La confraternita dei tre violini semoventi

New York, New York. Non cambia mai. Così adesso, come nella calda, calda estate del 1912, con la gente che si aggira per le strade e il fronte del porto sull’East River, sovrastata dalle insegne variopinte di un migliaio di diverse professioni, tanto chiare se prese singolarmente quanto a pronte a mischiarsi in un costante flusso d’informazioni, che s’intreccia e si disperde tra la sottile nebbia del mattino.  Uno strillone dal cappello messo di traverso, poco più che un ragazzino con un mazzo di giornali sottobraccio, che grida in corrispondenza di un incrocio: “Udite, udite: il Comitato per il Latte Infantile ha istituito un nuovo giro di lezioni alle future madri della città. Udite, udite: continua lo sciopero dei musicanti, presso L’Hudson Theatre della 44° strada, nota con il nome di Broadway” Tutti corrono, a nessuno importa. Sono ben pochi gli estimatori della BUONA musica, tra la gente più comune di New York. Come il piccione che sorvola questa scena, all’improvviso attratto da un bisogno improvviso di trovare un senso alla sua vita. Con un grido, un fischio e una capriola, il grigio uccello vira sopra il fiume, ad inoltrarsi nel grandioso canyon del Manhattanhenge. La luce sfolgorante di finestre incapsulate tra il cemento, il suono fastidioso dei cavalli che nitriscono, portando innanzi i carri sovraccaricati dagli umani. Quando a un tratto, c’è il silenzio per un solo attimo, l’aria che converge in mezzo a un capannello di persone. Con un frullar d’ali, l’uccello posa le sue zampe sopra il busto di un gargoyle, posizionato in cima al portone di un’abitazione privata. “Li conosco tutti quanti, turrr, turr” Sussurra tra se e se. C’è il Wurlitzer supremo, con la sua giganteggiante tuba, l’industriale proveniente dall’Europa che si era fatto strada nell’industria della produzione in serie di pianoforti, manuali e meccanici, diventando in pochi anni uno degli uomini più ricchi, e famosi, degli interi Stati Uniti. C’è anche Ernst Böcker, suo connazionale e fornitore, commerciante dalle molte connessioni e conoscenze. E un seguito notevole di uomini d’affari, melofili, semplici curiosi che passavano di lì. Ci sono poi il primo violino, il clarinettista, il flauto traverso, il trombonista, il timpano, l’addetto al contrabbasso… La New York Orchestra al completo, che tutto pare intenzionata a fare, tranne esprimersi nel loro tipico operare. “Più benefici!” Grida qualcuno: “Vogliamo uno stipendio che tenga conto dell’esperienza di servizio!” Fa eco il suo collega. Con un’alzata di spalle, Böcker fa un cenno ai suoi stimati pari, scambia due parole con la controparte. Un brivido sembra percorrere la folla, e i più degni della congrega fanno il loro ingresso in queste auguste sale della musica in profondo divenire. Fa caldo, pensa il piccione: “Se soltanto potessi mettermi i vestiti, le scarpe ed il cappello.” Perché lui sa bene, cosa sta per accadere. Ma non l’ha mai VISTA. Questa cosa straordinaria, verificatosi già ieri e l’altro ieri: gli scioperanti si guardano attorno, con espressione smarrita. Gli slogan cessano per un solo, importantissimo minuto. Ed è a quel punto, che succede un qualche cosa d’impossibile, impossibilmente atteso! Le note di An der schönen blauen Donau, il riconoscibile Danubio Blu di Strauss, dirompenti dal portone intenzionalmente lasciato socchiuso del teatro, mentre una sola parola pare riecheggiare tra i presenti: “Chi, chi, chi?” (Ha tradito il nostro sciopero) “Chi è stato?” Per due giorni, i meno moderati hanno aspettato fino a tarda sera, per tendere un’imboscata al gruppo dei dannati traditori. Almeno tre violinisti. Ed un pianista. “Ma costoro sbagliano, turr.” Esclamò l’uccello della musica. “La giusta domanda da porsi, sarebbe stata, che cosa?”
