Il volo svizzero del calabrone, in anticipo di secoli sul primo golf club

Ci avevano chiamato facinorosi, poco di buono, perditempo. Persino sacrileghi nei confronti del giorno dedicato alla messa di nostro Signore. Guardateci adesso: simboli eroici di un patriottismo accantonato. Oltre i limiti segnati dalle montagne, indipendentemente dai singoli confini dei cantoni. È forse questo, più di qualsiasi altro, il potere insito nel concetto contemporaneo di hornussen, l’antico sport? O magari la diretta conseguenza di un senso d’appartenenza “segreto” nei confronti di una disciplina la cui conoscenza appare rigorosamente appannaggio elvetico, sebbene in molti non esiterebbero a identificarne l’eventuale discendenza. Poiché ciò tende a succedere, quando si prende in seria considerazione una delle radici del grande albero, da cui derivano la stragrande maggioranza delle attività fisiche di squadra dei nostri giorni. Un rounder, in altri termini, beneamato passatempo risalente molto spesso all’epoca del Medioevo, in cui gruppi di paesani e non solo si alternano nel compiere al meglio delle proprie possibilità un “gesto”. Mentre i recipienti del turno successivo, in tale interludio, fanno tutto il possibile per impedire l’ottimale riuscita della missione; un singolo colpo, e ciascun balzo alla volta. Soltanto non è tipico, persino in tale ambito dalla lunga pratica pregressa, che il pegno volante di tante attenzioni e gestualità ritualizzate possa muoversi a una velocità di fino a 306 Km/h, per una distanza di 350 metri come attentamente misurato dall’ETH di Zurigo, nel tentativo d’istituire i limiti procedurali di quel gioco potenzialmente mortale (ove gli incidenti, benché rari, tendono ad essere in realtà piuttosto gravi). Non trattandosi in effetti di una palla bensì dello hornuss alias il “calabrone” del peso di 78 grammi, un oggetto dalla forma ovoidale che riesce a fendere il vento non tanto per la propria forma aerodinamica. Bensì il modo ingegnoso, quasi diabolico, in cui i suoi utilizzatori svizzeri impararono a proiettarlo: mediante l’utilizzo di un lungo bastone flessibile, con un pesante blocco di legno alla fine, chiamato träf. L’equivalenza funzionale di una frusta insomma, benché utilizzabile mediante un gesto non dissimile a quello del gioco del golf: caricandolo e poi riportando quell’estremità verso il basso, nel presente caso avvantaggiandosi mediante l’uso di una speciale rampa metallica (buck) che amplifica e semplifica la necessaria conclusione di ciascun lancio. E laddove si narra che in origine, trattandosi di un passatempo funzionale all’addestramento bellico, lo scopo fosse semplicemente colpire o persino ferire i membri della squadra avversaria, disposti strategicamente nel poligono di tiro trapezoidale denominato ries, la successiva deriva non-violenta avrebbe visto questi ultimi dotarsi di appositi oggetti simili a pale da pizza in legno. Con cui bloccare, se possibile, l’atterraggio sulla plancia erbosa dello hornuss. Un modo valido quanto qualsiasi altro, per tentare di tenere un punteggio…

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La capitale dell’intaglio giapponese e il tempio che ne custodisce l’origine remota

