed anziani, abitanti d’Europa o delle terre più remote all’altro capo dei Continenti. D’un tratto, le guide turistiche si scambiano uno sguardo di circostanza: che va per primo, tu o io? Ci vuole organizzazione. La massima attenzione. Prima di far scontrare le svariate dozzine di persone tutte quante attorno alla massima attrattiva di questo luogo di questi ultimi tempi: il nuovo gruppo statuario in bronzo, dalle dimensioni di poco superiori alla realtà, con i quattro nativi locali più famosi in assoluto. John Lennon, Paul McCartney, George Harrison e Ringo Starr, perfettamente riconoscibili in tutto il loro splendore di grandi icone della cultura Pop. I cellulari si materializzano fra le mani, assieme a qualche rara macchina fotografica, mentre la gente inizia a prelevare un’immagine che serva da ricordo per “quella volta in cui hanno incontrato i Beatles.” Se soltanto qualcuno a quel punto, magari un singolo bambino, avesse la voglia di dare per un attimo le spalle all’acqua e alle figure immobili nel tempo, alzando lo sguardo verso il cielo… Scorgerebbe qualcosa. Le alti torri fra le nebbie, di quattro edifici in marmo e cemento, con quadranti di orologi e cupole maestose. Assieme a un refolo di vento, quello spirito d’intraprendenza ereditato da coloro che, all’inizio del secolo del ‘900, salirono lassù per assemblare fra gli altri, un parallelepipedo coperto di sculture che prende il nome suggestivo (e stranamente, plurale) di India Buildings. Molto appropriato, poco ma sicuro. Da dove pensate fosse provenuta dopo tutto, in quell’epoca e le molte precedenti, la fortuna finanziaria dell’attuale capoluogo della contea del Merseyside? Se non dal vasto Oriente… Così come la filosofia alla base di certe canzoni scritte da quegli altri quattro, il cui significato più profondo è stato in grado di appassionare ogni generazione sopraggiunta da quei vecchi tempi. Lo sguardo allora correrebbe, senza un attimo di sosta, fino ai due svettanti uccelli, anch’essi in bronzo, eternamente appollaiati in cima al Royal Liver, l’edificio completato nel 1911 come sede di un’associazione finalizzata a fornire assistenza ai familiari dei morti sul lavoro. E presto diventato, alquanto appropriatamente, il simbolo stesso della città. Grossi cormorani, secondo alcuni, il cui significato simbolico fu presto caricato di un bagaglio leggendario dai concittadini umani: affinché la femmina, che guarda verso il mare, aspettasse il suo consorte di ritorno dalla pesca o dalle rotte commerciali. Mentre il maschio, rivolto all’entroterra, controllasse se era giunta l’ora di apertura dei pub. Mentre un altro detto, altrettanto celebre, voleva che se mai un uomo onesto avesse conquistato l’amore di una donna vergine all’ombra di questo edificio, gli uccelli avrebbero spiccato il volo, e il fiume Mersey sarebbe straripato distruggendo la città.
Ah, che bello! Direbbe allora il piccolo bambino stretto fra i turisti intenti a fare foto “Questo edificio fa parte di un trio.” E in un certo senso è proprio vero, considerate le altrettanto affascinanti mura che proseguono alla sua destra, con la presenza del Cunard Bulding, un tempo sede dell’omonima compagnia di trasporti (1916) e il Port of Liverpool Building (1907) forse il più intrigante ufficio per la gestione di una darsena che si sia mai visto in tutta l’Inghilterra. A voler puntualizzare, sembra di trovarsi dinnanzi a un pezzo del Rinascimento e del Barocco italiano, prelevato con la macchina del tempo e in qualche modo trasportato fin qui. Ma anche il primo concetto pienamente realizzato in Europa di un centro cittadino dall’alto skyline frastagliato, come da qualche tempo stava iniziando a profilarsi, all’altro capo dell’Atlantico, New York.