Certo, dal punto di vista di molti di loro, la questione deve essergli apparsa come un bel mistero. A quel punto del ‘900, il più avanzato tipo di musica registrata e riproducibile esistente sul mercato  era il fonografo creato direttamente a partire dal progetto originario dello scienziato nazionale Thomas Edison, in grado d’immagazzinare una composizione incidendo dei precisi solchi in un cilindro di cera, per poi riprodurla tramite le vibrazioni del suo ago amplificato. Ma persino il più grande e potente di questi arnesi, dalla sua tuba d’ottone, non avrebbe potuto di certo riempire un salone da ballo col suo suono. Men che mai il più celebre, e grandioso, dei teatri di New York. No di certo. Quel che fece tanto parlare di se, in quei mesi sul finire dell’epoca classica, prima che la guerra spazzasse via tutto per rimpiazzarlo con la nuova epoca del Jazz, era un qualcosa di molto diverso e per certi versi infinitamente più antico. Eppure, cento, mille volte più sofisticato: si trattava della v, Model B, creata nelle grandi fabbriche di Hupfeld, nella città d’oltreoceano di Lipsia, sobborgo Böhlitz-Ehrenberg. Un mobile… Se vogliamo, di legno pregiato. Costruito secondo i crismi dei migliori artigiani mitteleuropei, speciale tuttavia, soprattutto in funzione di quello che c’era dentro. Avete presente lo stile molto di moda del concetto aleatorio di Steampunk? Quella ribellione alle ragioni della storia e della tecnica, che ama mischiare l’estetica dell’Era Vittoriana con strani marchingegni, ingranaggi interconnessi, anticipi meccanici al concetto di computer… Ecco, simili creazioni, in effetti, sono esistite. Nei laboratori di scienziati, nel segreto delle nazioni, lontano dal pubblico e dall’attenzione degli eventi. Tutte, tranne che in un caso. E ce l’avete davanti, signori miei. Si stima che tra il 1908 e la metà degli anni ’20, l’azienda tedesca fondata da Ludwig Hupfeld abbia prodotto almeno 1.000 esemplari, suddivisi in tre modelli, del suo singolo prodotto più costoso, ed almeno visto in proporzione, di maggior successo. Certo, un costosissimo dispositivo meccanico alto due metri, in grado di suonare tre violini contemporaneamente e per buona misura, il pianoforte incorporato, non aveva la stessa facilità di vendita e diffusione della Phonola, un semplice pianoforte meccanico che potremmo accomunare, da ricercatori delle immagini moderne, a quello che si vede nella sigla della serie Westworld. Eppure, in quegli anni memorabili, non c’era un singolo hotel di lusso, ristorante di fama, pista da ballo, persino vaporetto da crociera per signore d’alto bordo, che potesse fare a meno dell’incredibile orchestra automatica proveniente da Oltreoceano, un apparato che iniziò ad essere noto con il nome convenzionale di orchestrion. A questo ci pensò lo stesso Böcker, che in breve tempo, sarebbe diventato il principale importatore a mezzo nave di cotanta meraviglia della tecnica, così tanto tedesca per definizione.

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Perché in Ohio la gente ha paura dei palloncini?

