Cosa causa strani gorghi tra le sabbie del deserto del Mojave?

Risulta molto facile, questo saremmo pronti a giurarlo, per un uomo in piedi sopra un tetto a lato della strada illuminata dalle insegne nota globalmente come “lo Strip” (Striscia)… Affermare, intendo, mentre s’indica a ridosso della linea dell’orizzonte, il punto in cui il deserto lascia il posto alla città. “Qui è il confine oltre il quale la natura cessa il proprio predominio, per lasciare spazio alle incrollabili barriere dell’asfalto.” E così avviene, d’altra parte, per ciascuna significativa strada dello stato del Nevada, inclusa quella panoramica che porta al canyon delle Red Rocks, paesaggio reso celebre da mille o più film del genere ambientato nel cosiddetto Far West. Quando l’evidenza ci ha provato, a più problematiche riprese, il modo in cui bastano pochi attimi, durante il proseguir di un pomeriggio di pioggia, perché gli antichi arroyos (depressioni o canyon secchi dove un tempo transitavano torrenti) adattati tanto attentamente per l’ausilio alla viabilità motorizzata, facciano ritorno a quello stato primordiale per cui tutto scorre, sotto il margine di un liquido tumulto, fronte smisurato dell’inondazione.
Ed allora, apriti cielo (e suolo)… Perché nulla sembra più avere un senso! Come nel frangente qui documentato, in grado di suscitare parecchi interrogativi sul pubblico locale e nazionale, dalla nature girl
Jessica Forsthoffer sulla sua pagina Twitter e da lì a seguire, verso Facebook, Reddit e YouTube. Un qualcosa che potremmo definire semplice o addirittura normale, se soltanto ci trovassimo a guardare il bacino artificiale situato a monte di una diga. Poiché pare, sotto i nostri occhi increduli, che una serie di tappi siano stati tolti al fondo della piana sabbiosa con vegetazione rada. Affinché l’acqua, vorticando diligentemente, si affretti a correre verso destinazioni sotterranee sconosciute. Ma prima d’inoltrarci nella questione titolare, vediamo di affrontarne un’altra, parimenti significativa: deserto? Acqua? Piane alluvionali? Se mai c’è stata a questo mondo una contraddizione in termini, beh, sarebbe assai difficile negarne trovarne una maggiormente palese. Ma per tutto ciò esiste, parlando in chiari termini ed unicamente quelli, un’importantissima ragione. Che può essere riassunta nel binomio di ambito meteorologico composto dall’espressione “Monsone Messicano”. Chiaro, non si tratta di una storia spesso discussa sulla scena meteorologica internazionale, tanto meno quanto la sua nota controparte del subcontinente a sud dell’Asia. Benché costituisca, sotto più di un punto di vista, il maggior evento stagionale dell’intera zona centro-meridionale statunitense, fin quasi alle distese dell’entroterra texano. Che trae l’origine, come molti altri fenomeni di natura ambientale, tra le masse d’aria umida del golfo della (Bassa) California…

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Kiribati, la nazione che rischia di sparire con l’alta marea

