La bianca essenza della mela prosciugata in un leggiadro dessert russo

Nel romanzo degli anni ’30 di censurato Andrei Platonov intitolato Lo Sterro, censurato per oltre mezzo secolo dai vertici del partito comunista, un gruppo di operai sotto la supervisione di un orso magico lavora senza sosta alla costruzione delle fondamenta di un un palazzo in una società distopica, destinato a sorreggere la futura e impossibilmente vasta abitazione del proletariato. Nel susseguirsi di una serie di surreali e drammatiche vicende, il protagonista della storia Voschev giunge quindi a condividere i propri dubbi esistenziali con la giovane operaia Nastya, mentre i loro compiti continuano a farsi progressivamente più faticosi, inutili e privo di un’evidente risoluzione ed un ritorno alla libertà. Fino al triste epilogo in cui lei, ammalandosi di polmonite, all’improvviso deve smettere di lavorare e nel giro di pochi giorni, lascia il regno dei viventi per passare a miglior vita. “Portatemi le ossa di mia madre” Chiede delirando nel suo letto; “Riportatemi alla fabbrica” ma soprattutto nei momenti di lucidità rimastogli, “Vorrei tanto mangiare ancora una volta la пастилу (pastyla)” Quel particolare tipo di barretta dolce alla frutta che aveva con se durante il turno di lavoro, pratica fonte di calorie senza lasciare il turno ma anche il simbolo di un’innocenza e lo spontaneo amore della gioventù per il mondo, persino in un luogo tanto cupo, incomprensibile e privo di speranze per il futuro.
“Qualche volta, una mela è soltanto una mela” disse qualcuno di notoriamente saggio, con riferimento alle implicazioni psicologiche ed il senso del complesso funzionamento della mentalità umana. Come possiamo osservare a pieno titolo dopo il trascorrere di tanti anni, quel qualcuno di sicuro non era un cuoco. Ovvero l’alchimista umano dei sapori e dell’aspetto più profondo delle cose gastronomiche, che attraverso l’utilizzo di processi, elementi e metodologie, non fa altro che riuscire a trasformare una cosa, in un’altra. E non c’è trasformazione maggiormente sorprendente di quella messa in atto per un dolce fin dall’epoca tardo-medievale nel più vasto paese al mondo, come testimoniato in una lettera scritta già da Ivan il Terribile nel 1578, durante il suo soggiorno presso il monastero Kirillo-Belozersky. In cui faceva riferimento a una “prelibatezza creata con il succo delle bacche” creata, a quanto aveva avuto modo di sapere, presso gli abitanti delle piccola città di Belyov e Kolomna, situate rispettivamente sulle rive del fiume Oka nell’oblast di Tula, e ad appena 113 Km dalla capitale Mosca. Naturalmente, considerata la complessità e fatica necessaria per porre le basi di questo particolare dolce, esso sarebbe rimasto per molti anni a seguire una pietanza possibile soltanto sulla tavola dei ricchi e potenti, ne é realmente possibile ricondurre la reale pastila o pastyla, riscoperta solamente in epoca recente, alle gelatine tascabili prodotte industrialmente a partire dagli anni della Rivoluzione, quando l’intero corpus di conoscenze appartenenti al mondo dei privilegiati venne fatto scomparire per esplicita ed imprescindibile decisione dei bolscevichi. Laddove l’effettiva produzione sistematica di una simile prelibatezza, creata a partire preferibilmente da una specifica tipologia di mele o frutti di bosco, tendeva a richiedere il lavoro di una grande quantità di uomini e donne, per un periodo commisurato alla quantità desiderata. Nient’altro che i pomi appartenenti alle varietà dal gusto acido Antonovka e Zelenka, più altre ormai da lungo tempo sparite, cotte al forno e poi laboriosamente tritate, spremute e rimescolate, fino alla creazione di un impasto che veniva inizialmente accompagnato da copiose quantità di miele e chiare d’uovo, al fine di donargli una solidità maggiore. Finché la crescente disponibilità di quella sostanza quasi magica, lo zucchero, non permise alla pastila di acquisire il gusto per cui è oggi particolarmente famosa. Ma non prima di essere tenuta in forno al fine di asciugarsi, per un periodo di molte ore che può anche raggiungere i due giorni, fino all’acquisizione di una consistenza solida e gommosa, tale da ricordare il tipico marshmallow statunitense. Ed un aspetto di sicuro sorprendente, vista la colorazione candida e perfetta come la neve. Visione rara, quest’ultima, per tutto il periodo comunista e fino alla riapertura dei confini successivamente alla caduta dell’Unione Sovietica, quando paradossalmente la globalizzazione culturale e la ripartenza dei processi sociali avrebbe consentito a due donne di realizzare il proprio sogno. Riportando indietro le lancette della tavola fino a una perduta, ed ormai quasi leggendaria, età dell’oro…

