Imboscata tra i pochi cespugli della zona arida della Somalia, una creatura pelosa della lunghezza approssimativa di appena 20 cm aspetta nervosamente il ritorno dei propri genitori. Completamente immobile, non emette un suono. Nulla che possa, insomma, essere captato da un leone, iena, caracalla, cane selvatico, sciacallo, babbuino, aquila, pitone o varano. Quando sei il cucciolo del panino ambulante per eccellenza, uno spuntino su zampe affusolate non ancora in grado di correre in maniera sufficientemente veloce, la tua unica speranza è mantenere impercettibile la tua esistenza, credere per primo all’inerente soggettività delle percezioni sensoriali, facendo il possibile per rallentare, addirittura, il respiro. Eppure persino in questa maniera, la sua probabilità di sopravvivere le circa 2-3 settimane necessarie fino all’acquisizione di una ragionevole indipendenza non sarà superiore al 50%, per non parlare dell’aiuto della sorte necessario per poter raggiungere l’età adulta. Condizioni straordinariamente severe, queste, valide a implementare un rapido e specialistico processo d’evoluzione. Forse è per questo che le quattro specie appartenenti al genus Madoqua, collettivamente note alle genti d’Africa come antilopi dik-dik (onomatopea riferita al loro caratteristico richiamo d’allarme) costituiscono oggi un fenomenale concentrato di meccanismi utili alla sopravvivenza, soprattutto in regioni dove le precipitazioni annue superano raramente i 25 cm complessivi e l’acqua da bere, prima ancora di scarseggiare, è letteralmente piena di coccodrilli, ippopotami ferocemente territoriali nonché sorvegliata dal vasto ventaglio di bestie fameliche che non aspettano altro, che poter tendere un agguato agli erbivori comprensibilmente assetati. E sia chiaro che talvolta devono aspettare davvero molto a lungo.
Basta spostarci avanti di 5 o 6 mesi, dunque, per poter osservare il seguito di questa storia. Il piccolo è ormai un giovane adulto, mentre la madre sta andando incontro alla serie di processi biologici che danno inizio a una nuova stagione riproduttiva. È il segnale atteso per mettere in atto un preciso rituale della loro specie: con improvviso sprezzo degli istinti familiari, i genitori si dividono, mentre uno di loro inizia a inseguire rabbiosamente l’erede. Se si tratta di un maschio sarà il padre a farlo, diversamente, questo ingrato compito ricadrà sulla madre, entrambi poco più grandi della dimensione raggiunta ormai da quest’ultimo: 45 cm di lunghezza nelle specie più piccole, circa 60 in quelle maggiori. Il quasi-cucciolo viene spinto fino ai limiti della zona che ha fino ad oggi chiamato “casa” e poi oltre, con il messaggio implicito che non dovrà ritornare mai più. Nel nucleo familiare delle antilopi dik-dik c’è spazio per un solo figlio alla volta. Il precedente, ormai abbastanza cresciuto per pensare a se stesso, sarà preventivamente considerato un intruso. Ma chi se lo dovesse immaginare, almeno momentaneamente, spaesato ed ansioso, mentre tenta faticosamente di mantenere acceso l’ultimo barlume di speranza, sarebbe ampiamente in errore. Poiché tutto, nel Madoqua, è concepito per farlo vivere in quasi costante ed allegra solitudine: raggiunto uno spazio sufficientemente ampio e solitario, il saltellante animaletto con la cresta erettile inizierà quindi a marcare i confini del territorio: e saranno guai, per chiunque (beh, quasi) dovesse attraversare i luoghi marcati con le sue feci, le urine o le particolari secrezioni delle ghiandole sub-orbitali, comuni a molti ungulati selvatici, strani e cupi ornamenti disposti al di sotto dei suoi grandi occhi neri. Al completo risveglio dei suoi atavici istinti, il dik-dik inizierà quindi a correre da una pianta all’altra, facendo affidamento sul suo muso orientabile per insinuare la lunga lingua tra spine, rovi e altri ostacoli poco accoglienti. Soltanto le foglie più verdi, e le radici più turgide, saranno componenti primari della sua dieta, garantendo l’acquisizione costante di un’appropriata quantità di fluidi, tale da poter fare a meno, per l’appunto, di bere. Le particolari dinamiche del suo particolare stile di vita, d’altra parte, non finiscono certamente qui…