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Lo strano caso degli alberghi a forma di nave

Sulle scoscese coste dell’assolata Jeongdongjin, nella regione sud-coreana di Gangwon-do, non troppo lontano dalla ridente cittadina di Gangneung, sorge una maestosa ed attraente nave da crociera, all’apparenza del tutto simile agli scafi appartenenti alla classe Sovereign della Royal Caribbean. “Sorge” e non “approda” perché il vascello lungo 165 metri e largo 45 non si trova, a ben guardarlo, sul livello dell’azzurro mare. E neppure all’interno dei confini di quest’ultimo, bensì arroccato apparentemente in bilico sopra la cima di un’alta scogliera, dalla quale i suoi ospiti, se lo desiderano, sono invitati ad osservare il tramonto e l’alba più magnifici del mondo. O almeno questo sembrano pensare, oltre alle brochure pubblicitarie, le molte migliaia di ospiti, provenienti da tutto l’Estremo Oriente e non solo, che decidono di trascorrere qui un soggiorno romantico, una vacanza in famiglia, un soggiorno di rappresentanza per lavoro. Sotto molti punti di vista, il Sun Cruise Resort & Yacht Hotel è un costoso, titanico giocattolo, una fantasia in forma d’edificio, del tipo che saremmo immediatamente portati ad immaginare presso la città di Dubai. Ed è indubbio che risplenda in esso quel filone di superficialità ed inguaribile entusiasmo tipico della cultura post-moderna, che difficilmente si lascia sfuggire le più astruse implicazioni di un’assurda analogia. Ma il significato di una simile creazione architettonica risiede anche nel suo contesto culturale, nella posizione che essa ricopre all’interno della storia di un popolo che, fin dall’epoca del primo regno di Gojoseon, ha saputo infondere nei suoi palazzi e templi un’attenzione per la forma trascendente, intesa come significato filosofico dei singoli elementi costituivi. Il riferimento nella storia dell’arte più prossimo all’immobile e gigantesco natante, tuttavia, forse non si trova affatto in Corea, bensì in Cina: sto parlando del padiglione con la forma di una grossa nave sito a Pechino, in prossimità delle rive di un lago all’interno del terreno del Palazzo d’Estate, residenza estiva degli imperatori della dinastia Qing (1644-1911). Risalente al 1755, il curioso edificio lungo 36 metri è sviluppato su due piani e si trova su una base di solidi blocchi di marmo, al di sopra dei quali fu edificata una struttura in legno dall’aspetto particolarmente elaborato. Ai lati dello “scafo” sono disposte due piccole ruote in pietra, per dare l’idea che si tratti di un vaporetto, mentre all’interno campeggiano enormi specchi, finalizzati ad avvolgere il visitatore tra gli scorci acquatici dell’ambiente circostante. Si dice che la struttura sia una risposta contraria al celebre ammonimento del cancelliere Tang Wei Zheng (580–643) al suo Imperatore, che disse: “L’acqua che sostiene la barca può anche ricoprirla.” Riferendosi all’importanza del sostegno del popolo per un buon governante. Ma la famosa imperatrice vedova Cixi, nel 1893, avrebbe restaurato l’edificio appropriandosi di fondi destinati alla marina nazionale, dimostrando quanto (ancora) fosse solida la presa della sua famiglia sul potere assoluto della Cina, persino dopo le due tragiche guerre dell’oppio contro i maggiori imperi europei. Dov’è, quindi, il nesso principale? Il padiglione marmoreo in questione è circondato, ancora oggi, da quattro grandi teste di drago, dalle quali zampilla l’acqua che viene prelevata direttamente dal lago. Mentre a Jeongdongjin, nell’antichità, i sommi sacerdoti dell’epoca Joseon (1392–1897) allestivano i riti per placare il sommo Dio del mare, nient’altro che il Re Dragone dei quattro mari (lago Qinhai ad est, Mar Cinese occidentale, lago di Baikal a nord, Mar Cinese meridionale) signore di tutto ciò che naviga o si immerge tra le acque della Terra. Costruire perciò un qualsiasi vascello al di fuori della sua portata permette di rendergli onore, senza esporsi nel contempo alle sue fauci dalla rinomata spietatezza verso i marinai umani.