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Il pilastro del mondo tra valli di fuoco nel cuore dell’isola di Java

Secondo uno schema di credenze interreligioso, che coinvolge Buddhismo, Induismo e Jainismo, l’intero Universo e la stessa volta celeste sono supportati da un particolare rilievo montuoso, situato al centro esatto del nostro pianeta. Alto chilometri e circondato, in modo facilmente apprezzabile, dalla luce disparata di due soli distinti, le stelle della notte e i pianeti, il monte Meru avrebbe quattro facciate, rispettivamente d’oro, cristallo, lapislazzuli e rubino. Il più alto dei suoi cinque picchi, semi-nascosto dalle nubi eterne, agisce come trono del Dharma e residenza, a seconda delle versioni, di Buddha, Shiva e/o Mahavira, il 24° ed ultimo Tirthankara, ovvero discepolo del grande Insegnamento jainista. Dopo lunghe decadi d’analisi e studi filologici, dunque, gli antropologi nostri contemporanei sembrerebbero aver raggiunto la conclusione che un luogo simile possa storicamente trovare collocazione in terra d’Himalaya, presso l’alta montagna sacra di Kailash, nella regione di Ngari (6.638 metri). Ma gli abitanti della parte orientale dell’isola di Java, seguaci di un culto induista affine a quello di Bali, ma con ancora più elementi arcaici ed animisti, non sembrerebbero nutrire alcun tipo di dubbio. Possedendo la chiara testimonianza, nei loro testi culturali scritti durante l’epoca dell’impero perduto di Majapahit (1293-1527) di come i divini Brahma e Vishnu stessi, volendo aiutare l’umanità, avessero collocato un imponente massiccio entro le coste della loro particolare terra emersa, come un perno piantato fino alle remote profondità del pianeta. Chiaramente individuato, ed esplicitamente identificato da tempo immemore, con il nome altamente significativo di monte Semeru, capace di costituire con i suoi 3.676 metri il punto più alto di tutta l’isola. Ma anche punto focale, nonché maggiormente riconoscibile, di una delle zone geologicamente più insolite e caratteristiche note all’uomo, oggi denominata con il termine omni-comprensivo di Parco Naturale di Bromo Tengger Semeru, con l’aggiunta dei due termini riferiti rispettivamente alla più celebre e la più antica, nonché ormai sparita, di queste imponenti ed altrettanto notevoli montagne. Quel presumibilmente gigantesco monte Tengger, che in tempi immemori ed a seguito di un qualche tipo d’eruzione catastrofica, andò incontro alla distruzione pressoché totale, lasciando soltanto un’enorme caldera popolata da cinque ulteriori massicci (riuscite già a intravedere uno schema?) che all’ombra del sacro Semeru includono Bromo (2,329 m), Batok (2,470 m), Kursi (2,581 m), Watangan (2,661 m) e Widodaren (2,650 m). Mentre l’interno della valle stessa, circondata da un’alta parete capace di farla assomigliare a un cratere marziano, risulta ricolma di sedimenti tanti fini da renderla un letterale mare di sabbia, laboriosamente percorso quasi ogni giorno da cavalli e mezzi fuoristrada, a seconda delle preferenze individuali. Questo perché un simile luogo, inevitabilmente, ha perso negli anni le sue connotazioni puramente sacrali trasformandosi in una delle principali attrazioni turistiche dell’isola, stranamente collocabile a metà tra l’escursionismo avventuroso e la visita guidata con tanto di punti panoramici, guide specializzate e negozi di souvenir. Non che tutto ciò possa del resto inficiare l’intonso e profondo fascino, espresso da un insieme di caratteristiche esteriori, ecologiche e culturali che semplicemente esulano dall’esperienza pregressa della maggior parte dei visitatori. Con la sua zona sub-montana simile a una giungla tropicale, popolata da numerose varietà di piante tra cui 225 tipologie diverse d’orchidee, che lascia il posto all’altitudine di 1.500 metri a specie più sporadiche dal tronco legnoso come la cemara (Casuarina junghuhniana), il mentinggi gunung (Vaccinium varingifolium) e il kemlandingan gunung (Albizia lophantha). Ma è soltanto al raggiungimento dell’area sub-alpina, alle altitudini superiori ai 2.400 metri, che gli scalatori potranno avvicinarsi alla serenità intonsa di un vero e proprio Nirvana vegetale, con fiori ed arbusti sporadici che lasciano il posto, gradualmente, ad un suolo brullo composto da pietre d’arenaria. E circondato da frequenti vapori con il caratteristico odore di uova marce poiché, piccolo dettaglio che in molti mancano di menzionare è che ciascun singolo picco di questo memorabile complesso è sostanzialmente un vulcano. E cinque di essi incluso l’enorme Semeru, con l’unica saliente esclusione del monte Batok, risultano ancora rigorosamente e frequentemente attivi…

