L’autobus che passa sopra il traffico cinese: follia o colpo di genio?

China TEB

Non c’è niente di meglio, in città dall’alto numero di abitanti, il traffico caotico e il tasso estremo d’inquinamento, che attivarsi nel potenziamento del trasporto pubblico. Aggiungere linee della metro, fermate per il tram, acquistare nuovi autobus e metterli in circolazione: tutti approcci risolutivi che permettono agli abitanti di fare a meno dell’auto, di tanto in tanto o addirittura tutti i giorni, evitando conseguentemente di contribuire ad alcuni dei più grandi problemi dell’odierna società. Eppure, a ben pensarci, tutte le soluzioni usate fino ad ora hanno le loro problematiche di fondo: i treni costano parecchio, senza contare la spesa titanica, e i disagi, implicati dalla costruzione di un esteso tunnel sotterraneo nel bel mezzo di una metropoli con svariati milioni di abitanti. Mentre i mezzi pubblici stradali, dal canto loro, tendono ad agire come grandi barriere mobili, che imperniandosi nel mezzo della congestione comportano ulteriori problematiche di rallentamento. Così è una pura e semplice verità, apprezzabile dal nostro Occidente fino ai più remoti agglomerati d’Asia, che il sovraffollamento delle strade non può essere sempre curato, e che in determinati casi, tentare di farlo può portare a conseguenze ancor peggiori. Un’idea senz’altro alla base della scelta compiuta dall’autorità nazionale dei trasporti della Cina, che in questi ultimi tempi ha pensato di fare il possibile per rendere reale il progetto teorizzato per la prima volta nel 2010, ad opera di Youzhou Song della Shenzhen Hashi Future Parking Equipment Company, che ne offrì un rendering e i piani di massima durante il 13° Expo Tecnologico di Pechino. Materiali che in tempo estremamente breve, finendo per fare il giro del mondo grazie ad Internet, finirono per colpire la fantasia di molti, soprattutto in forza della naturale capacità che i veicoli insoliti hanno nell’affascinare il pubblico generalista. Tutti eravamo tuttavia disposti fin da subito ad accantonar la cosa, come l’ennesima trovata imprenditoriale dell’epoca del Web 3.0, creata a tavolino unicamente per far parlare di se. Mentre invece, lo scorso maggio, la sorpresa: durante la nuova edizione della fiera succitata, la Shenzen Hashi monta presso il suo stand un plastico del tutto funzionante della sua proposta, annunciando nel contempo che nel giro di pochi mesi, un prototipo a tutti gli effetti completo del mezzo stato impiegato presso la città di Qinhuangdao, un agglomerato di quasi tre milioni di persone sito a 300 Km da Pechino. Ed alla fine, eccoci qui.
È una visione alquanto impressionante, quella che sta negli ultimi due giorni girando tra le principali testate giornalistiche, i blog tecnologici ed i social autogestiti: con il colosso di un grazioso azzurro cielo (ma come, non lo sai che il nero sfina?!) che inizia la sua lenta marcia in corrispondenza dell’apposita pensilina sopraelevata, transitando facilmente sopra alcune auto parcheggiate lì per “puro” caso. La fantascienza che si realizza nei fatti… La ponderosa, immane presenza che sovrasta due intere corsie di strada di scorrimento. La cabina alta 4,5 metri, sita a circa due da terra, concepita per permettere ai più coraggiosi di guidare sotto il “bus” e proseguire per la propria strada, persino nel caso limite in cui questo si trovi alla sua fermata, e sia totalmente immobile in attesa di ricaricare le batterie. Va comunque detto che la sua definizione ufficiale di categoria, mirata ad accomunarlo ai più comuni trasportatori di persone sulle familiari quattro ruote gommate, può facilmente trarre in inganno, e costituisce probabilmente un aspetto rimasto dalle prime concezioni teoriche del mezzo in questione. Perché ad oggi, sostanzialmente, la versione fisicamente realizzata del TES (Transit Elevated Bus) prevede l’impiego di una coppia di rotaie poste ai lati della strada, probabilmente anche con la finalità di offrire agli automobilisti un chiaro indizio su dove si troveranno a transitare i due montanti laterali del corpus veicolare, offrendo un chiaro monito a chiunque avesse la tendenza a ritrovarsi a far da muro al torpedone da 21 metri di lunghezza per 7,6 di larghezza (tali la misure del prototipo di Qinhuangdao). E questo non è ancora nulla, a quanto pare: perché nella versione finale del TES saranno previste almeno tre di queste cabine, collegate l’una all’altra come una sorta di treno stradale, ciascuna delle quali in grado di trasportare all’incirca 300 persone. Apparirà chiara, a questo punto, l’importanza teorica che un simile approccio potrebbe avere nel ridurre i radicali liberi del grande organismo metropolitano. Nonché l’effettiva tipologia di mezzo a cui esso appartiene: perché di nient’altro si tratta, a tutti gli effetti, che di un’evoluzione del concetto di tram.

