L’ipotetica battaglia di seimila ruote sulle sabbie fiammeggianti di Omaha Beach

“Al mio segnale, scatenate l’Inferno!” O così disse un certo gladiatore al culmine di un certa campagna militare di dodici anni, mentre attraversava incautamente una certa foresta di Vindobona. Benché egli non sapesse, per ovvie ragioni, che in mezzo ai cespugli e agli alberi un certo condottiero barbaro diceva altrettanto, incoraggiando i suoi uomini a lasciar scattare la trappola tanto efficientemente approntata sopra le colline antistanti. E si può dire che quando una massa di tronchi rotolanti, intrisi di pece e dati alle fiamme, accede al rapido incremento d’accelerazione che deriva da un dislivello topografico, una posizione di vantaggio verticale sia maggiormente conduttiva ad ottime risoluzioni delle circostanze. Così come resta possibile affermare che l’esercito più forte del mondo antico stesse recitando, in tali circostanze, il ruolo non propriamente magnanimo di forza d’invasione ostile. Il che non tiene in considerazione il tipo di scorribande e conseguente spargimento di sangue dei Germani, oltre alla loro propensione storica al cannibalismo ed i sacrifici umani. Ma come tendono talvolta ad affermar gli storici “Ciò esula dalla portata dell’attuale discussione!” Qualora fossimo davvero intenzionati, quest’oggi, a concentrarci sul potere inarrestabile di ciò che rotola venendo accompagnato da fuoco e scintille. Partendo a ritroso dalla particolare interpretazione che seppe darne nel 1943 il celebre ingegnere aeronautico, inventore ed autore di romanzi Nevil Shute, all’epoca sotto-tenente del Dipartimento Britannico di Armi Miscellanee (DMWD) come risposta all’esigenza del Comando Centrale di condurre all’incirca una tonnellata di esplosivi verso una barriera di solido cemento. Quel “Vallo Atlantico” costruito dai tedeschi dopo aver completato l’invasione dell’Europa Occidentale, con la ferma intenzione di tenere fuori le forze anglosassoni, da tempo dimostratesi capaci di far valere l’alleanza finalizzata a proteggere e ripristinare i valori della democrazia. Tale cifra in termini di peso niente affatto indifferente, d’altra parte, era stata determinata come necessaria al fine di ricavare in una solida barriera di cemento un buco sufficiente a lasciar transitare un carro armato Sherman fatto sbarcare sulla spiaggia, al fine di riuscire a fronteggiare i nidi di mitragliatrici pronti a scaricare sulla fanteria tutto l’odio che si era accumulato nei lunghi anni del conflitto mondiale. Benché nessuno sapesse, effettivamente, come compiere tale impresa logistica lasciando ampio spazio di manovra, in maniera alquanto prevedibile, alla formidabile mente creativa di costui. Da qui l’idea, senz’altro attentamente ponderata, di mettere il tritolo dentro ad un cilindro, come una sorta di barile di metallo, alle cui rispettive estremità fossero state preventivamente installate due ruote rigide da esattamente 3 metri di diametro. Abbastanza, in base alle stime poste in essere, per favorire lo scavalcamento degli ostacoli situati tra la piattaforma di lancio ed il teutonico bersaglio, a patto di fornire l’implemento di una fonte d’energia adeguatamente performante. Il che poteva forse essere una motore di qualche tipo, benché Shute avesse avuto, di suo conto, un’idea potenzialmente “migliore”: perché non montare una decina di razzi per lato, lungo la circonferenza delle ruote? Ed accenderli allo stesso tempo tramite un sistema d’iniezione elettrico a distanza? E perché non scatenare, in questo modo, l’inarrestabile galoppata dell’ordigno, fino all’esplosione inevitabilmente situata al termine del suo tragitto finale? Questa era l’idea, in parole povere, alla base di quello che sarebbe stato denominato di lì a poco come “il Grande” Panjandrum, dal nome di un termine idiomatico usato per la prima volta nel 1775 dal poeta Samuel Foote, per riferirsi a qualcuno incline a sopravvalutare la sua importanza nonostante una posizione di prestigio precedentemente acquisita. Una definizione stranamente appropriata, per ciò che stava per verificarsi nei risvolti maggiormente pubblici della vicenda…

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L’elicottero in casa, ingombrante scarabeo che ricompare a fine maggio in mezza Europa

