Come sopravvivere al pericolo dei pali della luce

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In questo segmento sulla sicurezza della compagnia energetica dello Stretto di Puget vicino Seattle, che incidentalmente ricorda da vicino lo sketch di una sit-com alquanto dark, viene presentata una situazione possibile, a cui tuttavia nessuno pensa molto spesso. Ci passiamo sotto, oppure vicino, per centinaia di volte l’anno, se non addirittura in ciascun mese; sono una costante delle nostre giornate, appena visibili ai margini del campo visivo, specie per chi vive fuori dal contesto urbano, alternativa stolida e artificiale alla legnosa presenza di un albero, con le sue fronde verdeggianti. E spesso altrettanto pieni di uccelli. Ma va? Eppure sono nondimeno, a ben pensarci, mortalmente pericolosi. La ragione è che in quei cavi, sospesi a quattro, cinque metri da terra, scorre una tensione che si aggira normalmente attorno ai 7500 volt, con un amperaggio tale da risultare sufficiente a cuocere un tacchino nel giro di un paio di minuti al massimo, volendo andarci molto larghi. Inoltre, trattandosi di apparecchiature poste ad ipotetica distanza di salvaguardia dal contatto con qualsivoglia essere parlante e/o pensante (pappagalli esclusi) non sono schermati in alcun modo, costituendo la perfetta frusta castigatrice di chiunque dovesse trovarsi a contatto con la loro crudele essenza, esclusi, per l’appunto, i bipedi volanti. Per una mera questione di conduttività, della quale parleremo più avanti. Ma che cosa potrebbe capitare, ci invita a chiederci il presente video, nel caso in cui un autista molto sfortunato, oppure distratto, dovesse impattare contro la suddetta cosa, causando la caduta della stringa catenaria sul cofano, e da questo fin sull’asfalto che circonda le sue ruote? Egli si troverebbe a due centimetri dalla morte, questo è poco ma sicuro. Avendo, in ultima analisi, soltanto una speranza di salvezza: l’aver visto questo video, o un altro simile, tra i tanti disponibili sul web.
La scenetta inizia in modo già piuttosto preoccupante. Il simpatetico protagonista, alla guida per viali di campagna del suo fuoristrada Toyota, rigorosamente senza usare la cintura di sicurezza (ehi, non è un video dell’autorità STRADALE!) parla animatamente al telefono con la moglie o fidanzata, avendo per lo meno la prudenza di affidarsi a un vivavoce. Senza sapere, tuttavia, come nel frattempo stesse per sopraggiungere in senso contrario una ragazza, il cui concetto di utilizzo dello smartphone al volante di un’altra auto, sull’immediato, ci appare come niente meno che follia totale: lei starebbe infatti a quanto pare, scrivendo un SMS. O un’E-mail? Il che la porta, bellamente, ad invadere la corsia del senso opposto, rischiando un frontale con il tipo del SUV. Che forse, forse l’avrebbe potuta anche evitare, se non fosse che in quel fatidico momento stava riagganciando la chiamata, staccando gli occhi dalla strada per premere un pulsante sul cruscotto. E basta un attimo, per… Dissolvenza in nero. Nella seconda scena, il disastro è già avvenuto. L’uomo, per evitare l’altra macchina (guarda caso anch’essa una Toyota) ha perso il controllo ed è finito contro il palo della luce, ritrovandosi nella letale situazione di cui sopra, una contingenza di cui molti, assai probabilmente, non sarebbero neppure informati, finendo per aprire lo sportello, scendere dall’auto e fare la reale fine di chi tocca il suolo incandescente nel popolare gioco per bambini “Il pavimento è Lava”. Se non che Jim (John?) O qualunque altro sia il suo nome, per sua fortuna ha “prestato attenzione al briefing sulla sicurezza!” E sa perfettamente, quindi, come comportarsi. Ed è questo, fondamentalmente, il colpo di genio del presente video, che senza passare mai dal facéto al serio, mostra tuttavia il metodo migliore per salvarsi a seguito di un simile incidente. Tutto inizia, neanche a dirlo, da una chiamata effettuata al cellulare. Quello stesso, dannato, amato/odiato, strumento che modifica e connota le nostre moderne vite.