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I pozzi petroliferi nascosti tra le palme ed i palazzi di Los Angeles

LA Oil Wells

Lenta e inesorabile, la quattordicimilioni-settecento-quarantunesima del secolo raggiunge il velo denso della superficie, affiora, emerge e poi scompare, disgregata per la cessazione della sua coesione chimica di base. Il messaggero tondeggiante del profondo. L’emisfero già scoppiato tra le foglie morte, per tanti stolidi miliardi d’anni. Silenziosamente, l’osservano modelli in scala 1:1 delle bestie che qui furono sepolte, da risvolti sfortunati dell’altrui destino. Stiamo parlando, per essere chiari di ciò che è, o per meglio dire era, una bolla nel catrame nero fumo, vista tutt’altro che rara qui, vicino ad Hancock Park, nel paese dei sogni e dei balocchi dove ogni volo d’immaginazione pare prendere una forma fisica e immanente. Eppure quella stessa Hollywood, quartiere rinomato e grande fabbrica di mondi, non è che una scheggia transitoria, un refolo di vento, innanzi ai pozzi bituminosi di La Brea, chiare indicazioni di un trascorso d’epoche selvagge, tigri sciabolanti, lupi enormi, bradipi di terra e poi chiaramente lui, il mammut. Lanuginoso testimone di quello che è stato, per sempre incapsulato nella colla naturale dell’asfalto ante-litteram, già usato al tempo delle prime colonizzazioni dalle genti dei Chumash e dei Tongva per dare impermeabilità alle antiche canoe. Mentre a partire dal secolo del ‘900, nell’epoca della possente precisione dell’industria, ci sarebbe parso assurdo far ricorso ad un sistema tanto “naturale” specie quando esistono la plastica, i polimeri, la forza astrusa dell’ingegneria moderna… Ed è per questo che l’universo semi-sommerso di La Brea, oggi dopo tutto, è stato declassato al ragno di semplice curiosità, mentre tutti i suoi migliori fossili, da tempo fatti emergere, sono custoditi nel vicino Museo di Storia Naturale a Wilshire Boulevard, edificio con vista giardino. Ottimo. Così, la gente non ci pensa troppo spesso. A ciò che giace sotto 50, 100 metri di terra compatta, ben oltre le fondamenta dei grattacieli e i tunnel della metropolitana. A cosa macera, dal tempo di Matusalemme, generando i liquidi ed il gas maleodorante che permette al mondo di girare. Chi se lo sarebbe mai aspettato? Finché, Eureka! Gridò qualcuno di nome Edward Laurence Doheny, che nel 1890, preso in affitto un lotto di terra per il prezzo modico di 400 