Non c’è nulla, ad ogni modo, nel Sun Cruise che debba riportare direttamente alla mente le alterne casistiche di simili vicende ormai dimenticate. Tutto in esso è luminoso, splendido, volutamente sconnesso dagli aspetti storici della regione. Il visitatore, che può giungere anche dall’apposita stazione nella celebrata ferrovia costiera della regione, viene accolto sull’ampio vialetto dalla presenza scultorea di due gigantesche mani, nient’altro che il portale oltre il quale si estende un curato giardino, disseminato da statue e monumenti di vario tipo. Una volta entrati dalla porta principale, quindi, ci si ritrova in un ambiente lussuoso benché adatto a (quasi) tutte le tasche, con stanze che vanno dal prezzo di 70 dollari giornalieri a quello di 2.000, per le suite residenziali più vaste ed accessoriate. Sul ponte della nave è presente un grande bar con piattaforma girevole, dal quale si può osservare il mare sottostante. L’altezza su cui è sito l’hotel rispetto alla costa assicura che l’unica vista possibile sia di tipo acquatico, incrementando ulteriormente la sensazione di trovarsi in crociera. Completano l’offerta una passerella trasparente di osservazione del panorama ed un secondo edificio-nave più piccolo, sito in riva al mare, con funzioni di yacht club dal quale risulta possibile affittare dei natanti per percorrere le attraenti coste di Gangwon-do. Offerta speciale (segnalata sul sito della location) per chiunque desideri farlo in occasione di proposte di fidanzamento/matrimonio. Proprio a questo, dopo tutto, dovrebbe servire lo splendore della natura…

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L’alfa e l’omega del ponte più alto del mondo in Cina

Il concetto stesso di paese definito “in via di sviluppo” può suscitare nell’europeo orgoglioso un ingiustificato senso di superiorità: perché se è vero che un luogo ha ancora margini di crescita, quando le nazioni del vecchio Occidente hanno raggiunto l’apice ormai da una ricca manciata di generazioni, è soltanto naturale che tutti gli altri abbiano ritardato nei loro progetti. Ovvero si siano abbandonati alla civile compiacenza che conduce alla stagnazione. Giusto? Perché mai…Dovremmo prendere in considerazioni le ragioni di contesto, come la necessità di unire sotto il segno del progresso un solo popolo storicamente sparpagliato per un territorio vasto, e montagnoso, attraverso i recessi di un territorio grande il triplo dell’intero Mar Mediterraneo! Un dettaglio piccolo, quasi insignificante. Dopo tutto, gli Stati Uniti non hanno avuto troppo a lungo un simile problema, con le loro ferrovie, o le interstatali interminabili che tagliano i deserti in due, tre, quattro parti. Oppure la Madre Russia, che è stata in grado d’instaurare un rapporto d’interconnessione normativa, con collegamenti stradali transiberiani dal Mar Nero fino alle acque gelide di Okhotsk. Però pensate a ciò che segue, adesso: entrambe queste nazioni, persino ora, sono largamente disabitate. Un’altissima percentuale della popolazione statunitense si trova concentrata sulle due coste e in prossimità della regione dei Grandi Laghi, mentre per quanto concerne l’ex Unione Sovietica, il popolo è adagiato in larga parte sul confine più ad Ovest, in prossimità di Kazakhistan, Ucraina e Bielorussia. Consideriamo quindi i numeri: In Europa vivono 743 milioni di persone. Negli USA,  318. In Russia, “soltanto” 143. Volete sapere invece quanta gente c’è in India? 1,215 miliardi. E in Cina? 1,357. Questo è quello che si intende quando ci si trova a dire: “Sono molti più di noi.” Moltitudini al di fuori della concezione umana. Che richiedono infrastrutture, per noi, semplicemente inimmaginabili.