I più terribili disastri possono accadere sull’onda delle migliori intenzioni e per quanto la natura, molto spesso, mostri caratteristiche di spietatezza che la rendono al di fuori della nostra convenzione, è talvolta la stessa morale umana, flessibile sulla base del bisogno, a porre le basi di un ulteriore stadio di tragedia. Distruzione ed apocalittica Rovina. Siete mai stati a Cleveland, con la sua torre simile a un coltello? The Mistake by the Lake, come la chiamano gli stessi residenti (l’Errore sul Lago) ovvero quello di Eyre, volendo essere specifici, il più meridionale ed il meno profondo dei cinque grandi del Nordamerica, attorno ai quali si trova una delle maggiori concentrazioni di popolazione dell’intera area geografica, sia dalla parte statunitense che canadese. Chicago, Detroit, Pittsburgh, Minneapolis, Toronto, Quebec City… Tutte metropoli rinomate nel mondo. Le ragioni per l’impiego di un termine peggiorativo soltanto in quel caso, per chi vuole ricercarle, possono trovarsi nella relativa piccolezza del centro abitato in questione, che non raggiunge neanche le 400.000 anime tra un simile mucchio di giganti, ma soprattutto nel suo essere uno di quei luoghi in cui, almeno secondo lo stereotipo comune, “non succede mai nulla.” Non fu sempre così. Giacché l’imprevisto, come si dice, proviene proprio dall’eccessiva monotonia. Che porta a distrarsi e prendere dannate decisioni. Come quella per cui, nel 1980, il rinomato uomo d’affari locale e proprietario della squadra di basket dell’NBA dei Cavalier, Ted Stepien, ebbe la geniale trovata di salire fin sopra quell’acuminato pugnale di 235 metri, l’edificio più alto dell’intera città, ed iniziare a gettare di sotto una lunga serie degli eponimi attrezzi per giocare a softball. La ragione: commemorare i cinquant’anni dall’inaugurazione della Terminal Tower, e nel contempo promuovere la sua nuova venture sportiva, la fondazione dei giovani ed entusiastici Competitors, dediti alla nobile arte della mazza e delle palline. Ora come forse saprete, nonostante il nome, la tipica sfera usata per questo sport molto simile al baseball non è propriamente morbidissima, risulta più grande dell’alternativa e pesa in media tra i 180 ed i 200 grammi. Il concetto era che il ricevitore del team prendesse al volo la sfera (dopo tutto, i 230 Km/h calcolati al momento dell’impatto non sarebbero stati tanto maggiori di quelli sviluppati da un lanciatore professionista) mentre una fetta significativa degli abitanti in zona e i passanti facevano il tifo, accompagnati dalle telecamere della Tv. Non tutto andò come sperato: la prima palla lanciata dal buon vecchio Ted, certamente animato dalle migliori intenzioni, cadde come una meteora sopra un’auto parcheggiata, frantumandone immediatamente il parabrezza. La seconda colpì alla spalla un cittadino, che per miracolo non riportò alcun tipo d’infortunio grave. Mentre così fortunata non fu la successiva vittima dell’episodio, una donna il cui polso risultò purtroppo fratturato dall’impatto del letterale macigno venuto dal cielo. A questo punto dovete pensare che all’epoca non c’erano i cellulari, e molto probabilmente nessuno si era preoccupato di dotare l’imprenditore di walkie talkie o attrezzi sulla stessa linea funzionale. Così, la grandine letale continuò, con palle che rimbalzavano fino all’altezza di 12 metri, e persone che correvano via da ogni parte, sperando di aver salva la vita.