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L’uccello ramingo dalle ali di cera
Non ci credo. Non è possibile. Gli uccelli, nelle loro migrazioni, seguono un copione estremamente preciso e ripetitivo. Molte sono le conferme di un tale comportamento, intere famiglie e gruppi di specie molto diverse tra loro che attraverso una bussola e un calendario biologico, seguono itinerari straordinariamente precisi attraverso i confini del globo, incontrando regolarmente le stesse bolle climatiche, ecologiche e situazionali. Eppure ieri l’alto albero di ginepro del mio giardino appena fuori Milano, da un giorno all’altro, si è ritrovato del tutto spoglio delle splendenti bacche, con cui volevo preparare una gustosa marmellata color cobalto. Andando quindi ad interrogare il vicino, quello mi ha detto: “Si, si, robba de ciod! Non l’hai visto? Probabilmente eri al lavoro. C’è stata una calata d’uccelli invasori: grossi passeri marroni con maschera da ladro e la pancia grigiastra, la coda arancione, la lunga cresta aerodinamica, la punta delle ali di un rosso intenso. Non avevo mai visto nulla di simile in vita mia… Dolsa l’uga, eh?” Voglio dire: come no! Un uccello lungo all’incirca una quindicina di centimetri, noto per l’apprezzamento dei lombrichi e gli insetti di terra, qualche manciata di semi e un bocciolo o due, che spoglia completamente un albero di 25 metri di altezza… Credi che sia nato ieri o abbia preso una dose del medicinale che altera le percezioni noto in america come crazy pills, Fam? È stato allora più o meno, che ho deciso di confermare o smentire la strana storia mettendo una telecamera sul davanzale della finestra. Fregato una volta, la colpa e tua. Fregato due…
E non è facile, invero è in effetti persino difficile, che nel Nord Italia si conosca l’aspetto di questi uccelli stranieri tipici della zona olartica, che durante le loro migrazioni compaiono e scompaiono a piacimento in diverse zone d’Europa, inclusa la parte settentrionale d’Italia. Linneo aveva coniato per loro il nome di Bombycilla garrulus, dall’unione di Bombyx (il baco da seta) per via delle macchie rosse simile al materiale fuso usato come tipico sigillo delle missive di epoca pre-moderna con il termine latino per “ciarliero” o “rumoroso”, ma per i non scienziati furono fin da subito waxwing (ali-di-cera) o in alternativa, beccofrusoni di Bohemia: forse perché si riteneva, erroneamente, che provenissero da quel paese, o ancor più probabilmente a causa di un’associazione col popolo dei girovaghi, la cui patria era il luogo in cui piantavano le proprie tende fino alla prossima luna nuova. In Olanda in particolare, l’associazione fu di tipo decisamente più nefasto, attribuendogli il nome di Pestvogel (uccello della peste) in quanto si riteneva che la sua venuta preannunciasse l’imminente manifestarsi di una drammatica epidemia. Mere superstizioni, ovviamente, benché sia necessario ammettere che il ritorno di simili volatori potesse risultare un’esperienza strana, inaspettata e visivamente stupefacente. I beccofrusoni non sono particolarmente comuni da nessuna parte in cui se ne verifichi l’occorrenza, fatta forse eccezione per alcune regioni del Canada (sp. B. cedrorum) e l’estremo Nord-Est dell’Asia (sp. B. japonica) mentre la variante associata comunemente col territorio europeo, che trova diffusione anche negli areali dei propri più prossimi parente, è nota per scomparire e ricomparire improvvisamente, spesso con l’arrivo di letterali stormi da molte centinaia di esemplari, che si diffondono a macchia d’olio tra boschi, foreste o dovunque gli capiti di trovare il loro cibo preferito.