Il Buddhismo viene spesso definito da un punto di vista storiografico e analitico in Estremo Oriente come un culto delle immagini e visitando un tempio di tale fede non è in alcun modo complicato comprenderne la ragione: statue, dipinti ed altre manifestazioni artistiche, dalle dimensioni private a quelle monumentali, si affollano nel ritrarre Colui che mostrò al mondo il modo per raggiungere l’Illuminazione. E lunghe schiere di profeti, santi, Bodhisattva, assieme a bestie mitiche e guardiani della fede. Se c’è un luogo dove tale tendenza alla manifestazione tangibile degli aspetti esteriori può aver raggiunto l’apice, tuttavia, esso può essere identificato come il tempio Zuisenji della città di Nanto, prefettura di Toyama. Da non confondere col sito omonimo situato presso l’antica Kamakura, centro del potere per il primo shogunato giapponese, laddove il collegamento di tale istituzione con una fonte centralizzata del potere venerabile, se presente, può essere piuttosto riferito alla contrapposta Kyoto. Dal cui potente Hongan-ji, a partire dal 1602, venne stabilito uno stretto collegamento ed interscambio di risorse sacerdotali, fino all’invio oltre un secolo e mezzo dopo della figura di un artigiano che avrebbe, da solo, caratterizzato il senso e principale esportazione di un’intera regione. Con riferimento all’intero sobborgo di Inami, borgo medievaleggiante ove gli odierni visitatori giungono a percorrere una strada principale fiancheggiata da antiche botteghe, ciascuna delle quali priva di vetrina bensì aperta per mostrare un maestro e i suoi discepoli al lavoro. Mentre creano, con il proprio favoloso repertorio di strumenti, immagini e oggettistica raffiguranti soggetti religiosi o mitologici, se non la semplice bellezza della natura, utilizzando sempre ed esclusivamente l’umile legno delle folte foreste antistanti. Applicando in modo attento, così come avevano fatto i propri antenati, il pregevole insegnamento di Sanshiro Maekawa, il cui lascito artistico può essere ancora ammirato tra le sacre mura di cui sopra, che al tempo della sua venuta erano state (per l’ennesima volta) distrutte dal verificarsi di un grande incendio. Questo rapporto privilegiato con i materiali da costruzione di origine vegetale, fortemente incoraggiato da ragioni filosofiche ma anche le costanti problematiche di un paese dal rischio sismico evidente, fu da sempre in Giappone all’origine di occasionali e reiterati disastri. Ulteriormente peggiorati, nel caso dello Zuisenji, dalla sua appartenenza pregressa ad una delle cosiddette leghe Ikko-Ikki, le organizzazioni di monaci militarizzati che durante il periodo Sengoku delle guerre civili (1479-1576) giunsero infine ad essere messe sotto assedio e dissolte dai principali rappresentanti del potere samurai costituito. Così che Oda Nobunaga stesso, primo dei tre grandi unificatori del paese, diede l’ordine di bruciare per primo il secolare edificio. Ed ancora questo avvenne, almeno altre due volte, prima che tornasse la pace. Per cui fu giudicato particolarmente terribile, ed al tempo stesso meritorio di una significativa risposta, quando nel 1763 il tempio arse di nuovo, questa volta per ragioni accidentali coadiuvate dai venti forti provenienti dalle regioni costiere, chiamati per l’appunto Inami-kaze. Il che avrebbe portato all’atipica costruzione, in questo contesto, di un alto muro in pietra di protezione, ed al tempo stesso alla venuta di colui che avrebbe ricostituito lo splendore inusitato totalmente degno di un tale luogo…

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L’esperienza fluviale del serpente che costruiva i castelli dei samurai

Uno degli aneddoti militari di maggior rilievo collegati alla figura del condottiero samurai Toyotomi Hideyoshi, secondo dei tre unificatori del Giappone, ne vede la capacità di leadership ed organizzazione esaltata da una singolare contingenza. La necessità espletata da costui, all’epoca noto semplicemente come Kinoshita Tōkichirō, di costruire una fortezza temporanea lungo il fiume Sunomata, all’alba della battaglia di Inabayama del suo signore Oda Nobunaga contro il clan rivale dei Saito. Mansione portata a termine, secondo i resoconti storiografici, nel giro “di una singola notte” così che il nemico, pronto al contrattacco prima di trovarsi accerchiato, si trovò in effetti innanzi a solide pareti sormontate da schiere d’arcieri. Questo grazie al trasporto sul posto di singoli elementi prefabbricati, assemblati con l’aiuto di maestranze locali al servizio di Hachisuka Koroku, un signore locale che aveva posto la propria bandiera al servizio del mutamento dei poteri in atto nella nazione. Ma come, esattamente, fu possibile portare a termine una tale impresa? Ed in quale modo, esattamente, i componenti del massiccio edificio raggiunsero quel sito ad un ritmo tanto accelerato? A una disanima più approfondita delle circostanze, entrambe le domande sembrerebbero avere la stessa risposta. Riassumibile nel termine specifico di ikadashi o maestro delle zattere, una figura tecnica la cui importanza sembrerebbe essere andata perduta tra le pagine della storia, all’introduzione di strade asfaltate, mezzi di trasporto a motore ed altri apparati simbolo della modernità. Altrove ma non dovunque, con specifico riferimento a una preziosa tradizione custodita dal villaggio di Kitayama, nella prefettura di Wakayama situata a circa 200 Km di distanza dal sito di quell’antica battaglia. Un tragitto lungo per molti ma non loro, i cavalieri di un leggendario mezzo di trasporto da fino a 30 metri di lunghezza costituito da serie successive di tronchi legati assieme, noto come zattera toko nagashi proprio perché affine, concettualmente, all’aspetto ancora ipotetico di un treno dai molti vagoni. Ciascuno dei quali ospitante, o costituito esso stesso, da pregiati tronchi di cedro, l’albero principale raccolto dagli yamanashi, boscaioli di montagna tra i più abili praticanti della silvicoltura nel Giappone pre-moderno. Da un periodo stimato di circa 600 anni, facendo della loro tecnica, e quella strettamente interconnessa del trasporto fluviale, una delle tradizioni doverosamente iscritta al gremito elenco dei beni immateriali ed in senso più specifico “forestali” di un paese che non ha mai perso il contatto con la propria storia. Facendo affidamento, in modo alquanto prevedibile, a quella risorsa del tutto insostituibile a tal fine del turismo istituzionalizzato, grazie ad un’attrazione particolarmente celebre di quel centro abitato, oggi costituente un’atipica enclave amministrativa all’interno del proprio distretto geografico d’appartenenza. Ove si offre l’opportunità, a coloro che ne hanno il coraggio, di cavalcare uno dei sette doko facenti parte di toko indubitabilmente imponenti, all’interno della stretta e tortuosa gola del Doro sul vicino fiume Kitayama. Un’attività giudicata un tempo tanto pericolosa, da essere vietata ai figli primogeniti di ciascuna famiglia…