Ora se pensate che l’amministrazione cittadina, dopo l’atroce esito di un simile stunt pubblicitario, avesse appreso l’infelice lezione, lasciate che vi dica che non fu così. A costituirne la testimonianza, il disastro verificatosi soltanto 6 anni dopo, destinato a rimanere negli annali come uno degli episodi più bizzarri, e sfortunati, dell’intera storia cittadina. Si sarebbe chiamato il Balloonfest. Nacque dall’idea della filiale locale della United Way of America, celebre organizzazione caritatevole, per una raccolta fondi basata su una finalità d’innegabile impatto: stabilire il nuovo record per il maggior numero di palloncini liberati allo stesso tempo. Proposito tutt’altro che semplice, quando si considera il traguardo raggiunto solamente l’anno prima ad Anaheim, per il 30° anniversario di Disneyland ed il 114° compleanno postumo del grande e compianto Walt: 1 milione di ellissoidi in lattice ricolmi d’elio, rossi, blu, gialli, azzurri… Che meraviglia, miei cari americani! Fu dunque chiamato, senza particolari esitazioni, l’organizzatore di quello stesso evento, Treb Heining della Balloonart, che si era occupato nel 1984, assieme al project manager Tom Holowach, della cerimonia di apertura delle Olimpiadi di Los Angeles, durante la quale centinaia di palloncini vennero liberati a formare i cinque cerchi e l’amichevole scritta “Welcome” per gli atleti di tutto il mondo. Ma le proporzioni, e la portata dell’evento che doveva ancora giungere, sarebbero state del tutto nuove…

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Lo Zen e l’arte dei camionisti giapponesi

Per chi siede negli spazi interstiziali del gigante di cemento fuso con la spina dorsale del mondo, sembra incredibile che Tokyo, la megalopoli, possa avere dei confini. Soltanto per qualcuno, i pochi fortunati che posseggono un veicolo a motore omologato secondo le stringenti norme giapponesi, il velo dell’illusione può essere dissolto con un sottovalutato gesto: mettersi all’inizio di una strada, poi percorrerla fino a metà. Per trovarsi ad aspettare, seduti presso un’area di servizio, con la sicurezza che il momento presto avrà realizzazione. Ovvero che la stella luminosa del mattino, il Sole infuocato dell’avvenire, la cometa di Halley in 16 gomme di gomma vulcanizzata, si paleseranno, l’una dopo l’altro, irradiando con la loro luce variopinta il senso ed il significato di un’intera professione. L’ora si fa tarda, si palesa l’ora del tramonto. Oltre la curvatura dell’orizzonte, sulla via che un tempo fu dell’epocale Tokaido, quattro luci azzurre spuntano dalla linea terminale del suolo. Seguite da una striscia di neon variopinti, due sbarre fluorescenti, una cabina di comando. Quindi la più straordinaria mutazione catartica di un parafango, con luci LED che esclamano nell’alfabeto sillabico hiragana: 神風, Kamikaze. Il Vento Divino. Non inteso come un richiamo nostalgico alla triste fine di una guerra dello scorso secolo. Non soltanto quello. Bensì nella visione shintoista d’incarnare il senso ed il significato del viaggio, la raison d’être stessa di un particolare stile di vita, che assume il nome auto-esplicativo di デコトラ- dekotora, da DECO-ration Torakku (la strana pronuncia alla giapponese del termine in lingua inglese Truck, camion). Un termine entrato nel linguaggio comune sopratutto a seguito dell’inclusione in catalogo da parte della Aoshima Bunka Kyozai, compagnia produttrice di macchinine in stile Hot Wheels, che iniziò a proporne dei modelli personalizzabili con adesivi inclusi nella confezione.
Parte prima: Fiori di Ciliegio. L’arte di decorare un veicolo stradale da trasporto ha origine proprio nel Giappone del secondo dopoguerra, quando le prime avvisaglie del boom economico causarono la nascita di un nuovo settore dei trasporti privati, con agenti indipendenti in grado di permettersi l’acquisto, ed il mantenimento, di un veicolo che fosse solamente loro. Secondo le cronache del modernismo, i primi camion con qualche timida luce, dipinti aerografati e slogan ebbero l’origine nel Nord del paese, su influenza della cultura delle gang giovanili dei bōsōzoku – 暴走族, le “tribù della velocità sfrenata” che si ribellavano all’anonimato della civiltà guidata da stringenti norme sociali, con comportamento da teppisti, abbigliamento di stile marcatamente statunitense e modifiche esteriori alle loro motociclette, tanto estreme ed improbabili, che in qualsiasi altro luogo del mondo sarebbero state interpretate come una marcata inclinazione all’autoironia. Ma la leggenda dei