La saggezza dell’uccello che guida i popoli africani verso il miele

Chi conferma con la logica il conflitto pervasivo, eternamente prolungato, tra l’agire degli esseri umani e i loro coabitanti di questo pianeta, gli eterogenei esseri che volano, strisciano, nuotano e camminano attraverso gli habitat dei loro ambienti d’appartenenza? Quale verità sussiste, nell’effettivo intercorrere di cause ed effetti, nell’idea secondo cui la gente e la natura siano due fattori estremamente avversi, capaci d’influenzare l’Universo in senso opposto, generando implicazioni totalmente incompatibili tra loro? A colui che pensa questo, sarei qui per consigliare, in modo estremamente semplice e diretto, di aprire gli occhi, anche soltanto per un attimo, alla particolare vicenda dell’uccello indicatore (Indicator indicator) imparentato col picchio europeo, la cui storia evolutiva, sin da tempo immemore ha trovato il modo e la ragione d’intrecciarsi con la nostra. Riuscendo a generare, per entrambe le specie coinvolte, validi presupposti di guadagno e accrescimento della qualità della vita. Basti chiederlo, come riferimento, a tutti quei cacciatori di cibo dell’Africa subsahariana che, indipendentemente dall’etnia di appartenenza, hanno imparato a riconoscere l’astuto volatore, per l’utile servizio che esso rende alla comunità: condurre senza esitazioni chiunque ne presenti l’interesse. Verso la risorsa, premio e al tempo stesso ricompensa che tende a costituire una parte primaria della dieta di costui, spesso a discapito della moltitudine capace di produrlo. Api, ovviamente, coloro che per propensione ronzano, aggredendo e pungendo tutte le creature, costruendo un muro invalicabile di sofferenza per un aspirante, come il succitato pennuto, dal peso di appena 50 grammi e una lunghezza di 20 cm dal becco alla coda. A meno che, una condizione assai specifica, costui non si prepari ad assaltare il forte con l’aiuto di quel “qualcuno” che conosce e sa impiegare il fumo, per stordire le abitanti gialle e nere della dolce fabbrica appesa al ramo, sulle rocce, sotto terra o in cima a un termitaio. Ecco ciò di cui stiamo parlando, dunque: uno dei più egregi, ed evidenti, tra tutti i casi d’interrelazione tra comunità umane ed animali selvatici, messa in opera grazie all’apprendimento trasmesso attraverso il codice genetico dei primi e le tradizioni ereditate dai secondi, con ampia diffusione e che si è dimostrato anche in grado, attraverso recenti studi scientifici, di uscire dal reame degli aneddoti venendo inserito a pieno titolo nell’antologia dei comportamenti effettivamente diffusi secondo analisi statistiche trasversali. Nonostante sembri sotto molti aspetti fuoriuscita da una fiaba, o se vogliamo, il tipico racconto breve di Joseph R. Kipling, famoso e grande interprete letterario della natura…

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Tujia: la memoria di un popolo che canta il cuore della Cina