Ora, è naturalmente difficile trovare una specie di uccelli che possa effettivamente definirsi “vegetariana” laddove si scopre in genere, prima o poi, che essa è solita integrare la propria dieta con un artropode o due, ogni qualvolta se ne presenti l’opportunità. Ed in effetti, anche nel presente caso è così. Ma non c’è probabilmente alcun essere dei cieli che ami le bacche, o la frutta più di costoro…
Bielorussia: il ponte ricoperto da uno strato di libellule notturne
23 luglio 2018: era una serata tiepida a Vitebsk, ridente cittadina prossima al confine settentrionale con il paese più vasto del mondo. Con temperature attorno ai 18-20 gradi di media, piuttosto normali anche nel pieno dell’estate, per un luogo che ha toccato i -35 in più di un caso della sua storia meteorologica pregressa. E tutto sembrava normale se non che dalle finestre degli appartamenti, in quello che è stato definito su Twitter “un letterale film dell’orrore” non fu possibile osservare il congregarsi di un’inquietante nube all’orizzonte. Localizzata sopra il solo corso d’acqua del centro abitato, e capace di formare vortici sempre più densi, puntati come una freccia verso il principale attraversamento stradale del Vitba, il ponte Kirov. In breve tempo, i lampioni smisero di funzionare, mentre carreggiata, parapetti e addirittura piloni sembrarono sparire in dissolvenza, come trasportati dalle nebbie di Avalon in un universo parallelo. Voci antiche riecheggiavano nell’aria stranamente densa e ronzante…
“Il fiume Bug a settentrione del Mar Nero porta nella sua corrente a mezza estate delle piccole membrane, simili a bacche, dalle quali fuoriescono dei bruchi a quattro zampe, dotati anche di un paio d’ali. Queste creature non vivono più di un giorno, ragione per cui vengono chiamate hemerobius.” Nelle parole dello storico Plinio il Vecchio, vissuto nel primo secolo dopo Cristo, riecheggia una profezia del mondo naturale che tutt’ora, con cadenza grossomodo regolare di uno o più anni, condiziona l’esperienza di quei popoli e la loro relazione con i mesi di luglio e agosto. È un episodio che tutti, in tali luoghi particolarmente fortunati, sperimentano almeno una volta nella vita. Non è quasi mai pericoloso, tranne forse nelle prime ore, se nell’area interessata trova collocazione una strada dal traffico medio-intenso, lungo cui gli automobilisti non tenteranno di accendere i fari, ritrovandoli coperti da nugoli di queste bestie, come d’altra parte, pure il parabrezza e gli specchietti retrovisori. Stessa cosa per i pedoni, che la stessa cosa tenderanno a sperimentarla tra i capelli, con le orecchie, il naso e gli occhi. Ma non in maniera, per così dire, irreversibile, visto che sarà possibile rimuoverle ben prima di morire soffocati. Le effimere, tipiche dell’Est Europa, sono insetti che non possono fare nulla all’uomo, come già sapevano gli antichi. I quali tuttavia, nell’assenza di un metodo scientifico adottato su larga scala, non avevano mai pensato di analizzarne il ciclo vitale, scoprendo come l’apparente durata molto breve della loro vita fosse in realtà pertinente soltanto all’ultimo stadio delle numerose mutazioni a cui devono andare incontro, quello dell’imago (o a seconda della specie, sub-imago). Mentre le creature, prima di spiccare il volo, erano solite abitare i corsi d’acqua o laghi per svariati mesi, o persino anni, nutrendosi a seconda dei casi di detriti o insetti più piccoli di loro. Pensate alla dicotomia del bruco e la farfalla. Ma espressa in una maniera più basica e per certi versi, primordiale.
Nessun sito di notizie appartenente all’area interessata, quest’anno, sembra aver avanzato ipotesi su quale sia la specie effettivamente coinvolta. È possibile, tuttavia, che si tratti di Palingenia longicauda, le più grandi effimere del Vecchio Continente, misuranti fino a 12 cm dalla testa con le antenne fino alla punta della lunga coda biforcuta, segno di riconoscimento della loro intera famiglia di artropodi volanti. Stiamo dunque parlando di una creatura certamente invasiva, e che non comprende il concetto di spazio vitale (come avrebbe mai potuto?) ma che può essere facilmente interpretata come un segno positivo, per l’assenza d’inquinamento delle acque e il fatto stesso che stia di nuovo proliferando, nonostante la scomparsa in molti dei paesi che una volta appartenevano al suo areale. Certo è difficile spiegare tale aspetto a chi deve sigillare le finestre e tapparsi in casa, in tutta fretta, prima di essere coperto totalmente da una schiera di entusiastici invasori. Ciascuno in cerca di nient’altro, in quel momento, che di una femmina con cui accoppiarsi. Ecco qui spiegata, dunque, la ragione di questo caotico trionfo: siamo dinnanzi a un’orgia. Uno tsunami di libellule in cerca di sesso…
Quanti semi contengono gli hot dog di palude?