dekotora ebbe l’origine, in effetti, da un qualcosa di molto più specifico e precisamente individuabile: una serie di 10 film, realizzati tra il 1975 ed il 1979 dalla mega-compagnia dell’entertainment Toei, dal titolo estremamente semplice: Torakku Yarō (ラック野郎) “I Camionisti”. Si trattava, essenzialmente, di una versione nipponica del cinema americano d’exploitation di quegli anni, con allusioni anche esplicite a sesso e violenza, azione cruda non-stop e una vena comica neppure tanto nascosta, che riuscì a conquistare la passione di coloro che un tale mestiere lo svolgevano realmente. E che ben presto, in determinati circoli, decisero che avrebbero investito parte del guadagno con finalità di rendere, per quanto possibile, le loro case su ruote simili al fulmine fluorescente di Momojiro Hoshi detto Ichibanboshi (la prima stella, con mutazione della sillaba iniziale dal termine hoshi) l’eroe in fuga da una legge ingiusta tramite infinite e sregolate peripezie. C’è del resto un grande fascino per l’inclinazione della mente umana, nel vedere costantemente il risultato del proprio lavoro. E investire sull’acquisto di luci, decorazioni ed improbabili body-kit per la propria motrice, piuttosto che tentare d’incrementarne le prestazioni e l’efficienza dei consumi, la dice molto lunga su quali fossero le priorità di questi uomini, determinati a lasciare un’impronta chiara ed indelebile nella memoria dei connazionali su strada. Quello fu l’inizio, e la nascita di uno stile che ancora viene definito dei dekotora classici, non molto più avanzati, sostanzialmente, di alcune meraviglie che tutt’ora si possono incontrare sulle strade statunitensi, napoletane o pakistane. Ma con l’inizio della decade immediatamente successiva, il Giappone stava andando incontro ad una mutazione sostanziale dei princìpi estetici considerati sufficientemente “eccessivi”. E mentre le prime ragazze iniziavano a percorrere le strade dei quartieri di Harajuku e Shibuya con le più folli mutazioni variopinte di quello che potesse definirsi un abito, i trasportatori tra una lunga missione e l’altra si sdraiavano sul divano di casa, per assistere all’ennesimo episodio di una nuova ed importante Fad generazionale. Tobe! GANDAMU, si udiva pronunciare gli altoparlanti della TV, durante la sigla dalla voce stentorea ed impostata – “Vola! Gundam…” Era la nascita di una nuova forma d’intrattenimento che avrebbe avuto a conti fatti, un’inaspettato ma profondo effetto sullo stile dei camion dekotora.

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Che animale fu la leggendaria bestia di Gévaudan?

Che cos’è per noi, oggi, la Natura… Camminate in un parco, aprite un libro sull’argomento, guardate fuori dalla finestra del soggiorno (se siete fortunati) e potreste ritrovarvi a scrutare dinnanzi questa forza ormai latente, debole e arrendevole, incapsulata nel suo ruolo dall’inarrestabile espansione degli umani con le loro cose, case, strade, piste d’atterraggio per i cacofonici aeroplani. È inutile dire, che non fu sempre così. L’epoca preistorica, seguita da quella classica con le sue antiche civiltà, viveva ancora in uno stato di costante nonché giustificato terrore verso tutto ciò che aveva due, quattro oppure sei zampe, in grado di costituire un pericolo per chiunque fosse incauto e impreparato. Ma sapete cosa vi dico? In assenza dei commerci internazionali e degli strumenti di comunicazione moderni, simili episodi rimanevano dei drammi meramente familiari o toccati ad una singola comunità, da accettare come la morte per malattia o lo ius primae noctis di un distante, malevolo signore. Mentre con il progressivo prendere piede dei Lumi e della Ragione, sempre meno le belve feroci apparivano col ruolo di creature sovrannaturali. E sempre più si era disposti, seppure in grado, di trovare una spiegazione logica per ogni eccidio commesso con i denti, l’affilato becco o gli acuminati artigli. In bilico tra l’uno e l’altro stato di quiete ci fu un singolo momento nella nostra familiare Europa, un attimo di panico nel mezzo della storia di Francia, in cui qualcuno, o qualcosa, sfuggì al ruolo di semplice cacciatore o preda, per entrare nelle cronache come uno dei primi criptidi, mostri spesso spietati e in grado di sollevare innumerevoli interrogativi sulla posizione dell’uomo nella più lunga e ininterrotta delle catene. Quella, per l’appunto, alimentare. L’anno era il 1764. Il luogo, l’ex-provincia di Gévaudan, sita tra le montagne Margeride in corrispondenza delle attuali Lozère ed Alta Loira.