Stolidamente capace d’incedere verso il progresso e protetta dallo scudo impenetrabile di un rigido guscio, dal quale spuntano zampe scagliose ed artigli acuminati: questo è l’aspetto della Sapienza, almeno nella sua personificazione quadrupede su questa Terra, rappresentata dall’immagine immensamente popolare della tartaruga. Che dopo aver percorso i sentieri del mondo per almeno 100 anni ed aver incontrato una dipartita del tutto naturale, o almeno così si credeva, essa poteva costituire l’elemento al centro di un preciso rituale finalizzato a prevedere l’andamento degli eventi futuri, tante volte messo in atto dai profeti al servizio dell’antica dinastia Shang (ca. 1600 a.C. – ca. 1046 a.C.) anche detti praticanti dell’arte altamente specifica della piromanzia. Che consisteva, essenzialmente, nel sottoporre tali umili resti animali all’incandescente effetto di una fiamma viva, affinché su di essi venissero a formarsi una serie di crepe, attraverso le quali sarebbero state tratte le conclusioni ritenute opportune, più o meno specifiche a seconda del volere del sovrano. Ma questo non prima che, secondo la tradizione, sulle ossa e il carapace fossero state incise le cronache altamente dettagliate delle ultime successioni dinastiche, le più importanti battaglie, scambi commerciali ed eventuali carestie del raccolto. Così che tali oggetti, ritrovati millenni dopo dai contadini all’inizio del secolo scorso, hanno costituito delle precise capsule temporali, capaci di darci un’idea estremamente precisa di quelle che furono le remote origini dell’odierna Cina.
Per molto tempo, tuttavia, fu impossibile associare il nome piuttosto generico comparso su uno di questi ritrovamenti di Lin, a un particolare capo delle tribù dell’area dell’Hunan occidentale, che tra queste montagne aveva unificato una serie di sette tribù, capaci di contrapporre la propria esistenza a quella degli altrettanti regni nei quali, ben presto, il solido impero si sarebbe trovato diviso e da cui sarebbe emersa la figura di un possente e inarrestabile conquistatore. Esiste una precisa letteratura contemporanea dunque, coadiuvata da molte dicerie popolari, secondo cui il popolo degli Han sotto la guida di Qin Shi Huangdi, “primo” Imperatore, costruttore della Grande Muraglia e dell’Esercito di Terracotta, avesse nei fatti costituito un amico diplomatico dei discendenti stessi di costui, che aveva assunto il potere dopo una serie di prove di forza e di coraggio, diventando il solo ed unico sovrano del regno tribale di Da, prima di trasformarsi nella tigre bianca venerata tutt’ora, come totem animistico del proprio popolo senza tempo.
Vicinanza, questa, destinata a durare nel tempo fino alle ben più recenti dinastie Ming (1368–1644) e Qing (1644-1912) durante cui l’elite governante cinese prima, e di etnia manciù nei tre secoli successivi, si sarebbe assai dimostrata propensa ad affidare gli interessi del proprio dominio tra le montagne nelle sapienti mani di quegli amministratori detti Tujia (“popolo locale” contrapposto a quello degli Hakka, “popolo ospite” o migratorio), che in cambio di tale indipendenza erano soliti inviare presso la capitale schiere di abili soldati, utili a sedare le cicliche rivolte destinate a sconvolgere i mari incostanti della storia cinese. Dopo gli anni di sofferenza e fame trascorsi come effetto collaterale della rivoluzione maoista, che con il suo Grande Balzo in Avanti aveva messo in atto riforme per marginalizzare l’economia delle campagne, gli odierni nove milioni circa di persone capaci di riconoscersi in questa etnia riguadagnarono l’orgoglio nell’eredità culturale del proprio popolo, riconosciuto ufficialmente come una delle 54 minoranze del più vasto paese dell’Estremo Oriente. Fino a comparire occasionalmente, assieme ai loro vicini e storica controparte nei commerci dei Miao (aree occupate: Guizhou, Yunnan, Sichuan…) in numerosi documentari o spezzo televisivi finalizzati a far conoscere al mondo il ricco tessuto della vita e cultura ereditaria della Cina. Sussistono tuttavia alcune sostanziali differenze, tra le rispettive identità, che molto spesso il fruitore non-nativo tende a soprassedere, abbagliato dai fantastici colori dei loro costumi, copricapi e le affascinanti tradizioni tutt’ora praticate dai rispettivi rappresentanti. Tali da poter definire, in un certo senso, i Tujia come il popolo maggiormente “musicale” o “danzante” dell’intero entroterra d’Asia…

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L’isola sopravvissuta secoli nutrendosi di palme velenose

