“Quindi uomini della Polinesia, di Boston, della Cina e il monte Fuji” concludeva il proprio incipit James A. Michener, nel famoso primo capitolo del suo romanzo sulla storia delle isole Hawaii, “Non c’è cibo qui. Non c’è alcuna certezza. Portate il vostro cibo, i vostri Dei, i vostri fiori, frutti e concetti. Poiché se verrete senza risorse su queste isole, sarà la vostra fine.” Non portate tuttavia, sarebbe stato il caso di aggiungere, particolari quantità di piante in vaso, particolarmente se provenienti dalla parte meridionale del continente americano. Un suggerimento che nessuno ebbe ragione di pronunciare, e d’altra parte ben pochi avrebbero ascoltato, prima che fosse irrimediabilmente troppo tardi. E adesso che guardiamo indietro, almeno fino all’inizio degli anni ’90, non è particolarmente facile capire chi o in quale maniera abbia compiuto l’involontario misfatto, a seguito del quale una creatura aliena ed indesiderata avrebbe trovato terreno fertile per prosperare e moltiplicarsi, ancor più dei popoli che furono capaci di accettare le ardue condizioni coloniali di un così remoto paradiso tra le avverse corrente marine. Chi, se non Wasmannia auropunctata, l’altrimenti detta formica elettrica o LFA (Piccola Formica di Fuoco) imenottero tutt’altro che onnipresente tra gli alberi delle sue giungle di provenienza, dove la competizione per un territorio naturalmente ostile ha progressivamente reso questi piccoli esseri più agguerriti, prolifici ed intraprendenti della maggior parte degli insetti su questo pianeta. Con la loro rara propensione alla partenogenesi nei periodi più difficili e assieme a questa, l’assolutamente unica capacità di eliminare il materiale genetico femminile dall’embrione successivamente al concepimento, creando in effetti una netta suddivisione dell’eredità genetica all’interno di una singola colonia, composta interamente da cloni di un singolo maschio ed una singola femmina. Qualcosa di letteralmente inusitato nel regno animale e per ottime ragioni, poiché rende gli esemplari maggiormente vulnerabili ad eventuali rischi di natura genetica o malattie ereditarie, sebbene ciò non sembrerebbe in alcun modo aver causato dei problemi significativi alla capacità di proliferazione di queste infernali clandestine. Capaci di risultare terribili per molte valide ragioni, la prima delle quali attribuibile alla loro capacità d’inoculare un veleno urticante a seguito dei loro morsi, di natura molto più dolorosa e potente di quanto saremmo istintivamente propensi ad aspettarci, data la grandezza di un’operaia o soldato non superiore al millimetro e mezzo nella maggior parte dei casi. Un problema esacerbato dalla propensione di queste formiche a fare il nido praticamente ovunque, incluse le cime degli alberi, da cui può bastare una folata di vento a farle ricadere sul sentiero sottostante in una sorta di terribile pioggia assassina, capace di rovinare completamente l’esperienza di un pic-nic o passeggiata nella natura. Ma le cose sono persino peggiori di così: raggiunto casualmente un corso d’acqua, le formiche elettriche sono infatti rapide a formare efficaci zattere coi loro corpi, capaci di resistere fino all’approdo in territori anche notevolmente lontani. Dove pressoché una qualsiasi di loro, al sopraggiungere della necessità, potrà dimostrare le doti latenti necessarie ad assumere il fondamentale ruolo di regina. Diffondendosi al livello del terreno, invece, le auropunctata sono solite provocare un altro tipo di tragico problema: le punture reiterate in prossimità degli occhi di animali quadrupedi, come gatti o cani, fino al verificarsi della condizione clinica di keratopatia della Florida, che sfocia prima o poi nella cecità totale. Un destino particolarmente crudele, già toccato a numerosi animali domestici di questi “sereni” lidi…
ecologia
L’ornato cormorano che costruisce piccoli vulcani sul confine del Polo Sud