Ed è questo lo scenario, sostanzialmente, in cui a partire dal 1989 il governo di Pechino ha iniziato il lungo percorso per la costruzione del Zhōngguó Guójiā Gāosù Gōnglùwng, il “Sistema Nazionale dell’Asse Stradale”, una collezione di 7 superstrade che si irradiano a raggiera dalla capitale, 11 che percorrono il paese in senso nord/sud e 18 tra est ed ovest, dando inizio ad uno dei più colossali impieghi del cemento nella storia dell’intera umanità. Negli ultimi 20 anni, dunque, la Cina è riuscita ad unire con simili strade moderne il 90% delle città con la popolazione al di sopra di mezzo milione ed il 100% di quelle al di sopra del milione. Nel farlo, inevitabilmente, ha dovuto raddoppiare il numero di ponti presenti nel paese. Perché come dicevamo, qui non c’è nulla degli ampi orizzonti e le vaste pianure dell’iconica frontiera del remoto, e selvaggio West. Ogni singolo chilometro, sostanzialmente, deve essere conquistato coi piloni e coi denti. Un’affermazione vera ancor più che altrove, qui nella regione centro-meridionale al confine tra la remota Guizhou e lo Yunnan, la terra celebre per i suoi ponti sospesi di vetro e le passerelle infisse nei lati delle montagne. Dove scorre “l’Impetuoso Fiume del Nord” (letteralmente: Beipanjiang) che attraversa tutto il territorio della provincia, scorrendo all’interno di un crepaccio così profondo, che le sue acque restano in ombra per la maggior parte dell’anno. Un valico inaccessibile, un baratro invalicabile. Tanto da aver costituito, negli anni, la ragione per costruire quella che costituisce molto probabilmente la maggior concentrazione di ponti ad alta quota del mondo intero, tra cui il Beipanjiang Guanxing Highway Bridge, lo Liupanshui-Baiguo ferroviario ed il viadotto G60 Hukun, tutti e tre rientranti a pieno titolo nella classifica dei più significativi al mondo. Oltre ad altri quattro, ciascuno dei quali sito a svariati centinaia di metri dal suolo. Ma nessuno tra questi, neppure lontanamente comparabile alla nuova meraviglia inaugurata sul finire della settimana scorsa, con grande pompa e copertura da parte giornali di tutto il mondo (almeno per questa volta, va detto, trattandosi della riservata Cina!) del Beipanjiang Bridge Duge, un titano tra i titani, un vero mostro d’ingegneria applicata che può giungere a sfidare l’immaginazione. Per comprendere immediatamente ciò di cui stiamo parlando, iniziamo dai numeri: 565 metri d’altezza (equivalenti ad un palazzo di 200 piani) per 720 di lunghezza. Un costo di 143 milioni di dollari, di cui una parte significativa investita nella ricerca scientifica, soltanto per concepire un modo che permettesse di assemblare una simile struttura nelle condizioni ventose e inospitali della valle del Beipanjiang. Ma vediamo di approfondire, per quanto possibile, ciò di cui stiamo effettivamente parlando.

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Drone dimostra lo stato dell’enorme Apple Campus 2

“Cos’è questo rumore, Steph?” La coppia di operai si trova sul tetto della struttura in prossimità di uno dei nove atri giganti che collegano gli otto edifici gemelli della pantagruelica struttura, destinata a diventare l’edificio più esteso in senso orizzontale al mondo, persino più del Pentagono di Arlington County: “Ah, niente di cui preoccuparsi. È soltanto il bulldozer che rimuove la cima della collina nord, dove dovrà sorgere il centro fitness per i dipendenti della compagnia.” Le prime avvisaglie del tramonto coloravano di un rosso distante le cime sottostanti degli aceri, gli albicocchi e i cachi che i ragazzi avevano iniziato a piantare, secondo le precise istruzioni di Dave Muffly, il più accreditato perito arboricolo dell’università di Stanford. “No, non quello. So riconoscere il suono di un motore. Intendo l’altro, quello che…” Steph si voltò per osservare il gesto del suo collega. “Si, si, ho capito. Ti stai riferendo al rombo gutturale della macchina pneumatica che installa i pannelli di vetro curvo provenienti dalla Germania, ciascuno largo 14 metri ed alto 3,2, costruiti con una tolleranza minore di qualsiasi altro mai prodotto prima d’oggi. Passerà presto, ora finiamo di montare questo ennesimo pannello solare.” A sottolineare le sue parole, Steph impugnò l’avvitatore elettrico e lo puntò verso l’obiettivo. Allora con gli occhi strabuzzati per il fastidio, il collega gridò sopra il frastuono “Voglio dire… Questo dannato…RONZIO” Frrrrr, Frrrr “Come una specie di…Frullatore?” Frrrr. Quando cominciò a notarlo anche Steph, gli bastò alzare lo sguardo per comprendere l’arcana provenienza del suono “AH, AH, AH. Vuoi dire che non l’avevi ancora sentito? Noi li chiamiamo Falchi della California. In genere ne passa uno a metà mattina, poi c’è quello del primo pomeriggio. Ce n’è uno bello grosso e bianco, che viene a giorni alterni. E poi, naturalmente, questo qui a cadenza mensile. Credo appartenga a un ragazzo del posto che pubblica i video sul web… È un continuo!” Non farci caso mio giovane collega, aggiunse mentalmente mentre fletteva l’indice destro sul pulsante del cacciavite. Anche questa, meditò fra se, prima o poi passerà.