È l’esperienza spesso ripetuta del suono improvviso, proveniente dai soffitti delle nostre abitazioni. Come il ronzio di un dittero, parecchie volte amplificato, la cui forma d’onda tende a trasformarsi nella progressione rapida di qualche istante. Ben presto seguìto, nelle ore della prima serata, dall’impatto di qualcosa d’imponente, impressionante, contro il vetro variopinto del televisore. Non che al rapido protagonista volatore interessasse, in alcun modo, il contenuto delle immagini prodotte nella scatola in questione! Piuttosto che la luce in quanto tale, fonte prototipica di vita e il segno di una valida opportunità di migliorare l’andamento dei minuti a venire. L’esistenza d’altra parte non è complicata, per un membro adulto del triplice genere Melolontha, coleottero comunemente noto con il termine di cockchafer o “maggiolino”: tutto ciò che occorre fare, successivamente all’emersione, è andare incontro a un esemplare del sesso opposto. Facendosi trovare grazie all’emissione feromonica, nel caso delle femmine, o brandendo come un’arma il paio di attraenti antenne a forma di ventaglio possedute dal suo partner elettivo, un forte maschio per il resto indistinguibile dalla signora. Non che l’assenza di quest’ultimo elemento, così utile ad effettuare un riconoscimento, possa risultare sufficiente a far passare inosservati questi artropodi coperti di chitina delle dimensioni massime 25 mm. Abbastanza, in altri termini, da coprire quasi totalmente l’unghia al termine di un dito umano. Dove si ritrovano, talvolta, nel corso di questa frenetica esistenza, in ogni luogo dove sembrano tornare ad intervalli regolari, circondando ed inseguendo tutto ciò che non riescono istantaneamente a capire. Particolarmente celebre è d’altronde, e tanto spesso raccontata, l’esperienza di trovarsi sulla rotta di uno di loro. Finendo per subire l’impatto di un simile proiettile in pieno volto o le sensibili pareti del cranio umano. Fastidioso? Senz’altro. Così come narrano, nel corso degli ultimi giorni, gli annuali e ricorrenti articoli di vari testate inglesi, per l’annuale ricorrenza non particolarmente nota agli abitanti delle grandi città. Questo perché il cockfacher, rispetto all’epoca del Medioevo, ha visto i propri numeri diminuire in modo esponenziale, principalmente a causa dell’impiego sistematico di pesticidi. Fino a una tangibile inversione di tendenza, nel corso dell’ultimo ventennio, per l’introduzione di regolamenti più stringenti nella conservazione del sempre più prezioso ed insostituibile ambiente naturale. Un grande cambiamento dei presupposti, rispetto all’anno del 1312, quando presso la città papale di Avignone venne istituito un formale processo a carico dell’invadente hanneton, intimando ai membri della specie di tornare quanto prima dall’infernale regno da cui erano provenuti. Se non che alla prevedibile palese indifferenza degli scarabei, non restò altro da fare che eseguirne una spietata condanna a morte. Molto meno efficace di quanto si potrebbe tendere a pensare, in un’epoca in cui l’unico approccio disponibile era quello di dare la caccia, e schiacciare, la forma adulta di queste creature. Letterale punta di un’iceberg, sotterraneo ed invisibile, prevedibilmente pronto a ritornare ogni qual volta il clima fosse favorevole alla propria principale prerogativa: mangiare, riprodursi, morire. In una folle cavalcata in grado di durare al massimo un mese e mezzo…

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Il significato nascosto nelle sequenze di nodi che tennero unito un impero

Fondamento del pensiero figurativo, il sistema logografico di una popolazione produce profonde ripercussioni nello schema dei valori, le priorità culturali e l’approccio ai problemi messo in opera dagli utilizzatori, offrendo sentieri non propriamente tangibili all’implementazione di un’identità collettiva. Così procedendo, un frammento alla volta, è possibile ricostruire l’origine di una determinata civilizzazione a partire dalle testimonianze invariabili, l’essenziale lascito delle generazioni trascorse. Ma tutto appare maggiormente difficile, nel suo complesso, qualora lo spirito della conoscenza sia stato espresso, piuttosto che tramite tavolette d’argilla o iscrizioni su pietra, mediante un mezzo per sua natura deperibile, purtroppo incapace di attraversare i secoli restando fondamentalmente integro nei suoi fattori costituenti. Rivolgete a questo punto l’occhio della mente ad un vasto territorio, della grandezza approssimativa dell’Impero Romano d’Occidente, attraverso cui strade di pietra permettevano ad agili messaggeri di sfruttare i muscoli delle gambe al posto di alcuna cavalcatura equina o d’altra immaginabile natura. Laddove costoro, che avevano il nome di chaski, si ritrovavano frequentemente a doversi arrampicare lungo irti passi gelidi, o discendere pietrosi scivoli dovuti alla continua erosione delle montagne. Cosa potrebbe effettivamente utilizzare costui, di meglio, che un leggero e maneggevole agglomerato di corde? Il cui nome era per l’appunto quipu o khipu: legare [assieme]. Siamo perciò in Ecuador, Perù, Cile, Argentina, Colombia… Una qualsiasi delle terre occupate, tra il dodicesimo e il sedicesimo secolo, dal cosiddetto Reame delle Tre Parti (Tawantinsuyu) eufemismo poetico destinato ad essere sostituito, nel proseguire della sua vicenda storica e successivamente all’arrivo degli Spagnoli, con il termine in lingua Quechua usato per riferirsi al concetto di “sovrano”: Inca.
È purtroppo nota e certamente pregiudizievole la maniera in cui, nell’analisi storiografica delle sue circostanze, questa società precolombiana venga spesso definita in base alle mancanze, piuttosto che i pur significativi traguardi che aveva saputo conseguire. “Guardate cosa sono riusciti a fare” afferma l’antropologo generoso: “Pur dovendo rinunciare a bestie da soma, l’invenzione della ruota, la lavorazione dei metalli, un sistema di scrittura realmente degno di questo nome…” Ed è probabilmente giusto l’ultima, tra tali affermazioni, a dover lasciare maggiormente dubbioso chiunque possieda del senso critico residuo nell’attuale circostanza globalizzata del post-moderno. Laddove in effetti un particolare sistema di notazione computazionale, ed assai probabilmente molto più di questo, faceva parte del repertorio strumentale dei chaski e dei khipu kamayuqkuna, una particolare casta o professione d’individui dotati di ottima memoria e capacità cognitiva, incaricati di decifrare all’arrivo il prezioso repertorio d’informazioni facente parte del maneggevole carico delle controparti. Un’impresa presumibilmente non semplice che ne faceva, così come avvenuto moltissimi anni prima per gli scribi dell’Antico Egitto, una risorsa straordinariamente preziosa per i propri sovrani…