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Voglia di cassava o 100 colpi di machete prima di mettersi a preparare il pane

Come il fuoco incontrollato nei cinque elementi, l’odio è il sentimento nella ruota dei possibili stati d’animo che nella maggior parte delle circostanze non produce ma distrugge, annienta e dispone soltanto le basi, se tutto va bene, per una rinascita futura dallo stato di assoluto annientamento dei fattori esistenti. Non è d’altra parte molto semplice, in determinate circostanze, identificare i chiari segni dell’odio: in questo video dal formato verticale, sufficiente ad identificarlo come materiale di TikTok o Instagram, un “agricoltore” armato del più grosso dei coltelli pare accanirsi con intento distruggente contro un boschetto di alberi sottili. Ma le apparenze come spesso capita possono facilmente trarre in inganno, innanzi tutto perché quelli non sono arbusti bensì dei cespugli alti e sottili. Capite cosa intendo? Siamo di fronte ad una macchia di Manihot esculenta che qualcuno della sua famiglia, o costui in persona, esattamente 10-11 mesi prima si è amorevolmente impegnato a piantare. E adesso senza un briciolo di misericordia, taglia e sradica, smonta un pezzo per volta. D’altra parte appare chiaro il presupposto necessario: non è possibile amare la Manioca, senza devastarne la fondamentale essenza. Si tratta se vogliamo di un tipo di attività agricola piuttosto estenuante. E sgradevole in apparenza. Ma direttamente responsabile come sesta fonte agricola di calorie consumate dalla specie umana. Soltanto noi del cosiddetto Primo Mondo tendiamo normalmente ad ignorarla. E difficilmente Sudamerica, Asia ed Africa potrebbero fare a meno di questa pianta. Poiché, certo: da un punto di vista pratico, qui siamo innanzi al sostituto potenziale di uno dei pilastri irrinunciabili della dieta d’Occidente. Vedi per l’appunto la patata, ma condizionata da un processo produttivo totalmente diverso e una preparazione della manodopera che affonda le proprie radici nell’epoca pre-moderna. A 10.000 anni fa, per essere precisi, quando gli abitanti preistorici del Brasile riuscirono per primi ad “addomesticare” questa pianta complessa. Attraverso iterazioni successive non del tutto frutto dell’intuito, quando si considera come di tutto il vegetale l’unica parte effettivamente commestibile per l’uomo sia la radice principale, composta da 8-9 diramazioni carnose cariche di sostanze nutritive mentre fusto, rami e foglie vengono oggigiorno gettate via nel compostaggio o accumulate al massimo come mangime per il bestiame. Previa processazione necessaria, s’intende, attraverso bollitura o cottura parziale, data la propensione altrimenti dei suddetti animali a transitare rapidamente verso il prossimo stato dell’esistenza. Questo perché la cassava in ogni sua singola parte, che potreste conoscere col nome di manioca (o yuca, con un c soltanto) possiede anche l’innata caratteristica di una quantità notevole di cianuro tra le proprie componenti chimiche interne. Il che significa che consumarla, in condizioni inidonee, può risultare sufficiente a indurre anche nell’uomo condizioni cliniche o semplicemente la morte. Un po’ come nella leggenda gastronomica del fegato del pesce palla…

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