In un apocalittico istante sullo stretto istmo di terra che separa Parigi e Londra, il complicato incastro acquatico che separa arbitrariamente il Pacifico Meridionale da quello Settentrionale sembrò contrarsi, quindi espandersi ricoprendo l’unica strada asfaltata di un’intera comunità di 120.000 persone. Non pensiate neanche per un attimo, tuttavia, che tali nomi abbiano lo scopo d’indicare spazi affini a quelli delle omonime grandi capitali europee. Bensì piccole penisole, unite da uno stretto ponte di terra, ai margini di quella che l’esploratore spagnolo Hernando de Grijalva scelse di chiamare nel 1537 Acea. Ma che col tempo, avrebbe visto il proprio appellativo sugli atlanti trasformato in Christmas Island (Isola di Natale) quindi successivamente, secondo le regole fonetiche locali, in Kirimati. La risacca avanza un po’ alla volta, per poi trasformarsi in una vera e propria onda, sufficientemente alta da ignorare la banchina alta appena mezzo metro, attraversando letteralmente la linea tratteggiata che divide trasversalmente il tragitto per le poche automobili locali. Ciò che avviene dopo, quindi, è una vista al tempo stesso surreale e ben collaudata: l’Oceano si apre per accogliere se stesso. Indisturbata dall’aver attraversato una terra emersa dai confini sempre più sfumati, l’onda procede per il suo tragitto verso l’infinito. Assieme ad essa, qualcosa d’insostituibile procede: il corpo in sabbia e terra di un’intero micro-universo, che potrebbe sopravvivere a un simile trattamento per i prossimi… 20, 30, 40 anni? Lapidi silenti a immota testimonianza, come pietre miliari circondate dalle correnti, qui restano le tombe dei soldati caduti in una delle più sanguinose battaglie nel conflitto tra le forze americane e giapponesi. Quando tutto il resto sarà sparito sotto i flutti, chi potrà riuscire a conservarne la memoria?
Il fatto che occorre specificare quando si prende in considerazione il progressivo declino Atlantideo di svariate nazioni-arcipelago sperdute nel più vasto spazio azzurro dei nostri mappamondi, tra cui quella più spesso discussa è anche la più prossima all’annientamento, è che non si tratta di un potenziale disastro nel remoto futuro di un’epoca impossibile da definire; ma un preciso evento, purtroppo non databile, concettualmente già iscritto nell’annuario dell’oltre 85% di giovani sotto i 25 anni che vivono in questo luogo, molti dei quali sono pienamente coscienti di poter arrivare a costituire, un giorno, i primi esuli di un nazione affondata nella storia del pianeta Terra. Ed è particolarmente chiara, nella mente di molti di loro, l’associazione ed ingiustizia fondamentale dell’intera questione: poiché se esiste un centro nero responsabile dell’attuale situazione del mutamento climatico, con conseguente aumento del livello degli oceani, Kiribati è forse il luogo più distante da esso che si possa immaginare. Pur costituendo quello che, a conti fatti, risente maggiormente degli effetti maggiormente problematici della questione. Di documentari per approfondire la questione ne sono stati girati parecchi, molti dei quali liberamente disponibili online (si tratta, dopo tutto, di una “causa giusta”) e parecchie parole sono state spese dai più celebri ed insigni portavoce del movimento ambientalista internazionale. Quest’isola, assieme all’arcipelago che gli fa da corollario, ha più volte accolto ad esempio Leonardo di Caprio, accorato portavoce del suo dramma dinnanzi al vasto pubblico disposto a prestargli orecchio. Ma la più cupa e orribile verità dell’intera questione, come eloquentemente esposto a più riprese dall’ex-presidente di questo paese Anote Tong, è che “…Abbiamo sorpassato l’epoca in cui era possibile fare qualcosa. La sparizione di Kiribati, ormai, è certa. Per tentare di ritardare l’inevitabile, la gente può contare unicamente sulle sue forze.” E proprio questo è diventato una realtà del quotidiano al di là di queste spiagge, perché come è noto, la speranza è l’ultima ad annegare. E qualche volta sopravvive addirittura, gorgogliando, a una così difficile prova…

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Dalla grande industria, un processo chimico per dissetare il mondo

Non capita molto spesso che a un qualsiasi utente di YouTube riesca l’impresa d’invitare per un suo video il fondatore di Microsoft in persona, l’uomo un tempo amato-odiato dalla cultura generalista che una volta allontanatosi dal trono del comando, e dal suo monopolio di un’intera industria, prese l’encomiabile decisione di reinvestire l’ingente capitale del suo conto in banca in un’ampia serie di attività filantropiche e di pubblica utilità. Come del resto, non sono molti in questo specifico campo mediatico a produrre un massimo di un video al mese, spesso senza nessun tipo di sponsorizzazione diretta e con il semplice obiettivo di divulgare un concetto scientifico interessante oppure, come in questo caso, dall’importanza significativa per il bene della popolazione globale. Così li ritroviamo entrambi, in questo nuovo segmento, Bill Gates e il giovane ex-ingegnere della NASA Mark Rober, mentre il secondo fa conoscere al primo un vero e proprio intruglio tecnologico, concepito ormai da (almeno) dieci anni eppure mai davvero discusso, dinnanzi al vasto pubblico, dai principali giornali e testate online. Si tratta del Proctor & Gamble Water Purifier, un imprevisto frutto del dipartimento di Ricerca e Sviluppo di una delle multinazionali operative nel campo dei beni di consumo più grandi al mondo, concepito quasi per caso dall’oggi direttore associato Dr. Phil Souter, scienziato assunto con l’obiettivo specifico di sviluppare un metodo per rendere nuovamente potabile l’acqua usata allo scopo di fare il bucato. Soltanto per approdare, al termine del suo complesso tragitto professionale, a un concentrato di princìpi attivi effettivamente capaci di fare questo e al tempo stesso, molto, molto di più.
Il funzionamento della la polvere in questione, oggi liberamente acquistabile online presso molti distributori ufficiali (su tutti, Amazon americana) è facilmente dimostrato nei primi secondi del video online. Ce lo mostra Mark Rober, ancor prima che giunga il suo celebre ospite di giornata, versando in due recipienti un’ingente quantità d’acqua contaminata, dal preoccupante color giallo paglierino. All’interno di uno dei quali aggiunge, quindi, il contenuto di una di queste bustine. Nel giro di quelli che nel time-lapse dimostrativo risultano essere soltanto pochi secondi, quindi, il recipiente trattato recupera rapidamente la sua trasparenza, mentre ogni impurità contenuta all’interno si deposita sul fondo, formando uno strato simile alla sabbia di un acquario. Alla ragionevole, nonché implicita domanda: “Voi la berreste questa roba?” Non si può quindi fare a meno di rispondere l’entusiasmo relativo di un “…Forse?” Finché non si considera l’alternativa per coloro a cui, effettivamente, è indirizzato un simile prodotto dall’effetto strabiliante: tutti quegli abitanti di paesi in via di sviluppo, per cui l’accesso all’acqua potabile risulta essere tutt’altro che una sicurezza, e bere dell’acqua non trattata corrisponde, molto spesso, a morte certa. Ecco dunque che nel punto cardine del video, i due protagonisti si ritrovano davanti a un paio di barattoli, ciascuno pieno del suo contenuto [non] bevibile dall’aria torbida e inquietante. Si aggiunge un pizzico di polvere e a quel punto, sembra quasi che il coraggioso Bill Gates si appresti a berlo…