Inconvenienti del mestiere. Piccole complicazioni inevitabili. Quando lavori presso uno dei cantieri più famosi e pubblicizzati al mondo, ma distanti dai costosi appezzamenti presso i centri delle metropoli statunitensi con le loro ordinanze limitative in materia di droni, occorre accettare la realtà dell’occhio digitale dei curiosi, che senza nessuna ragione specifica perlustrano costantemente l’area che verrà graziata dal titano di acciaio, marmo e vetro, al fine di mostrare un qualcosa di universalmente interessante per tutti noi. Niente di simile, del resto, era mai stato tentato prima, meno che mai da una compagnia privata appartenente al mondo dell’alta tecnologia. Perché, voglio dire: un conto è decidere di aver bisogno di uno spazio più grande per i propri 13-14.000 impiegati in loco, tutt’altro compiere il balzo mentale per cui l’unico modo appropriato per affrontare questa necessità è costruire un titanico anello su quattro piani più altri due sotterranei di parcheggio, con 260.000 metri quadri di superficie rinchiusa tra materiali come il rimpasto di marmo del terrazzo alla veneziana, usato comunemente per i musei e le residenze di gran pregio, cemento, metallo e i succitati pannelli di vetro, un prodotto esclusivo della compagnia Seele/Sedak. Non credo che molti capi d’azienda avrebbero guardato a un simile progetto dai costi spropositati pensando: “Si, questo è ciò di cui abbiamo bisogno adesso per crescere continuando ad essere il non-plus ultra della nostra categoria, l’unica cosa che ci manca e serve per primeggiare.” Ma lui, naturalmente, non era così. E con lui intendo il compianto e geniale Steve Jobs, probabilmente il più grande product man di tutti i tempi, che aveva avuto l’iniziativa rara di ricercare una posizione di predominio per l’Apple grazie a lui rediviva non più soltanto grazie al marketing, ma usando quest’ultimo come mero gradino per la sua scalata verso il successo, assieme alla qualità e quantità delle sue idee. Tanto che parlare di questa ottava meraviglia del mondo oggi, un simile Anfiteatro Flavio dei nostri tempi o moderno Colosseo, non può prescindere da un’analisi di colui che tanto fortemente l’aveva desiderato, al punto da contattare di persona lo studio di architettura di Norman Foster, e dire ad uno dei professionisti più quotati di questa generazione: “Norman, mi serve aiuto. Ma se facciamo insieme questa cosa, ti chiedo di non considerarmi un cliente. Io sarò parte attiva del tuo team.” Molti costruttori autorevoli a questo punto, si sarebbero fatti qualche domanda. Ma Steve, permettetemi di chiamarlo per nome come del resto ormai fanno tutti, possedeva quel potere particolare, definito “Campo di Distorsione della Realtà” (Come cambiano i tempi! Una volta l’averemmo chiamato carisma e sarebbe finita lì) Così alla fine, il suo ultimo sogno si realizzò. O per meglio dire, dopo la fine. Tuttavia fu deciso che quel momento sarebbe giunto presto, molto presto…

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