Nel primo terzo del XIX secolo si presentò finalmente occasione, durante la navigazione del brigantino britannico Magnet impegnato nella caccia delle foche, di posare l’occhio su una terra emersa precedentemente non segnata su alcun mappa. Questo piccolo arcipelago ancora privo di nome, citato nel diario di bordo del capitano Peter Kemp, era situato a metà strada tra le isole Kerguelen e l’Antartico, potendo costituire effettivamente un importante punto di sosta e rifornimento sulla strada di uno dei nuovi territori di caccia più vasti e redditizi dell’interno meridione terrestre. “L’approdo risulta essere abbastanza semplice” scrisse, “e la posizione delle isole evidente anche al di sotto della linea dell’orizzonte, grazie al sorvolo di un particolare tipo dell’uccello di mare che si è soliti chiamare shag” Seguiva descrizione del volatile in questione, facilmente riconoscibile per una serie di caratteristiche piuttosto distintive: “Bianco e nero, come un pinguino, dell’altezza approssimativa di una settantina di centimetri. Un ciuffo sulla testa, il becco giallo e sopra di esso, due sporgenti sfere di colore arancione, più o meno dove dovrebbero trovarsi le sue narici.” Ciò che l’esperto lupo di mare aveva visto in quel frangente, e come lui avrebbe avuto modo d’incontrare per secondo il collega John Heard ma soltanto a una distanza temporale di oltre due decadi, era la popolazione locale del cosiddetto cormorano dagli occhi blu “imperiale” o Leucocarbo nivalis la cui suddivisione tassonomica risulta ancora oggi tra le più complesse e discusse dell’intero mondo animale. Per la somiglianza notevole con la specie sudamericana L. atriceps, ma anche una vasta serie di volatili inseriti originariamente dal grande ornitologo Charles L. Bonaparte nel genere Phalacrocorax, famiglia dei phalacrocoracidae, prima che un pluri-decennale tentativo di riflettere le linee evolutive lo facesse suddividere ulteriormente in un diverso genere, secondo alcuni quasi monotipico e diviso in un numerose sottospecie indistinte. Sebbene come spesso capiti, la continuativa presa di coscienza della diffusione frammentaria di questi uccelli possa mantenere un valore prezioso, al fine di preservarne le singole popolazioni situate, alternativamente, dalla costa della Patagonia fino a quella che sarebbe diventata per l’appunto, ispirandosi al nome del suo secondo “scopritore”, l’isola di Heard. Tutti accomunati tra le altre cose da uno sguardo niente meno che magnetico, grazie alla colorazione blu cobalto delle loro iridi, probabilmente utilizzate come strumento di seduzione. Nel corso della breve ma sinuosa danza effettuata con il lungo collo, primariamente tra ottobre e novembre di ogni anno, al fine di trovare una compagna all’interno della gremita colonia, con cui fare l’esperienza di costruire il nido e mettere su famiglia. Una dimora necessariamente costruita in terra, per l’assenza di efficienti arbusti a queste latitudini, benché dotata di un prestigio e presupposti abitativi chiaramente superiori alla media di simili uccelli. Essendo la dimostrazione di come gli esseri biologici, talvolta, amino ispirarsi alla geologia terrestre…
L’esperimento acustico che ha finalmente rivelato i metodi di caccia del grande gufo grigio
Nella corsa alla armi evolutiva di due gruppi di creature contrapposte, forse nessun caso risulta essere più lampante di quello osservabile nell’interazione ecologica tra varie specie della sottofamiglia degli arvicolini (cricetidi scavatori) e gli strigidi (Strix, Bubo, etc.) ovvero il tipo il di rapace che siamo soliti individuare dopo le ore del tramonto, mentre sosta sopra un ramo producendo ad intervalli ragionevolmente regolari il suo richiamo dal tono funereo. A meno di appartenere ad una specie assai diffusa dal punto di vista geografico, per cui il silenzio non è solamente d’oro, ma un letterale e probabilmente il più imprescindibile degli strumenti di sopravvivenza, come reso evidente dall’imponenza della sua particolare anatomia d’ascolto. Non un padiglione, né la cartilagine di orecchie sporgenti, bensì la forma stessa di un ampio e impressionante “faccione” cerchiato da ondate sovrapposte di piume, in una serie di cerchi concentrici capaci di massimizzare l’effetto scenografico di un uccello dall’aspetto già assai distintivo. Una forma tanto estrema e preponderante, a dire il vero, da trascendere le semplici necessità dell’apparenza, risultando a pieno titolo dotata di funzionalità estremamente precise. Prima tra tutte, quella di guidare in un percorso i suoni catturati tra gli arbusti della foresta, permettendo alla creatura leggendaria d’individuarli, per mettere in scena un formidabile, nonché spietato copione. Sto parlando dunque della specie che la scienza definisce Strix nebulosa, ma nell’eloquio volgare vede vari appellativi tra cui allocco o gufo della Lapponia o ancora, molto più semplicemente, il grande gufo grigio. Un animale molto noto nel suo vasto areale eppure sorprendentemente poco studiato, a partire da una classificazione tarda documentata soltanto a partire dal 1772 in Canada, ad opera del naturalista in trasferta canadese J. R. Forster, particolarmente noto per aver accompagnato pochi anni dopo l’esploratore