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“Dov’è Wally?” Nella sesta dimensione

Where's Waldo 360

Una giornata come tutte le altre sul molo di Santa Monica, contea di Los Angeles, un luogo reso celebre da una quantità spropositata di film, serie tv, video musicali, video giochi… Il che significa, animata. Piena di caos e di persone, tra cui gente in costume, sia da bagno che di carnevale, ovvero abbigliata nello stile riconoscibile del più famoso idraulico di tutti i tempi, uno che “risolve” i “problemi” contro-rapendo principesse preda del malvagio imparentato con gli anchilosauri. E teste giganti, che fluttuano nell’aria. Strane apparizioni in lontananza sopra le onde, di attori famosi ricreati a dimensione di torri della nebbiosa Avalon, un’altra terra di evasione ed opportunità. Con qualche McDonalds in meno, suvvia. Ma è proprio quando tutto andava per il meglio, sembra volerci dimostrare il nuovo video del premiato team di produzione Corridor Digital (vera istituzione di YouTube) che l’imprevisto si prepara a palesarsi, sul tranquillo procedere dei minuti degni delle stars.  Ecco d’improvviso, dunque, che all’interno del pregevole Apple Store locale, un vero cubo Trasparente (!) la gente inizia lievemente a sussurrare: “Ma quello non è…” Qualcuno batte la spalla al partner, all’amico al genitore: “Guarda, guarda!” E infine, con sussurri d’entusiasmo: “L’abbiamo…L’abbiamo trovato!” C’est magnifique! Wonderful! Anzi che dico, WAN-derful! Nonché terribile, allo stesso tempo. Lungo la fila degli iPad, verso l’ingresso del sacrale tempio tecnologico, una figura con la maglia a strisce rosse e bianche, un buffo cappello col pon pon in concordato, un semplice paio di blue jeans. Nonostante le pressanti aspettative. In luogo della presunzione inopportuna. Egli. Era. Lì: Wal-do. “Svelti, chiamate la Waldo Police!”
Come, chi è Waldo? Non stiamo qui usando nient’altro che il nome attribuito negli Stati Uniti e in Canada al personaggio creato nel 1986 dall’illustratore Martin Handford, celebre protagonista di una serie di libri per bambini (non solo) in cui scenari particolarmente ornati, caotici e movimentati, nascondevano la sua presenza, offrendo l’opportunità di un gioco enigmistico tra i più classici e celebrati, quello del “dov’è la cosa/persona?” Rimpiazza quindi l’ultimo binomio con l’appellativo usato in patria, nonché in Italia, di Wally, ed avrai il titolo di un vecchio tormentone, certamente ormai lontano per le origini, ma che non passò mai, in realtà, di moda. Viviamo, dopo tutto, in un’epoca di mutamenti. Attraverso i quali, il più delle volte, le finalità di base tendono a restare uguali. Così, lo stravagante protagonista di una delle vicende editoriali dai presupposti meno evidenti (bisognerebbe in effetti chiedersi: chi è Waldo? Da cosa sta fuggendo?) entra allegramente nel nuovo secolo e millennio, grazie all’applicazione di un sistema di ripresa particolarmente avveniristico, quale soltanto simili creativi dei nostri tempi avrebbero saputo portare all’epico coronamento. Cinque telecamere GoPro incastrate in un sostegno realizzato ad hoc usando la stampante tridimensionale, quindi sincronizzate attentamente grazie all’uso di particolari software per PC. Con il risultato, alla fine, di ad ottenere un solo video che è sostanzialmente panoramico, con la forma di una bolla posta attorno a noi gli spettatori, o in altri termini, virtual(-izzato). Quale modo migliore, di nascondere una figura celebre all’interno dell’inquadratura, che rendere quest’ultima interattiva, e moto più estesa del normale! In un susseguirsi di sei scenari, il nostro amato-odiato protagonista ci appare intento nel bighellonare tutto attorno alla location d’eccezione, senza uno scopo chiaramente definito, mentre voci preoccupate si consultano al di fuori dell’inquadratura. Quindi, in un crescendo di concitazione, gli interpreti di alcuni veri e propri Men in Black finiscono ad un certo punto per trovarlo, iniziando le prime battute di un glorioso inseguimento, nonostante gli svariati finti bersagli presenti in ciascuna scena (un altra idea mutuata direttamente dalla serie dei libri di Handford). Il tutto, pochi attimi prima che il grande W, come del resto è sua prerogativa, volti la pagina sulla scenetta, teletrasportandosi altrove. Finché alla fine, non sarà rivelata l’impossibile verità, con un certo veicolo, tutt’altro che sconosciuto, incaricato del recupero di un tale personaggio. E qui finisce il gioco, ma sarebbe poi così scorretto dire, che comincia…La leggenda?

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Avete mai visto un pappagallo veramente arrabbiato?