dollari del 1892, non si mise a scavare con pale, picconi e un trapano a carrucola basato su di un tronco di eucalipto acuminato, fino alla profondità di 69 metri. Dove trovò… Un suo personale pozzo di La Brea, senza particolari fossili del mondo. Ma un mare intero di asfalto bituminoso, dal quale, tramite un processo chimico piuttosto semplice, è possibile creare il PETROLIO. Quaranta barili al giorno nel suo caso, per dire.
Un numero decisamente interessante, per chiunque avesse soldi da investire nella fiorente nascita di quella che già stava profilandosi, a tutti gli effetti, come un primo accenno di fiorente industria delle risorse. Il pozzo di Doheny, che costituiva il primo successo dopo tre intere decadi di tentativi, continuò a produrre per tre anni, durante i quali lui e il suo socio Charles A. Canfield, contemporaneamente ad altri imprenditori, praticarono perforazioni in circa 300 altri luoghi della città. All’epoca, naturalmente, non esistevano grosse fisime sulle sicurezza o norme particolarmente stringenti, così ogni luogo andava essenzialmente bene: dietro le case, nei cortili delle scuole, tra gli alberi dei parchi cittadini… Tutti volevano una fetta della nuova torta d’oro nero, e pressoché chiunque, dinanzi alla prospettiva di un facile guadagno, era pronto a sanzionare la presenza di un ingombrante, rumoroso pozzo d’estrazione a pochi metri dalla porta di casa sua.  Si era scoperto che l’intera città di Los Angeles sorgeva sul terzo mare sommerso di petrolio più grande degli Stati Uniti e il genio dell’avidità era ormai uscito dalla tanica della benzina. Nessuno aveva le risorse per ricatturarlo! Grazie alla celebre propensione imprenditoriale del popolo statunitense, in breve tempo vennero formate circa 200 compagne petrolifere in competizione tra di loro, che giunsero, all’epoca d’oro di questo “trionfo” a gestire un gran totale di 1.250 trivelle attive nello stesso tempo. Le spaziose e famosissime spiagge della città, tra cui l’iconica Long Beach, furono costellate dalle caratteristiche pompe derricks basculanti, che l’immaginario collettivo associa ai recessi più assolati e solitari del remoto Texas, o altri luoghi egualmente prossimi all’ambiente del deserto. Attorno al 1920, la sola città di Los Angeles rispondeva al 25% del fabbisogno MONDIALE di petrolio. Quindi, con l’esaurirsi dei giacimenti più facilmente raggiungibili, le cose iniziarono a cambiare…E i pozzi, ad aumentare!