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Vanuatu: il canto delle donne che usano l’oceano come strumento musicale

“C’è una cultura guerriera, alle origini della nostra civiltà” Afferma la portavoce del gruppo di cantanti vestite in semplici abiti di foglie di palma, i fiori tra i capelli, i folti capelli ricci che ricadono corti al di sopra delle spalle: “Ma il nostro è un messaggio di speranza, e di pace.” Quindi dopo l’essenziale attimo di silenzio, iniziano all’unisono a percuotere la superficie trasparente della loro vittima designata. L’acqua salmastra da cui emerge cacofonico un frastuono all’apparenza privo di un significato, il quale gradualmente assume un ritmo, e inizia a tratteggiare il fluido mutamento di una melodia: “Cascate e vapori di fuoco / o e a e o e — o e o a e a e / geysher che sgorgano dal vulcano / O e o e, a e o e o e — ooo. La lingua usata è quella della tribù dei Titi, presso l’isola di Motalava, terza più grande dell’arcipelago delle Banks. Per una traduzione che si rende assolutamente necessaria, visto come nel territorio di questa singola provincia esistano, all’ultima stima linguistica, più di 20 idiomi differenti. Ed oltre 100 nell’intera nazione-arcipelago delle Vanuatu, situata in bilico tra il continente d’Oceania e la “coda” finale dell’Indonesia, dove un tempo giunse e si stabilì l’antica cultura perduta del popolo dei Lapita. E in seguito ad eventi e condizioni non del tutto note, nonostante la via dell’approfondimento intrapresa più volte, resta ignoto il motivo di una simile varietà di caratteristiche comunicative ed identità di una popolazione, tra le più diversificate nonostante gli appena 300.000 abitanti, nell’intero novero delle nazioni terrestri, oceaniche o meno. Sin da tempo immemore (che diventa parzialmente tale dopo appena qualche secolo, data l’assenza di tradizioni scritte sull’arcipelago) la gente delle Vanuatu si è perciò servita di un strumento particolare per trasmettere i propri sentimenti oltre i confini del singolo nucleo familiare, tribale o l’intera popolazione del villaggio E quello strumento risulta essere, neanche a dirlo, la musica: con strumenti come grossi idiofoni in legno d’albero e bambù, sonagli legati a polsi e caviglie, rudimentali cordofoni e piccoli flauti e fischietti, ma anche l’attrezzatura più moderna fornita successivamente alla venuta e conseguente colonizzazione religiosa ad opera dei Portoghesi, a partire dal XVII secolo. Eppure non sarebbe affatto esagerato affermare che in questo luogo remoto, come ogni altro, la vera musica venga dal profondo del cuore ed in conseguenza di ciò non necessiti d’altro che una mente pensante, una bocca cantante e l’ambiente stesso in cui si muovono gli esecutori, fornitore di un’ampia gamma possibile di memorabili e conturbanti suoni. Vedi il caso del più grosso e pesante strumento musicale mai concepito, quello che circonda e racchiude ogni singolo territorio abitato della Terra.
Particolarmente diffuso nelle isole settentrionali di Banks, che con i loro appena 8500 abitanti sono state più volte riconfermate essere “il luogo più felice delle Vanuatu” l’antico sistema chiamato Ëtëtung nella lingua Mwerlap dell’isola di Merelava, consiste dunque nel saper trovare un modo per estrarre quel vasto potenziale privo di una forma, ed in qualche modo veicolarlo all’interno dei propri racconti ed esecuzioni di tipologia canora. Attraverso una serie di forme e metodologie che sappiamo per certo essere state codificate e messe per iscritto soltanto negli ultimi 50 anni, a partire da una comprensibile necessità d’istruire le nuove generazioni e rendere riproducibili determinate esecuzioni. Con finalità che potremmo definire economiche e turistiche, almeno quanto finalizzate al mantenimento della più preziosa ed intangibile delle eredità trascorse…