L’anno era il quattordicesimo dell’era Keicho (1609 d.C.) non troppo dopo l’inizio del regno dell’Imperatore Katahito e a seguito dell’epocale battaglia sulla piana di Sekigahara, costata la vita alla parte significativa di un’intera generazione di nobili e popolani. Ancora una volta Tamaki guardò fuori dalla finestra della sua nuchijaa in legno con tegole di terracotta, avendo cura di non affacciarsi in maniera troppo evidente per i sorveglianti con le due spade. Mentre accarezzava pensierosamente il bastone con l’anima di ferro, arma ereditaria della sua famiglia, si rivolse quindi alla propria consorte Beniko “Puah, samurai! Non riesco ad immaginarmi nulla di meno giapponese” Smettendo per un attimo di percuotere con enfasi il mochi dalla strana consistenza che stava preparando in un pentolone, lei ebbe appena il tempo di rivolgergli uno sguardo preoccupato, prima che i ricordi sopraffacessero entrambi. Di un epoca capace di sembrare lontana di anni ed anni, prima che le navi dai vessilli verdi del clan Shimazu sbarcassero sulla verdeggiante isola di Amami, permettendo ai loro occupanti di dichiarare le terre emerse del sub-arcipelago delle Ryukyu come un proprio territorio per il concetto quasi-universale del destino manifesto, sopra cui imporre la dura legge e tassazione di un distante daymyo nel suo castello, circondato da tesori dell’arte e incalcolabili ricchezze della nostra Era. “Marito, metti via l’hanbō per favore. Sai cosa è successo al nonno e se soltanto l’uomo là fuori dovesse sospettare un intento di ribellione da parte nostra, ordinerà di nuovo ai suoi sottoposti di erigere i pali. Se dovessi finire crocifisso, non sopravviverei…” Parole tremule, ma un’espressione risoluta. Di guerrieri, navigatori, ecclesiastici disallineati. Per lunghe generazioni, all’insaputa dei sedicenti Shōgun di Heian-kyō (Kyoto) prima e i signori della guerra della guerra civile, la gente di Amami aveva commerciato e conversato con i mercanti provenienti dalla Corea, Cina e altre terre lontane, apprendendo norme della tecnica e della scienza precedentemente inusitate. Assieme alle storie di un uomo vissuto, morto e resuscitato oltre un millennio e mezzo fa in Galilea. Ed era proprio in suo nome che adesso, esisteva una simile possibilità: “Vorresti dirmi che non abbiamo altra scelta? Dare via il nostro raccolto e soffrire, per l’ennesima volta, il tormento del sotetsu jigoku?” Fu allora che un suono distante sembrò risuonare nel loro giardino: era la Shishi-odoshi, canna di bambù dondolante che colpiva la pietra sonora posta alla sua estremità. “Niente affatto, mio caro. Ti sto consigliando di assaporarlo, preparandoti a un’ora della riscossa che potrebbe anche non giungere mai!”
Sotetsu (ソテツ in alfabeto sillabico, non esistono kanji per definirla) è una “palma” del gruppo delle cicadofite, in realtà parte di quell’antichissima gruppo di gimnosperme (piante dal seme nudo) che da oltre 300 milioni di anni sopravvivono e si propagano a dismisura, nella maggior parte dei biomi tropicali e non solo. Mentre jigoku (地獄) significa, letteralmente, inferno. Un’associazione o metafora, questa, quanto mai appropriata soprattutto all’epoca, per definire l’ultima risorsa disperata di un intero popolo isolano costretto più volte a fare la fame, prima per l’occasionale verificarsi di periodi di magra e catastrofi naturali, quindi per le dinamiche sociali imposte da un crudele corso della storia. E più volte viene narrato, nella letteratura locale, di quanto terribile fosse, in origine, consumare i frutti, le foglie e persino il tronco specie locale della Cycas revoluta, basso e tarchiato arbusto dalle foglie lanceolate, naturalmente in grado di produrre la cicasina, una sostanza a base di glucosio capace di causare conati, nausea, diarrea e gravi conseguenze sull’integrità dei reni e del fegato umano. Questo almeno finché la gente dell’isola di Ashima non scoprì, forse accidentalmente, che lo stesso fungo impiegato per trattare la soia allo scopo di farla fermentare nella preparazione del miso, l’Aspergillus oryzae o più semplicemente koji (麹) poteva sortire un effetto quasi mistico sulla polpa ridotta in polvere dell’amata-odiata pietanza vegetale. Separando il principio attivo dalla parte commestibile durante la fermentazione in maniera sufficiente perché fosse possibile, a quel punto, passare alla fase successiva di una complessa e importantissima procedura…