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Un pesce che cavalca all’incontrario le correnti del mondo

La questione filosofica della forma ed aspetto degli angeli è stata lungamente discussa nella storia del pensiero, dell’arte e della letteratura umana. Poiché se l’Essere Supremo, di cui essi costituiscono gli eterni messaggeri, non può essere completamente compreso dalla mente umana (e ciò è vero per definizione stessa nelle religioni di tipo monoteista) allora cosa mai potremmo dire di coloro che lo avrebbero rappresentato, attraverso pochi eventi chiave della storia, parlando alternativamente coi potenti e deboli dei variegati eventi… Alti, biondi ed eleganti in certi casi, asceti segaligni con il saio, oppure ancora semplici forme di luce, incorporei come il santo Spirito che può guidarne i gesti tra le moltitudini dei viventi. E poi c’è un luogo, sotto la Thailandia, in un singolo sistema di profondissime grotte entro la provincia settentrionale di Mae Hong Son, in cui l’angelo è un qualcosa di assolutamente chiaro e definito. Tanto che alla prototipica domanda del “quanti X potrebbero sedersi sopra la capocchia di uno spillo” una rapida risposta sarà in questo caso “neanche uno…” Se consideriamo la lunghezza di questi esseri rosati misurabile attorno ai 2,8-3 centimetri, ovvero abbastanza da riempire gli spazi interstiziali tra le dita di un incuriosito ricercatore ma NON il palmo della sua mano. In effetti, non credo sia probabile restare indifferenti dinnanzi a una siffatta creatura ondeggiante dotata di quattro “ali candide” che conduce la sua intera esistenza contrastando l’insistenza variabilmente lieve di una corrente.
Cryptotora thamicola: presenta diversi nomi ed aggettivi, tutti corrispondenti ai chiaro punti per cui diverge sensibilmente dal più naturale corso dell’evoluzione. Il pesce angelo della caverna di Pang Mapha, o ceco perché totalmente privo di occhi o ancora il lungamente ricercato anello mancante, tra le specie acquatiche e quegli organismi che per primi scelsero di emergere dal brodo primordiale, usando l’efficiente simmetria di quattro zampe mosse in alternanza sulla sabbia della Preistoria. Quanto sia antico, dunque, un tale essere, risulta assai difficile da ipotizzare, benché le caratteristiche del proprio ambiente risultino inerentemente tali da poterlo preservare, sostanzialmente invariato, attraverso il ciclo ininterrotto d’infiniti Eoni.
Ciò ha specificato, sebbene in altri termini, la ricercatrice del New Jersey Institute of Technology (NJIT) Brooke E. Flammang con il suo team, nella compilazione di uno studio che gli avrebbe permesso, nel 2016, di accedere ad uno dei più rari e preziosi jackpot nel regno della ricerca scientifica: all’incirca un milione di dollari, da reinvestire nell’approfondire l’interesse principale della sua carriera accademica più recente. Poiché è chiaro che non capita davvero molto spesso, di poter stabilire un contatto diretto con le occulte divinità ipogee che inviano i propri rappresentanti ad incontrare gli spiriti di superficie, investigando in questo modo sulla sostanza stessa della nostra biologia corrente.

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