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Nessun appiglio sfugge all’incalzante lancia del pastore delle Isole Canarie

Più una picca, che un semplice bastone, con la sua lunghezza di oltre due metri e mezzo. L’accecante luce del sole di primavera rimbalzava aggressivamente dalle increspature distanti della risacca. L’erba oscillante nel vento, solleticando l’ansia di raggiungere la meta, spuntava grigiastra tra le rocce di un paesaggio quasi marziano. Un colpo alla volta, un salto dopo l’altro, l’uomo col cappello di paglia combatteva la sua eterna battaglia. Come gli aborigeni dell’area macaronesiana a largo dell’Africa Occidentale, che nel quindicesimo secolo sotto la guida del condottiero Bencomo circondarono le truppe di Castiglia nella prima battaglia di Acentejo, attaccandoli con lance e pietre di questa stessa scoscesa isola di Tenerife. Il suo nemico, questa volta, era di un tipo radicalmente differente: senza volto, senza cavalli e senza fucili. Qualcuno avrebbe potuto affermare, cogliendo nettamente la questione, che potesse trattarsi del territorio stesso. Così l’uomo solleva i piedi dal pietroso suolo, alla maniera di chi volesse suicidarsi saltando giù dalla scogliera. Eppur tra le sue mani, ben stretta, trova posto quella pertica di legno che i locali chiamano garrote, lata o astia a seconda dell’isola di appartenenza. O ancor più semplicemente, la lanza. Attrezzo in legno più largo nella parte inferiore piuttosto che quella superiore, al fine di semplificare la frenata di chi si affanna a stringerlo, mentre lo usa come appiglio mobile per compiere l’impresa. Ed è allora che l’esperto praticante, conficcando tale arnese nella polvere, non soltanto arresta parzialmente la sua discesa. Ma riesce facilmente a controllarla, compiendo evoluzioni a mezzaluna, traslazioni laterali e disegnando archi eleganti verso il succedersi delle aree sottostanti. Mentre l’aurea spiaggia dell’Atlantico, un poco alla volta, tende a farsi progressivamente più vicina. Ed i belati delle capre del suo gregge, ancora tutte assieme per l’istinto di cui la natura le ha dotate, sembrano innalzarsi per accogliere la sua venuta.
Majorera, Tinerfeña, Palmera: questi i termini associati alle tre principali razze caprine, create attraverso i secoli dagli abitanti di queste particolari terre emerse, che non brillano esattamente per l’accessibilità e l’ampiezza dei propri pascoli erbosi. Benché a tal punto fosse associato questo specifico mondo animale, allo stile di vita e la sopravvivenza dei nativi, che in determinati territori delle isole Canarie esistono fino a 40 nomi diversi per le capre, in base al numero e la combinazione dei colori, il fatto che siano marchiate oppure lasciate allo stato brado e la dimensione o il sesso del singolo esemplare. Benché l’aggettivo idoneo a definirle, possiamo facilmente immaginare, fosse più o meno sempre lo stesso: difficili (da seguire) come ci si aspetta da coloro che hanno in forza dell’evoluzione la capacità di trarre il meglio dalle mura più scoscese di questo mondo. Al che i primi abitanti di queste particolari rocce emerse, che si ritiene fossero giunti qui in epoca preistorica successivamente alla crescente desertificazione dell’odierno Sahara, elaborarono e perfezionarono il particolare approccio, che trae l’origine da talune specifiche regole della fisica. Secondo cui se un peso umano poggia tutto su un qualcosa di sottile e ben fissato a terra, diventa autonomamente più facile dirigere la direzione e modalità effettiva del suo atterraggio. Grazie all’uso di speciali tecniche che sono state tramandate, in seguito, alle successive generazioni. Fino alla nascita di quella che potremmo definire ad oggi una sorta di disciplina folkloristica come nel caso del Silbo gomero, lingua fischiata parlata dagli abitanti dell’isola omonima per comunicare tra i pastori distanti, e al tempo stesso qualcosa di più simile a uno sport estremo, versione più rurale (ed attrezzata) del moderno parkour. Ci vuole, in effetti, una certa preparazione fisica, ma anche e soprattutto l’esperienza pregressa tramandata dai predecessori, per riuscire a muoversi con apprezzabile agilità nei territori avversi di tali scogliere e montagne. Assieme a un certo grado di coraggio irresponsabile, che comunemente non tendiamo ad associare alla figura quieta, e rilassata, del pastore di montagna…

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