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L’alveare umano alle porte di Hong Kong

Kowloon Walled City

L’essere umano: creatura sociale il cui pari, assai probabilmente, il mondo degli organismi complessi non aveva mai conosciuto. Perché i polipi del corallo, i sifonofori degli abissi che formano colonie simili a meduse, o le formiche ed api in superficie, possono aggregarsi tra di loro grazie ad una predisposizione genetica innata, ma non potrebbero mai sopravvivere in solitudine. Mentre noi bipedi dall’andatura dinoccolata, abbiamo la capacità di operare scelte in merito nelle nostre alterne vite, tali da permetterci, altrettanto facilmente, di essere come l’albero solitario del deserto del Teneré, oppure un elemento fra i tanti dell’eterno bosco di querce, distrutto e ricreato sul trascorrere dei secoli distanti. Quante persone è possibile stipare in un chilometro quadrato, senza che queste siano destinate ad prossimo un futuro di follia? 25.000 come a Delhi, la capitale del prolifico sub-continente indiano? Circa 26.000 come l’isola di Manhattan, dove l’articolata verticalizzazione ha sostituito spazi che lì non ci sono, non ci saranno mai? O addirittura 44.000, la cifra raggiunta da Manila nella Filippine, null’altro che la singola concentrazione di persone più densa del pianeta? Un caso limite, di quello che comunque già era e resta il singolo paese maggiormente sovrappopolato nel complesso situazionale convenzionalmente citato. Ma non c’è limite al peggio, così di sicuro, la parola chiave diventa “dignitosamente”. Giacché non è difficile immaginare un distante futuro, in cui la costruzione di svettanti arcologie possa permettere l’attigua coesistenza di dozzine di migliaia di piccoli appartamenti dotati di ogni comfort, eppur stipati l’uno sopra l’altro come scatole di sigarette in un container dei contrabbandieri. Talle situazione, tuttavia, non ha luogo ad essere nel nostro attuale quotidiano. Né tanto meno, in quello degli anni ’70 e ’80, periodo in cui si trovò l’apice nell’Estremo Oriente un particolare insediamento, detto la città murata di Kowloon, in cui fu raggiunta l’apparentemente assurda cifra di 1.255.000 anime per Km², con una popolazione totale di 33.000: in parole povere, qui viveva molto più di una persona al metro quadro. L’uno sull’altro, all’interno di circa 300 palazzi alti fino a 10-13 piani e non più di così, a causa dell’estrema vicinanza dell’aeroporto di Kai Tak, svincolo fondamentale per la città di Hong Kong. L’unità domestica di una famiglia tipo si aggirava attorno ai 23 m², talvolta ricavati da piattaforme sospese nel vuoto, balconate ricoperte o vere e proprie piccionaie, rivettate alla meglio nelle pareti cementizie degli edifici e pericolosamente dondolanti nel vento. Le strutture massicce di un simile luogo poi, giungevano a formare, incredibilmente, un’unica massa con fessure di pochi metri appena fra un gigante e l’altro, dalle quali erano state ricavate alcune delle strade più buie al mondo. Era sempre notte, al piano terra di Kowloon. Ciò detto, un visitatore intraprendente avrebbe potuto percorrere l’intero territorio da nord a sud, grazie ai numerosi ponti di attraversamento tra un palazzo e l’alto, senza mai doversi azzardare a toccare terra.
Molti termini sono stati usati, negli anni, per riferirsi a questo luogo senza pari nella storia: città dei sogni, della notte eterna, luogo incredibile, meravigliosa dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Ma la realtà è che si trattò, oltre ogni dubbio residuo, di un vero incubo terrificante. L’intero agglomerato disponeva unicamente di otto tubi dell’acquedotto municipale, con punti di recupero dove venivano, al tempo stesso, lavati i panni e prelevate le taniche di acqua potabile per i propri figli e nipotini. Anche se, secondo alcune teorie, la città disponeva di alcuni pozzi risalenti all’antichità, gelosamente custoditi all’interno di zone sotto il controllo dell’elite locale. Il crimine, come potrete facilmente immaginare, dilagava incontrollato, con alcune delle più potenti triadi (le “mafie” cinesi) che proprio qui avevano stabilito le proprie sedi operative, complete di una fiorente industria della droga, del gioco d’azzardo, della prostituzione. Era raro che la polizia si avventurasse in questi luoghi, e quando lo faceva, stava molto attenta a muoversi in gruppi estremamente numerosi. L’aria era umida e malsana, con le migliaia di condizionatori che riversavano la loro acqua a livello della strada in una sorta di torrente ininterrotto, mentre le serrande di negozi e luoghi di ristorazione si sollevavano a poca distanza da indescrivibili cumuli di spazzatura, quali la modernità, probabilmente, non aveva mai conosciuto prima. Ma prima di parlare del modo in cui giunse ad esistere un luogo allucinante come Kowloon, e della sua demolizione fortunata ed al tempo stesso ingloriosa portata a termine nel 1994, sarà opportuno porci una domanda carica di sottintesi. Non vi ricorda nulla, tutto ciò?

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Lavavetri volante: l’unico mestiere che ricerca la precarietà