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Saab 35: le ali del drago che rischiò d’invertire le regole del combattimento aereo

Tirando a se la cloche per una ripida cabrata, Göran guardò l’acqua del Mar Baltico che scompariva ai lati del suo quadro comandi. La luce del sole di mezzogiorno, intensa per quanto possibile all’attuale latitudine dell’anno 1985, filtrava a sprazzi tra le nubi soprastanti. E fu in quel preciso attimo che il radar d’intercettazione del suo agile Saab 37 Viggen cominciò ad emettere un suono insistente accompagnato dal nervoso senso d’aspettativa. Era lui… Probabilmente. Il leggendario asso del gruppo di volo Bråvalla, con base a Norrköping. Uno dei primi, nella storia della Flygvapnet (Aviazione Svedese) ad aver ricevuto l’incarico di pilotare il più significativo velivolo nella storia ingegneristica del paese. Ancora in quel remoto giorno, quasi 30 anni dopo, perfettamente in grado di competere in un duello contro caccia costruiti in base a crismi maggiormente tradizionali. Tanto che tra Göran e gli altri del suo stormo, poco prima dell’esercitazione annuale con combattimenti simulati nei cieli di Gotland, era stata indotta una sfida: “Caffè pagato per un anno a chiunque di noi riesca a metterne uno alle strette, abbastanza da costringere il pilota a fare LA COSA.” Già, la “cosa”. L’accidentale scoperta, nata da un errore di progettazione, che nessuno si sarebbe mai sognato d’impiegare in un combattimento reale. Eppure in determinate condizioni, avrebbe potuto costituire una vera e propria arma finale. Ecco dunque, al termine della manovra, l’inconfondibile sagoma del Draken che faceva la propria comparsa nel suo raggio visivo, a una distanza più che sufficiente per lanciare un missile a lunga gittata. Se ciò fosse stato effettivamente concesso, nelle istruzioni operative di quella particolare giornata d’addestramento incentrata sul combattimento ravvicinato con le mitragliatrici. Mentre il nemico si avvicinava da dietro, il pilota della Bråvalla capì ben presto di non avere la velocità necessaria a districarsi dall’inseguimento del Viggen. E mentre Göran si apprestava a premere il grilletto per “fare fuoco”, d’un tratto, cambiò forma, scomparendo improvvisamente dal radar. Come un caccia trasformato in robot bipede in una serie a cartoni animati, ma con l’approssimativa forma di un albero di Natale. E la stessa propensione a muoversi da un punto definito dello spazio, del Cielo. D’un tratto immobile e ben presto, situato al sicuro dietro l’aereo che tentava di raggiungere la posizione di mira! Il mondo sembrò capovolgersi, mentre le ragionevoli aspettative della fisica aeronautica svanivano, tra le fauci spalancate del serpeggiante dio Cobra.
Progettato inizialmente sulla base di condivisibili aspettative poco dopo il termine della seconda guerra mondiale, il Saab 35 “Draken” avrebbe potuto rappresentare il tipico intercettore della metà degli anni ’50, veloce, maneggevole per quanto possibile e pesantemente armato. Una scelta inaspettatamente valida dell’ingegnere Erik Bratt, coadiuvato dalla propria squadra di oltre 500 aiutanti, avrebbe tuttavia cambiato le fondamentali regole del gioco. Poiché fu necessario prendere atto come le specifiche esigenze dettate dal comando aereo, incidentalmente, fossero del tutto ragionevoli con una configurazione delle ali a doppio delta e priva di un impennaggio di coda di tipo tradizionale. L’idea che venne posta al vaglio, dando inizio ad uno dei più estensivi programmi di test nella storia dell’aviazione militare scandinava, avrebbe perciò condotto a un nuovo tipo di aeroplano, in cui carlinga e ali non avevano un punto di cesura definito. Ma piuttosto collaboravano in un unico, strano ed affascinante obiettivo finale…

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