Il polo dello sport più avveniristico mimetizzato nell’antica capitale confuciana

Poco dopo l’anno Mille secondo il criterio di calcolo europeo, l’entità politica da lungo tempo nota come dinastia Tang dei cinesi andò incontro a destabilizzazioni e divisioni d’irrimediabile entità. Il che avrebbe portato, come già successo in altri casi precedenti, all’imporsi di sovrani territoriali e indipendenti, ciascuno dei quali assolutamente certo di avere diritto esclusivo al predominio sul grande Impero. Uno di costoro sarebbe stato il duca Yansheng Duanyou, “l’Onorevole ricolmo di Saggezza” capace di far risalire la propria linea di discendenza fino al grande studioso fondatore ad una delle discipline filosofiche più importanti di tutto l’Oriente. Così mentre a settentrione suo fratello Duancao, attribuitosi lo stesso titolo, diventava un pezzo forte della neonata dinastia dei Jin all’interno della prefettura settentrionale di Huining, egli avrebbe costruito la propria roccaforte presso una località nota come Quzhou, situata 400 Km a sud-ovest del villaggio costiero che nei secoli successivi sarebbe diventato celebre col nome di Shanghai. Un luogo giudicato ameno, dai dolci declivi collinari e un clima accogliente, attraversato da una pluralità di fiumi e dotato della collocazione strategica ideale come polo del commercio dell’intera regione, nota a tal proposito come “l’arteria di quattro province e il punto d’arrivo di cinque strade”. Una situazione destinata molti secoli dopo a evolversi attraverso i lunghi anni della dinastia dei Song ed oltre, mediante l’implementazione progressiva di una delle zone più pesantemente urbanizzate della Cina orientale, assai lontano dall’ideale estetico delle generazioni d’artisti e letterati capaci d’ispirarsi alla visione confuciana dell’armonia tra uomo e natura. Che sarebbe stata almeno in parte, nel corso di questi ultimi quattro anni, nuovamente perseguita grazie all’implementazione di un valido complesso architettonico, dedicato alla pratica collettiva figlia dell’odierna e contrapposta visione del mondo, lo sport. Difficile immaginare dunque cosa avrebbero pensato gli studiosi dell’epoca, inclini a perseguire l’attività intellettuale spesso a discapito di una via concreta dedicata al perfezionamento dei gesti, di fronte al cospicuo investimento pubblico dedicato al rinnovamento della cosiddetta Città Felice dello Sport, uno spazio di 173 acri degno di ospitare a pieno titolo una versione regionale del concetto di Olimpiadi, con i suoi quattro stadi ciascuno dedicato ad una particolare sfaccettatura del culto agonistico della competizione performativa. Ma di certo essi sarebbero rimasti colpiti dalla configurazione, qui dettata grazie alla supervisione del rinomato studio architettonico MAD nella persona del suo fondatore Ma Yansong, l’architetto appena quarantacinquenne già campione di un modo molto filosofico d’interpretare e dare forma alle proprie idee. Così esemplificato in questo caso dal sorgere del grande spazio rettangolare, circondato da tre strade di scorrimento ed un percorso ferroviario ad alta velocità, all’interno del quale ogni regola presunta del paesaggio urbano cessa di pesare in alcun modo sulla configurazione dei singoli elementi. Tra l’apparente nuvola sospesa, svettante sopra un terrapieno erboso, circondata da coniche equivalenze dei massicci montuosi ritratti nei dipinti dell’epoca classica, ma ciascuno sormontato da un massiccio lucernario splendente. Quasi come se un popolo sotterraneo, nell’incedere inarrestabile delle epoche, avesse scelto di costruirvi la propria residenza all’interno…

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Il piccolo pennuto americano impervio all’energia della corrente impetuosa