Danger, achtung, 危ない, rischio di esplosione! Non toccate ciò che non vi appartiene, specialmente se ha un’origine di tipo naturale, costituendo una parte inscindibile del grande fiume delle cose indipendenti. O in alternativa, l’ornamento vegetale di paludi sottintese, agglomerati di casistiche del tutto inusitate. Chi avvicina la sua mano… Sarà presto inseminato. Ricoperto, in modo totalmente letterale, della spuma bianca dello spazio-tempo. 100.000 piante già complete in ogni loro parte, dallo stelo semi-rigido alle foglie con la forma di una lama. Nonché il cruccio, ovvero il nesso, di quest’infiorescenza tubiforme di un color netto marrone, il cui peso appare molto superiore alla realtà. Certo, non è un vegetale come gli altri, ciò di cui stiamo parlando. Bensì la tifa o stiancia, mazzasorda, coda-di-gatto (cattail) salsiccia di palude, erba-della-culla, pannocchia del cosacco o cumbungi, un susseguirsi internazionale di metafore che alludono, di volta in volta, all’aspetto o la funzione di una tale pianta, tanto vicina alle esigenze degli umani da un periodo di almeno 30.000 anni (come da ritrovamenti archeologici di tale Era). Da dunque molto da pensare, e lascia un po’ stupiti, che una maggioranza di persone, benché vivano in prossimità di un luogo dove crescono selvaggi questi giunchi, non conoscano il segreto che si trova al loro interno. O forse sarebbe più preciso dire, la materia stessa di cui sono costituiti, la lanugine biancastra la cui confronto, addirittura il dente di leone sembra un copripenna anallergico.
Il fatto è che, in effetti, soffiare sulla tifa produce risultati largamente deludenti. Poiché essa è ben più solida del succitato pappìo, richiedendo quindi sollecitazioni d’altro tipo, o l’energia del vento stesso, per diffondere il suo carico di vita potenziale, duplicandosi per tutta l’area circostante. Ma il migliore ausilio alla propagazione resta, a dire il vero, l’intervento più o meno informato di creature assai determinate, che facendo il gioco della pianta la distruggono, garantendogli in questa maniera l’immortalità. Internet è piena di simili storie: l’esperienza di ex-bambini americani, ormai membri produttivi della civilizzazione memetica digitale, che scoprirono accidentalmente le surreali proprietà del salsicciotto da cui fuoriesce una punta smussata (in realtà il fiore maschile). Stringendolo tra le manine, per generare l’assoluto Caos. Credete che io stia esagerando? Ma il raceme femmina del cattail è un vero capolavoro del processo biologico evolutivo, compresso come un mobile dentro i cartoni dell’Ikea. Al punto che una volta aperto, o disfatto che dir si voglia, esso pare espandersi in maniera esponenziale. Quasi che al suo interno si nasconda un’apertura interdimensionale verso il piano d’esistenza della purissima allergia. E di certo, più di un genitore deve aver sbraitato all’indirizzo di coloro che, per gioco, ne hanno colto una dozzina o più e commettendo il gesto sopra descritto dentro al giardino di casa propria, ponendo le basi per vederne presto crescere milioni. A discapito delle rose rare di mamma e papà.
Mentre un tempo, molto prima dell’inizio dell’epoca industriale, il salsicciotto di palude aveva costituito una pianta estremamente desiderabile, vista la maniera in cui sembrava migliorare la vita di chicchessia. In primo luogo facente funzione di cibo, per tutti coloro (cosacchi in primis) che erano soliti sradicarla da terra, onde accedere al rizoma semi-sepolto, quella parte dello stelo da cui partono le radici e che una volta sottoposto al peso della macina, dava origine a una farina con 266 calorie per 100 grammi. E poi, per la leggendaria flessuosità ed il grado di resistenza delle sue lunghe foglie a punta, materia prima d’infiniti manufatti umani…