Nell’estate del 1871 il pittore impressionista Claude Monet trascorse un breve, ma intenso periodo della sua vita d’artista nel distretto rurale a settentrione di Amsterdam, lungo il corso del fiume Zaan e nella cittadina antistante Zaandam. 13,5 chilometri di un corso d’acqua fiancheggiato da dimore straordinariamente caratteristiche, chiamate per l’appunto Zaanse huisjes, con facciate dai colori accesi, gabbie a gradoni, tetti spioventi e grandi finestre al piano terra dalle tende quasi sempre aperte, perché “Non c’è niente da nascondere ai nostri vicini”. In una famosa lettera al collega impressionista Camille Pissarro, egli avrebbe scritto quindi: “Zaandam è meravigliosa. Qui c’è abbastanza da dipingere per una vita intera.” E così fu: 25 quadri nel corso della sua prima visita, seguìti da quasi altrettanti dipinti durante successive trasferte in questo luogo ameno, destinato a influenzare profondamente il suo fruttuoso rapporto con il paesaggio e la natura. C’è un particolare soggetto inanimato, tuttavia, trasformatosi nel simbolo di questa correlazione fondamentale nella storia dell’arte, situato a soli 15 minuti di camminata dalla stazione del treno all’indirizzo Hogendijk 78: della cosiddetta casa blu, oggi, resta soltanto una parete, così dipinta in omaggio al grande pittore mentre l’intero edificio era stato ritinteggiato nel 1910, in seguito al cambio di proprietario. In compensazione di ciò, tuttavia, la popolazione locale può rivolgere oggi lo sguardo alla moderna versione di tale dimora, situata all’altezza improbabile di circa 45 metri. Ma è quello che c’è sotto ancor più di ciò, ad attirare lo sguardo dell’osservatore: un agglomerato verticalmente indivisibile di 70 case di cui 69 di colore verde, posizionate l’una sull’altra come fossero i pezzi delle costruzioni di un bambino. Per un qualcosa che benché possa sembrarlo, non è un sogno indotto dall’assunzione di sostanze psicotropiche bensì l’effettiva forma fisica del locale hotel della catena Inntel, rapidamente trasformatosi nel più famoso della regione e forse dell’Olanda intera. Consegnato nel 2010 come fiore all’occhiello del progetto Inverdan (nell’idioma dialettale del luogo “Girare gli edifici”) per il rinnovamento di Zaandam, di cui era stato incaricato nel 2003 lo studio di Amsterdam PPHP, il palazzo è tuttavia stato creato dall’architetto di Delft Wilfried van Winden (Studio WAP) secondo la visione fortemente personalizzata di quella che lui chiama Fusion Architecture ovvero “Unione di antico e moderno, Oriente e Occidente, astratto e figurativo” per la creazione di qualcosa che per quanto assurdo nel suo aspetto complessivo, poteva provenire solo ed esclusivamente da questo specifico paese. L’albergo in questione dunque, fiancheggiato da una piccola cascata artificiale, vuole non soltanto incorporare le linee guida del mandato cittadino per la creazione di un qualcosa di conforme allo stile locale ma in qualche modo giocare con esse ed esagerare nel senso opposto, creando la quintessenza di uno stereotipo, marcatamente surrealista, con lo scopo di attrarre e veicolare l’attenzione del turista. E benché il gusto estetico ben oltre il grado generalmente considerato accettabile di post-modernismo gli abbia attirato negli anni non poche critiche da parte della popolazione locale resta indubbio il successo ottenuto verso l’obiettivo originariamente perseguito, verso una struttura capace di diventare il simbolo su scala internazionale, oltre che la meta prediletta, di tutti coloro siano intenzionati a visitare il paese situato sul bordo settentrionale del centro Europa. Ma è soltanto entrando all’interno del luminoso foyer attraverso la porta girevole motorizzata che l’edificio rivela un panorama decisamente meno eccitante ed illogico di quanto si potrebbe essere stati indotti a pensare…
urbanistica
La grande onda virtuale del quartiere coreano di Gangnam
Il blu, il bianco, l’azzurro: pigmenti usati per tracciare l’impronta, delicatamente intagliata nella tavoletta di legno, dell’impresa degna di qualcuno che possiede il Segreto… Necessario per catturare, imprimere e riprodurre fino all’estremo l’inumana enormità del mare! Ed è senz’altro un merito innegabile dell’innato senso d’immaginazione che risiede nostra mente, se una simile illusione, bidimensionale nonché contenuta da un singolo foglio di carta, può evocare in noi le più profonde sensazioni di reverenza, entusiasmo e coinvolgimento create normalmente dalla natura. Se fosse dunque in qualche maniera possibile, o necessario, non avremmo già tentato di replicare su scala maggiore lo stesso effetto dell’arte xilografica, per farne il soggetto non più un fortunato gruppo di possessori o visitatori di una mostra, bensì la popolazione di una città intera? Seoul oppure Il mondo, persino. Attenzione, tuttavia: diverse proporzioni influenzano l’efficacia dei mezzi normalmente utilizzati per compiere l’impresa. E qualche volta, prevedibilmente, occorre adattare le proprie aspettative alle limitazioni e i punti forti dell’epoca corrente.