Pebble Cockatoo

Un uomo in abito da ausiliario del traffico, uno sgabello. Un trespolo, un cacatua. Cosa li univa in quel momento carico di aspettativa…Di certo NON la gabbia, che lui tiene in mano, che NON potrebbe mai essere stata quella del candido Pebble, uccello proveniente dal Saskatchewan della foresta boreale (ambiente non propriamente tipico dei pappagalli) Perché quella gabbia tonda NON va bene, spiega Kelly dell’istituto Saskatoon Parrot Rescue, finalizzato al recupero di tutti gli animali volatili che abbiano subito un trauma, fisico, mentale o d’altro tipo. Va “risistemata”. Possibilmente, facendo uso di una valida supervisione. Due stivali e il giusto grado d’irruenza!
Gli uccelli sono intelligenti, molto intelligenti. Nonché diversi da noi. Ma da un certo punto di vista, se le circostanze si profilano in maniera idonea, riescono a diventare estremamente simili ai loro padroni. Un cervello dopo tutto, che sia piumato oppure capelluto, non è altro che un ricettacolo ricolmo di una certa quantità di nozioni, ricordi e sentimenti. Ed è quando quest’ultima categoria ideale, crescendo a dismisura, surclassa le altre due, generando un comportamento definibile in molti modi, tutti buoni tranne che “insincero”,  allora si, che inizia e monta la marea. Gettate un bicchiere d’acqua in una vasca piena fino all’orlo, poi versate con il contagocce due millilitri dentro a un secondo recipiente. Secondo la legge universale dei fluidi in movimento, nasceranno anelli concentrici ed equivalenti, soltanto, più piccoli nel secondo caso. Le proporzioni cambiano la portata, lasciando uguale il meccanismo. È per questo che nella botte piccola c’è il vino buono, mentre nei Caraibi, la nave dei pirati. Che ben conoscevano il vantaggio di un gran becco, la lunga coda, gli artigli bene stretti sulla spalla. E non è certo un caso, forse ci avrete già pensato, se essi portavano in battaglia un valido compagno non umano, generalmente appartenente all’ordine degli Psittaciformi, che al pari della sciabola, la barba e la pistola, fu vera e tipica prerogativa di categoria. Anche grazie alla pressante cinematografia, fin troppo pronta a farne degli eroi. Ma perché, proprio loro? Tagliagole, affogatori, una masnada di ribaldi, eletti a simbolo di un’era come quella dei velieri, che di certo aveva avuto ben più validi rappresentanti negli esploratori, nei mercanti e gli uomini politici del mondo coloniale…La ragione…È trasversale. E il fatto è che i migliori, tra di loro, ben sapevano impiegare l’intimidazione. Erano, sostanzialmente e in primo luogo, commedianti, teatranti, veri e propri attori. Perché un equipaggio spaventato, di una nave che è soggetta ad arrembaggio, è innanzi tutto meno combattivo. Ed al termine della diatriba, spesso addirittura, ancora vivo. Il che offre tutta una serie di vantaggi duraturi, tra cui quello di non dover stare a guardarsi le spalle, oltre che dalle autorità, da intere famiglie di uomini violentemente trucidati, fin tropo pronte ad assumere sicari e (perché no) altri pirati alla ricerca di una postuma vendetta. Quindi il pirata, idealmente, mai smetteva di parlare. E quando si lanciava dalla sua murata, col coltello saldamente stretto in mezzo ai denti, che poteva fare? Lasciava il palcoscenico al suo pappagallo. Il quale invece non taceva MAI.
Ora, di pappagalli domestici (er, “navali”) anche a quell’epoca ce n’erano diversi tipi. Com’è noto, la specie preferita dai miglior capitani era quella dell’ara scarlatta o ara macao, imponente e dotata di gran voce, ma soprattutto, non troppo difficile da addestrare. Altri lupi di mare, trovatisi nell’incapacità di scegliere, tendevano ad accontentarsi di un amazzone testagialla (Amazona oratrix) uccello più piccolo e tendenzialmente più aggressivo. Qualcuno invece, volendo semplificarsi la vita, a quel punto faceva in modo di procurarsi un esemplare di cenerino (Psittacus erithacus) allevato in cattività fin dall’epoca degli antichi greci. Ma nessuno, neppure il temuto e ferocissimo Edward Teach con i candellotti nella barba, avrebbe mai osato scegliere come compagno un cacatua. Bestia esageratamente imprevedibile, persino per lui.

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Scacchista di strada si trova sfidato da un grande campione