Sappiamo più o meno tutto della Bestia, grazie ai molti scritti prodotti dai visitatori della regione in un’epoca in cui il nuovo metodo formale scientifico si stava diffondendo tra gli studiosi e già esisteva, in Francia, il sistema del processo verbale (oggi semplicemente, verbale) in cui un testimone oculare di un delitto o incidente veniva interrogato, mentre l’individuo preposto annotava parola per parola la sua deposizione. Un’altra importante ed esauriente fonte furono le descrizioni del vescovo coévo di Mende, Gabriel Florient, nel suo libro Il Flagello di Dio, in cui si preoccupò anche di attribuire alla creatura poteri sovrannaturali ed il ruolo di un punitore verso la sempre più diffusa abitudine a peccare e rinnegare gli insegnamenti della Santa Madre Chiesa. Ma se pure la Bestia era questo, essa rappresentava anche un pericolo materialmente reale, in grado di gettare nello sconforto e fare strage di un’intera classe contadina e rurale, fino ad allora dimostratasi perfettamente in grado di scacciare via interi branchi di lupi, l’orso occasionale ed ogni altro pericolo che potesse nascondersi nelle foreste dell’ormai sempre più Vecchio continente. Tutto ebbe inizio l’estate di quell’anno, quando una giovane fanciulla di un villaggio vicino Laugogne, come era l’usanza di tali luoghi, si era inoltrata da sola nei pressi della foresta di Mercoire, con un intero branco di bovini da far pascolare. Si narra che ad un certo punto del pomeriggio, dalle tenebre tra gli alberi, fosse sbucata questa creatura simile ad un lupo ma molto più grande, e che l’avesse caricata con l’evidente intento di divorarla. E che per sua fortuna i tori del gruppo, spinti dall’istinto di proteggere le loro compagne, riuscirono a scacciarla grazie all’impressionante potenza delle loro corna. Altre fanciulle, in altri luoghi, non furono così fortunate e la prima vittima non tardò ad arrivare: il suo nome era Janne Boulet, ed aveva soltanto 14 anni. C’è un momento, un singolo terribile attimo, nella vita di alcune belve feroci, in cui esse scoprono il gusto della carne umana, e comprendono quanto sia più facile divorare uno di noi piuttosto che loro prede abituali, quali cervi, gazzelle et similia. In molte cultura, viene considerato il punto di non ritorno, oltre il quale l’unica scelta è rassegnarsi ad essere vittime a vita, oppure armarsi e reagire. Verso la fine del 1764, di uccisioni confermate se ne verificarono svariate decine, tanto che alcuni iniziarono a giurare che dovessero esistere più di una singola bestia, che tuttavia, giammai avrebbe potuto essere un semplice lupo. Le ragioni erano svariate, a partire dalle dimensioni: i superstiti concordavano sempre nel descrivere una creatura grande come un vitello, agile come un gatto e mostruosamente veloce, che attaccava senza troppi problemi anche gruppi di persone adulte ed armate, laddove il tipico canide ululante ha sempre preferito tentare la sua fortuna con i bambini e le donne sole. Molte delle vittime della Bestia avevano inoltre un aspetto atroce, con la carne letteralmente staccata via dal cranio, e le orbite vuote del teschio spalancate in un eterno sguardo vacuo di terribile sofferenza. Presto fu chiaro che se ne nessuno avesse fatto qualcosa, il mostro avrebbe divorato, con la sua fame, l’intero regno di Francia. Intervenne, dunque, il suo sovrano.

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