Corsi, ricorsi, avanti e indietro corre l’energia profondamente reiterata del moto che rimescola, sin da tempo immemore, la parte acquatica del nostro vivido astro planetario. Una scheggia d’universo catturata in una scatola grazie a un’illusione ottica antropomorfa, ed esposta sopra la facciata digitale di un palazzo. Niente di simile era mai stato tentato: gli 80,1 x 20,1 metri di uno schermo a LED curvo, quello del singolare centro commerciale SMTown Coex Artium presso il quartiere della capitale che ha dato il nome alla più famosa canzone Pop degli anni 2000, adesso dedicato esternamente a dimostrare il realismo raggiunto dalla riproduzione digitale della forma dell’acqua in tempesta, almeno a patto di osservarla dalla direzione adatta a mantenere l’effetto tridimensionale di una prospettiva forzata. Soggetto notoriamente avverso a qualsivoglia riduzione su scala inferiore ad 1:1. Ma nessun ricorso sembrerebbe essere stato fatto, questa volta, all’allegorica riduzione dei singoli elementi costituenti, affinché l’opera dell’artista possa prendere vita sotto gli occhi degli osservatori: bensì l’assoluto realismo è stato perseguito fin nei minimi dettagli, fino al punto di animare l’onda in maniera tale che sembri girare ancora e ancora dentro l’edificio a sei piani, come il ciclo finale di una gigantesca lavatrice. Il tutto grazie all’opera creativa della compagnia mediatica D’strict, nata a Seoul nel 2004 con l’obiettivo originario di creare siti Web per le aziende ma specializzatosi, negli anni successivi, al fine di proporre dei soggetti per l’onnipresente strumento futuro della comunicazione pubblicitaria: il maxi-schermo installato in situazioni pubbliche, grande punto fermo della letteratura di genere fantascientifico ed effettiva realtà d’Oriente, persino al margine dei nostri giorni di transizione. Un concetto che trova il suo più imponente esempio su scala globale proprio in questo esempio edificato nel 2009, come principale novità del centro congressi COEX situato lungo il corso del fiume Han. Suscitando l’inevitabile, nonché proficua domanda, su quali astruse meraviglie possano nascondersi al suo interno…
Nella nuova Düsseldorf, un bosco di siepi ricopre il centro commerciale
Braccati e sotto assedio per la pandemia, gli esseri umani si chiusero all’interno delle loro case per mesi e mesi, nell’attesa dell’arrivo di un momento migliore… Un qualche presupposto di possibile riscossa. E mentre le città diventavano deserte, fatta eccezione per i fotografi costantemente intenti a immortalare le “Città Diventate Deserte” coi loro delfini, orsi e scimmie ribelli tale natura continuava a fare il suo corso, entrando in occasionale rotta di collisione con il mondo di cemento che avevamo usato, senza troppe cerimonie, al fine di ricoprirla. Così come Gustaf-Gründgens-Platz, nella capitale della Renania Settentrionale-Vestfalia, un letterale tappo carrabile edificato sopra la voragine fatta dall’uomo, contenente uno dei principali parcheggi sotterranei della regione. Luogo fino a pochi anni fa fa percorso da una strada di scorrimento, qualche anno fa dismessa a favore di altri più pratici, e meno ingombranti, sentieri di collegamento urbano. Ecco dunque comparire in maniera surreale, a poca distanza dallo storico teatro un letterale parallelepipedo di colore verde, dell’ampiezza di 42.000 mq e il punto più alto collocato a 27 metri dal suolo, oggetto totalmente fuori dal contesto perché i parchi pubblici, nella maggior parte dei casi, si sviluppano al livello del terreno. E soprattutto, non vengono portati a termine durante i periodi di quarantena…Giusto? Fatta eccezione per il caso del Kö Bogen (arco) 2, che non è il frutto di un cespuglio rampicante replicato casualmente a oltranza, né l’effetto dei semi di kudzu trasportati dal vento, bensì un’opera cosciente, e desiderabile, frutto della commissione data allo studio architettonico locale di Christoph Ingenhoven, per il rinnovamento dell’eponimo quartiere cittadino e la trasformazione dello stesso in un diverso polo di attrazione del turismo e il traffico locale, costruito per la prima volta sul principio della corrente Land Art, un movimento nato negli Stati Uniti del 1967, mirato a “restituire alla Terra” più di quanto siamo soliti pretendere da essa, mediante strutture o opere d’arte che in qualche maniera si integrano nel paesaggio, piuttosto che tentare di dominarlo. Ecco dunque l’idea, nata nelle prime fasi del progetto, d’integrare nel vero e proprio pièce de résistance 8 km di siepi ordinatamente disposte in filari paralleli, fino all’ottenimento della più estesa ed imponente facciata verde d’Europa. Fatti da parte Bosco