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L’antica professione della pesca con la lontra in Bangladesh

Uniti ma divisi, nel teatro della foresta di mangrovie più vaste al mondo che chiamiamo Sundarbans: tre diversi personaggi. Il primo nuota, per definizione, sotto il ciglio di quell’acqua opaca per la terra e il fango smosso, andando in cerca del tesoro ittico della giornata. Il secondo viaggia in mezzo agli alberi, strisce mimetiche nel vento, con gli artigli pronti per ghermire chiunque invada il proprio territorio. Il terzo sono io, il terzo siamo noi. Il terzo è il tipico rappresentante (singolare/plurale) delle genti indigene del Bangladesh. Tra quest’ultimo e il secondo, quella tigre delle circostanze, non può esservi un incontro produttivo, poiché siamo rispettivamente assai pericolosi, carnivori aggressivi, costruttori e boscaioli… Tra la lontra ed il secondo, zero incontri, poiché lei sa correre e nascondersi, gettarsi in acqua e scomparire molto prima di finire preda del famelico felino. E invece, l’uomo? C’è un conflitto, un dramma, qualche tipo di racconto? Ebbene, se vogliamo, c’è qualcosa di persino meglio di così; un’antica e importantissima alleanza. Così tanto duratura perché possa teorizzarsi, in questi luoghi, quell’approssimazione funzionale del processo evolutivo della natura, che ha comunemente il nome di addomesticazione. Nato e ancora adesso presentato in modo più che mai evidente, dal ripetersi di un gesto antico: quello del maestro pescatore, circondato da una schiera di assistenti zampettanti, squittenti e quanto mai operosi.
Questo genere di lontre, immagino le conosciate molto bene. Si tratta delle Lutrogale perspicillata o “a pelo liscio” esteriormente molto simili alla specie più diffusa dalle nostre parti, soprattutto nello stato naturale di questi animali, ovvero quello ricoperto e intriso di acqua quando emergono dall’increspata superficie del proprio habitat privilegiato. Per rientrare, almeno in questo caso, nella scatola di legno incorporata nel tipo più classico d’imbarcazione del gruppo etnico e culturale dei Malo jele, popolazione fortemente radicata nell’ambiente estremamente umido delle remote Sundarbans. Intendiamoci, non siamo certamente qui a parlare di un’industria pervasiva secondo gli standard d’osservazione moderni, che possa costituire le ragioni del sostegno di una vera e propria economia. Bensì della pratica lungamente tramandata di un particolare tipo di attività familiare, oggi sfruttata da circa 300 persone a voler essere conservativi, benché fosse in grado di coinvolgerne almeno 10 volte tante all’inizio del secolo scorso; nient’altro che un approccio, se vogliamo, ad un diverso tipo di rapporto proficuo con la natura. Che consiste, come avrete già intuito, nel procurarsi una certa quantità di lontre in età pre-adulta ed addestrarle, al fine di poter contare sulla loro assistenza durante la ricerca e la cattura sistematica del pescato. In un numero tra i tre e i sei animali per ciascun operatore, di un approccio che prevede inoltre la partecipazione di almeno un paio di aiutanti umani, al fine di manovrare la barca e nel contempo i lunghi pali, al termine dei quali sono collocate, rispettivamente le lontre e le reti. Metodologia la cui provenienza da un periodo cronologicamente remoto risulta chiaramente osservabile, nell’estrema efficienza con cui sembra mettere a frutto lo spazio difficile della palude…

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