James Cook. Così schivo e indifferente all’avvicinamento dell’uomo, restando perfettamente immobile e mimetizzato, che in effetti ben pochi dettagli erano stati accertati al di là di meri aneddoti per quanto concerne istinti e metodologie di caccia, almeno fino al nuovo articolo pubblicato lo scorso 23 novembre da Christopher J. Clark, studioso del dipartimento di biologia dell’Università della California. Un lavoro molto approfondito che non si è semplicemente limitato ad osservare il gufo nel suo ambiente naturale, ma contribuire attivamente a ricreare le condizioni che precorrono ed anticipano questo momento di rapida e precisa attività pennuta, culminante con lo stringersi assassino di quel becco ricurvo sulla schiena del piccolo roditore. Mediante un approccio semplice, eppure mai battuto prima di questo momento: la sepoltura temporanea sotto la neve di alcuni altoparlanti, capaci d’imitare il suono ben riconoscibile e sommesso prodotto dall’arvicolina nel momento del suo furtivo incedere sotterraneo. Con dei risultati capaci, a conti fatti, di sorprendere chi aveva preso nota dei presupposti…
Le cospicue battaglie dell’antilope dal muso trapezoidale
Nelle regioni occidentali del KwaZulu-Natal, al sopraggiungere della primavera, un suono roboante può essere sentito che riecheggia lungo i margini semi-abitati della savana. Come un rombo dal profondo, ripetuto ed insistente, che penetra il silenzio catturando e monopolizzando l’attenzione degli escursionisti. Terribile ed al tempo stesso affascinante, spaventoso almeno quanto sa essere caratteristico, esso è il segno udibile di un’impressionante battaglia: quella condotta tra due esemplari maschi adulti dell’Alcelaphus buselaphus caama, volgarmente detto alcelafo rosso o del Capo. Un’imponente gazzella dal muso lungo e le zampe sottili, il corpo muscoloso ed un distintivo paio di corna ritorte, spesse e aerodinamiche, che puntano diagonalmente all’indietro. Creatura dal peso che si aggira normalmente tra i 100 e 200 Kg, in un’espediente dell’evoluzione assai probabilmente motivato dal bisogno di resistere ed allontanare i predatori, risultando effettivamente totalmente impervia dal punto di vista di sciacalli, ghepardi o iene, a meno che i suddetti siano inclini a mettere in pericolo la propria incolumità personale. Una capacità d’autodifesa ulteriormente accresciuta dalla statura considerevole dell’animale, che con la sua altezza al garrese di 1,1-1,5 metri riesce facilmente a scrutare l’orizzonte, rispondendo con largo anticipo ad ogni possibile pericolo incipiente. Potendo comunque ricorrere ad una velocità di fuga che si aggira tra i 70-80 Km/h in campo aperto, dimostrando una capacità di sfruttare i propri muscoli decisamente al di sopra della media. Al che può risultare inaspettato, e per certi versi stupefacente, che una creatura come questa pur costituendo vasti branchi di fino a 300 esemplari mostri un’inclinazione nettamente stanziale, rifiutandosi generalmente di spostarsi più di qualche chilometro dal proprio territorio elettivo, in un approccio all’esistenza che potremmo collegare strettamente alla progressiva riduzione del suo areale d’appartenenza. Laddove anticamente, in base ai fossili ritrovati, gli alcelafi (in lingua inglese hartebeest) erano diffusi nell’intero continente africano, mentre al giorno d’oggi si trovano distribuiti in una pluralità di popolazioni diversificate dal punto di vista genetico ed impossibilitate a mescolarsi tra loro. Otto per la precisione ed includendo quelle tassonomicamente controverse, oltre a un’altra recentemente estinta, l’A. b. buselaphus di Bubal originario dei territori marocchino ed egiziano. Ciascuna sottospecie in uno stato di conservazione nettamente distinto, con la variante sudafricana risultante ancora di gran lunga la più diffusa, mentre l’etiope A. b. swaynei costituisce una delle antilopi attualmente maggiormente rare al mondo. Il che non significa, d’altronde, che la popolazione complessiva di questa intera specie sia attualmente in condizioni migliori, con una perdita percentuale misurabile annualmente, in forza dell’inevitabile e costante riduzione del suo habitat. Oltre ad un tipo di caccia purtroppo non sostenibile, condotto per parecchie generazioni dalle popolazioni locali e visitatori provenienti da settentrione, in forza di una particolare facilità nel rintracciare, avvistare ed abbattere questi grandi erbivori nel loro ambiente naturale. Un’esperienza, quanto pare, tenuta particolarmente in alta considerazione all’interno di determinate cerchie di umani…