Verticale di Milano dunque, per un’interpretazione dell’intera faccenda che risulta essere assai più prevedibile e ordinata, data l’installazione assolutamente geometrica dei trogoli ricolmi d’erba che ospitano questo solenne omaggio alla natura vegetale. Terreno fertile per le radici di Carpinus betulus o “bianco” pianta scelta per la sua capacità di rimanere verde l’intero anno e proprio a causa di questo particolarmente amata in urbanistica, assolvendo con particolare efficienza allo scopo di mantenere eretta e solida una desiderabile barriera contro gli sguardi di natura inappropriata. Laddove in questo caso, piuttosto, la sua funzione dovrà essere quella di offrire lo spunto per piacevoli passeggiate iniziate al livello del terreno e portate al culmine mediante il lieve declivio dell’edificio triangolare antistante, parte del complesso ospitante a sua volta un prato sopra cui rilassarsi, prendere il sole o conversare amabilmente. Ragionevolmente lontano, eppure fisicamente a contatto, con la più chiara conseguenza dell’urbanizzazione a oltranza…
Vestiti del tricolore i due gasometri di un’Italia in attesa
Corona-memories: come insetti intrappolati in una goccia d’ambra, i ricordi di quest’epoca priva di precedenti saranno immutabili reperti che le prossime generazioni incontreranno nelle loro passeggiate, siano queste letterali o metaforiche, attraverso i placidi racconti di coloro che l’hanno vissuta. Il senso di preoccupazione e l’incertezza, la logica dell’attenzione al proprio senso di sopravvivenza, quel timore che ancora striscia, sotto l’ombra di un pericolo incombentemente gramo. Eppure in quest’oceano di dolore, lo spettro evanescente della rinascita riesce a manifestarsi, attraverso gesti qualche volta significativi, certe altre memorabili ed in ogni caso frutto, indivisibile, di un desiderio di sfida contro il tragico destino. Che appartiene, più di ogni altra cosa, alle splendenti regioni dell’animo umano. Avete transitato di recente voi romani, tanto per fare un esempio rilevante, all’ombra del gazometro del quartiere Ostense? Oppure, quello fuori porta San Donato, presso l’oggi silente città di Bologna? Quasi certamente no: la legge, del resto, lo vieta temporaneamente in assenza di ottime e comprovate ragioni. Eppur dicono le voci, e altresì dimostrano le foto digitalizzate, che qualcosa di notevole stia succedendo in questi giorni: le due strutture che si ergono a memoria dei trascorsi di un paese dall’industria ingiustamente e storicamente sottovalutata appaiono d’un tratto trasformate, grazie all’uso di un sistema d’illuminazione estremamente suggestivo. Sotto un cielo per la prima volta privo delle polveri sottili, per la gioia di piccioni e gatti tristemente privi di persone che li nutrano per empatia animale, verde, bianco e rosso, di un’Italia che ricorda di essere se stessa, nel momento in cui necessità riesce a trasformarsi in un’imprescindibile virtù.
Una scelta interessante altresì datata, in entrambi i casi succitati, al 26 marzo in un’apparente comunione d’intenti e tempistiche per la gioia dei social media manager coinvolti, tra le poche figure professionali perfettamente abilitate a lavorare da casa, pronti a far da laboriosi portavoce di questo piccolo miracolo inatteso. Super-utenti che dalla pagina Facebook dei pompieri della capitale e quella della compagnia multiutility Hera dell’Emilia Romagna hanno iniziato, in contemporanea forse accidentale, il tam-tam mediatico mirato far sperimentare all’intero paese chiuso in casa questo attimo di sorpresa e svago, fondato sull’impiego creativo di sistemi d’illuminazione a LED, che possiamo facilmente immaginare come pre-esistenti nei due vecchi edifici parzialmente dismessi. Eppure non può esserci pensionamenti, in quegli oggetti sufficientemente imponenti da modificare lo skyline cittadino, eppur non tanto “brutti” da obbligarne i dirimpettai a richiederne a gran voce la demolizione. Tanto che per ogni città che ne possieda esempi, in qualche maniera, sono diventati un simbolo e ragione d’affezione, quasi l’eredità inutile, ma nondimeno apprezzata condotta fino a noi dalla placida consapevolezza degli Avi. Il che ci porta ad un quesito che altrettanto probabilmente, pochi tra gli appartenenti all’epoca degli smartphone senza pulsanti avranno avuto ragione o interesse a porsi: quella relativa a quale specifica esigenza, nei fatti, un gasometro o gazometro che dir si voglia fosse stato chiamato a risolvere, da coloro che per il vantaggio pubblico, avevano nelle passate generazioni dato disposizione di costruirli. Come fonti di una delle più importanti e imprescindibili risorse del mondo moderno, la luce notturna…