Chessmaster

Non sono esattamente veri e propri truffatori. Né sarebbe giusto definirli tutti quanti egualmente disonesti, benché l’imbroglio occasionale, dopo tutto, faccia parte di quel repertorio che caratterizza il loro stile. Ma non ci sono dubbi sul fatto che le schiere dei caratteristici giocatori di scacchi dei parchi newyorkesi, nonché di altre metropoli statunitensi, non stiano seduti lì esattamente per cambiare aria. Bensì, col chiaro e non sempre dichiarato intento di vincere ad ogni costo, dando prova della propria abilità e poi sopratutto guadagnando, un passante dopo l’altro (se si tratta di turisti, ancora meglio) quei 5-10 dollari di media che scommettono a partita, arrivando alla fine della giornata con un gruzzolo tutt’altro che insignificante. Questo perché sono…Forti, per lo meno, nello specifico contesto operativo, e parlano bene la lingua della strada, con il suo ricco repertorio di insulti, distrazioni, non sequitur mirati a sbilanciare l’avversario. E puntano sui grandi numeri. La singola sconfitta occasionale, per loro, non è poi tanto importante. A meno che non sia talmente spettacolare, per impostazione, e totalizzante, per il modo in cui si manifesta, da cambiare totalmente il tono di una prevedibile giornata. O come in questo caso, tarda sera.
La scena si svolge a Washington Square Park, un parco da 9,74 acri sito a Manhattan, famoso per l’arco di trionfo neoclassico che costituisce il suo ingresso, dedicato alle vittorie dell’omonimo generale della guerra di indipendenza americana, ed alcune statue su piedistallo, tra cui quella dedicata a Garibaldi. Il primo dei protagonisti, per inferenza, l’abbiamo già descritto: è un istrionico hustler, come li chiamano da queste parti, ovvero letteralmente, un “traffichino/trafficone” (sia chiaro che sono le vere definizioni del dizionario) termini comunemente condivisi anche con chi fa il gioco delle tre carte, oppure scommette il proprio denaro sulla prototipica partita di biliardo, freccette o similari… Tutte attività verso le quali ormai persino noi, dall’altro lato dell’Atlantico, guardiamo con un certo grado di sospetto, principalmente in funzione delle innumerevoli scene didascaliche inserite all’interno di serie tv e film, in cui il tizio-di-turno finge di perdere, poi schianta l’avversario. Ma gli scacchi, sono tutta un’altra storia, giusto? Per poter praticare con efficacia un tale nobile gioco, vuole lo stereotipo, occorre essere persone di una certa cultura. E soprattutto, rispettarne le caratteristiche ed il senso ultimo: giammai, un praticante dell’antica arte, oserebbe spostare i pezzi del proprio avversario… A meno di trovarsi, dal suo punto di vista, totalmente privo di alternative. Un’esperienza che proprio costui aveva la sensazione di stare per sperimentare, nel momento stesso in cui l’uomo calvo in giacca di pelle, con al seguito un intero entourage e anche un paio di telecamere, si è seduto lì al suo tavolo, e con piglio sicuro ha iniziato a fargli un paio di domande di circostanza. Nonostante questo, trovandosi sfidato: “Spingi!” Fece all’indirizzo del pulsante sul suo timer: “Spingi e poi parliamo.”
Perché naturalmente, il tipo di scacchi che si gioca nei parchi pubblici non è quello delle gran partite di torneo, oppure degli incontri tra vecchi amici o parenti, ma della tipologia comunemente detta “blitz” o “speed chess” in cui ciascuno dei due giocatori dispone esattamente di 5 minuti per portare a termine l’interezza delle proprie mosse; in cui esaurire il tempo è una condizione di sconfitta, al pari del classico e definitivo scacco matto. Le capacità che diventano fondamentali per prevalere, a questo punto, diventano la rapidità nel prendere decisioni, la concentrazione e il sangue freddo in ogni circostanza. Inclusa quella, generalmente molto desiderabile per lo hustler, del formarsi spontaneo di un capannello di persone che passavano di lì, sempre fin troppo pronte a commentare o fare strani versi, insinuando il dubbio che conduce all’incertezza. Non che questo potesse succedere nel corso della partita specifica, nel corso della quale l’individuo inizia subito a lamentarsi: “Ma non guardi neanche la scacchiera?! Gente, questo qui non guarda neanche la scacchiera!” Ovvio, ah ah. Tu ancora non sai che Maurice Ashley, il primo gran maestro afroamericano della storia, scegliendo spontaneamente di lasciarti il vantaggio del bianco, non stava facendo un gesto meramente simbolico. Ma ben presto, lo capirai…Le prime battute della partita sono insolite: lo scacchista del parco sceglie un’apertura relativamente poco comune, quella polacca o di Sokolsky, che consiste nel muovere di due il pedone della linea B, mirando a controllare un solo lato del campo di battaglia. Una tecnica ormai raramente usata nel gioco professionistico, che tuttavia può risultare utile nello stupire un avversario impreparato o incerto, del tipo che comunemente si trova ad affrontare costui, a seguito dei lazzi e richiami lanciati all’indirizzo dei passanti. Di contro, Ashley posiziona subito entrambi i cavalli verso il centro, lanciando una sfida molto difficile da ignorare. Nelle mosse immediatamente successive, la situazione inizia a scaldarsi, mentre avviene la prima chiara irregolarità.

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