Burj Window Cleaner

È un video di quelli che ti lasciano senza parole per l’incredibile portata di quanto è portato a svolgersi nella cornice dello schermo: con l’attore e conduttore inglese Dallas Campbell che a novembre del 2012, per girare una puntata della serie di documentari della BBC Supersized Earth (la Terra sovradimensionata) si univa ad una squadra veramente fuori dal comune di operai. Siamo, come avrete facilmente modo di notare, verso la metà di un palazzo che potremmo definire “abbastanza alto”. Ovvero il Burj Khalifa di Dubai, 829 metri ed un record assoluto, quello di struttura più alta mai edificata dall’uomo. La più perfetta ed innegabile dimostrazione della feconda prosperità di un luogo e la sua casta, puntata come un dito titanico e trionfale all’indirizzo del distante cielo stellato. E voi direte, chi sono costoro, che stanno per calarsi giù sfruttando solo lo strumento di una fune…
La metafora della torre d’avorio è stata più volte utilizzata, in prosa ed in poesia, per riferirsi al concetto di un luogo immaginifico, che si erge al di sopra del caotico contesto umano. Seggio di un’elite culturale straordinariamente sopraffina, che dall’alto scruta l’orizzonte e medita, sollevando questioni filosofiche profonde. Ma la realtà è che un grattacielo è fatto principalmente di ferro, cemento (gli elefanti ringraziano) e poi quell’altro materiale trasparente, il solito, liscio e luminoso vetro. Il quale, benché collocato a molti metri dal livello della strada, gradualmente non può fare a meno di acquisire l’indesiderata opacità, trovandosi a chiamare con clamore l’unica parola: MA-NU-TEN-ZIO-NE. Perché l’uomo, che discende totalmente dalle scimmie, nonostante le astrazioni che derivano dal desiderio, è fondamentalmente una creatura sporca, che trascina dietro a se ogni sorta d’indesiderabile antiestetica nequizia. Così le più splendide ed irraggiungibili finestre, un tempo lucide come l’argento, si ritrovano costantemente sotto assedio dalle due fondamentali direzioni di un palazzo: sotto e sopra. Dalla prima per l’effetto dello smog, che essendo più leggero del vento sale, solamente per formare uno strato solido e nerastro ricoprendo quello che ci è caro. E dalla seconda direzione in quanto, nonostante i più miti consigli, molto spesso una finestra si può aprire. E quando ciò succede al 15°, 20° piano, qualsiasi oggetto gli inquilini si trovassero a lanciare tra cicche, cicchetti, gomme o caramelle, è garantito che si trovi ad impattare contro un qualche punto dei piani inferiori. E non importa quanto si è abili col proverbiale squeegee (il tipico tergicristalli a mano) c’è un limite al risultato ottenibile da una persona come noialtri, che sporgendosi soltanto in parte si premura di raggiungere i recessi del pannello oltre cui regna il vuoto. Così per fare un’ottimo lavoro, agli abitanti o utenti di quei luoghi rimaneva unicamente la risorsa di un mestiere come quello praticato dal coraggioso Dallas Campbell, che salendo all’improvviso dalle stesse fondamenta cittadine tentava il gesto di emergere, fluttuando sopra il mondo e fino in cielo. Con un secchio al sèguito ed un cuore in ghiaccio impenetrabile, tale da fare invidia alle regine trasformiste dell’inverno disneyano in CG.
Ed è straordinariamente interessante, ed al tempo stesso molto sorprendente, questo fatto che le strutture più iper-tecnologiche del mondo non possano essere rese automatiche in questa mansione imprescindibile, che dovrà essere portata a termine ripetutamente per l’intera durata della loro vita di utilizzo. L’industria del lavaggio dei vetri dei grattacieli nasce verso la fine del XIX secolo, nel primo ed allora unico luogo che ne avesse la necessità: l’isola di Manhattan, New York. Fu all’inizio un mestiere per pochi coraggiosi, principalmente figli di immigrati polacchi, italiani, irlandesi ed ucraini. Eppure si trattava, a quanto narra un famoso articolo del New Yorker, di una mansione particolarmente ambìta, perché piuttosto ben pagata, e soprattutto dotata di un orario che definire flessibile sarebbe stato riduttivo. La vecchia convenzione in materia, infatti, prevedeva che chiunque fosse tanto coraggioso da sfidare le vette urbane con eccezionale sprezzo del pericolo, attaccasse la propria giornata lavorativa all’alba, onde ridurre il disturbo agli occupanti degli uffici all’altro lato dei cristalli. E che verso il primo pomeriggio, completata la missione della sufficienza, potesse timbrare il cartellino e andarsene tranquillo e quieto per la propria strada. E ciò, nonostante gli avessero pagato l’intera giornata. Tanto, avrebbe continuato la mattina dopo. E lo sporco, ad ogni modo, non finiva mai…

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