La paura non facilita la pesca, la paura è il grande capogiro che impedisce il decollo. La paura non permette d’insinuarsi con il becco in mezzo ai flutti, e fare seguito a tal gesto con l’intera parte rimanente del proprio corpo. Agitandosi e fluttuando, come un piccolo pinguino, in mezzo ai turbini ed ansiosi mulinelli. Creati dalle circostanze al fine di permettere lo scorrere delle acque verso valle, ma anche uno strumento implicito della natura, per proteggere i suoi membri privi di ali “fatte” per volare. Ma c’è un cielo e ce n’è un altro tipo, mormorava sobbalzando il concentrato Ouzel, grigio sovrano dei due contrapposti elementi. Quello sovrastato dalle stelle. E quello sovrastato dalle stelle in mezzo a cui si trovano i neonati scintillanti dei gamberi e delle zanzare. Non più posizionati nella forma di asterismi come l’Orsa Maggiore, dunque, che gli americani chiamano il Grande Mestolo (o Big Dipper). Ancorché soggetti alle attenzioni particolarmente problematiche del Dipper (in questo contesto: tuffatore) altrimenti soprannominato come il merlo acquaiolo. Compatto volatile noto anche in Europa, dove si presenta con il petto bianco ed Asia, dove invece tale parte è caratterizzata da un colore rossastro. Luogo di specie simili ma in effetti dalle dimensioni superiori, al nostro amico di 16-17 cm e totalmente grigio Cinclus mexicanus, così chiamato nonostante sia presente sull’intera costa Ovest, fino alle propaggini più estreme del Canada e della gelida Alaska.
Una creatura che non teme… Nulla. Come narra in un suo celebre capitolo il naturalista e “padre” dei parchi nazionali John Muir, che dedicava nel 1894 all’interno del suo famoso testo Le montagne della California argute metafore e una sincretistica narrazione, sulle notevoli qualità di quello che più volte avrebbe definito come il suo volatile preferito. Perché a differenza di qualsiasi altro produttore d’armoniose melodie, non si ritira quasi mai nei mesi invernali, né compie migrazioni eccetto per qualche spostamento di poco conto, continuando imperterrito a industriarsi nelle attività che gli sono affini. Ivi inclusa quella, fortemente caratterizzante, d’immergersi parzialmente o del tutto, giungendo addirittura a nuotare controcorrente mediante l’impiego delle corte e forti ali, nella ricerca di valide fonti d’approvvigionamento alimentare. Primariamente artropodi di vario tipo, benché non disdegni l’occasionale pesciolino da ghermire col suo becco appuntito. Confermando un rapporto stretto ed indiviso con le acque in rapido scorrimento che semplicemente non ha equivalenti nell’intero mondo degli uccelli, al punto da portarlo a difendere un territorio in configurazione lineare che è anche l’asse logico dei propri spostamenti. Perché quasi mai, uno di loro, volerebbe dritto verso l’obiettivo, preferendo seguire ed orientarsi in base alle multiple anse del proprio ininterrotto corso d’appartenenza…

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Di antiche tavolozze dei giganti e laghi taumaturgici nella Columbia canadese

Nessuno sa esattamente quanto possa essere antica la cerimonia curativa degli Okanagan, un rituale condotto periodicamente sotto la supervisione degli anziani, depositari del potere filosofico e spirituale della tribù. Ciò che sembra aver costituito, ad ogni modo, una costante imprescindibile nella pratica di questa circostanza originaria della regione sul confine tra lo stato americano di Washington e il Canada, centrata sulla valle omonima dai 400.000 residenti complessivi, è l’utilizzo del singolo elemento che le credenze locali hanno sempre giudicato responsabile di consentire e preservare l’esistenza umana: siwɬkʷ, l’acqua che compete agli sciamani, responsabili di preservarne la sacralità e purezza soprattutto nel procedere di un’epoca fermamente determinata a farne un’imperterrito sfruttamento. Per quanto possibile e comunque non sfruttando, per ovvie ragioni di contesto, una piccola pozza endoreica come quello di Kłlil’xᵂ (pron. Kliluk) più comunemente detta del lago maculato per il suo aspetto talvolta estremamente caratteristico e distintivo. Una depressione impermeabile vagamente reniforme della lunghezza di 0,7 Km per 0.25 di larghezza, unite a una profondità molto variabile in funzione della quantità di precipitazioni cadute annualmente. Questo per l’assenza, come implica la sopracitata qualifica idrologica, di alcun affluente o emissario, presumendo un ciclo che deriva unicamente dall’accumulo delle acque discendenti dalle colline circostanti e conseguente evaporazione, durante i mesi dell’estate priva di umidità. Periodo in cui, con precisione svizzera ed ineluttabile, il livello complessivo cala fino al punto di lasciare ben visibile una matrice di circa quattrocento pozze dalla forma circolare, ultimo residuo del precedente specchio di superficie. Elementi ben distinti tra di loro perché formano un gradiente cromatico varabile, ciascuna caratterizzata da un colore come il verde, marrone, rosso ed azzurro. Ancor più visibili grazie al fondale fangoso che li circonda con il suo colore biancastro, derivante da un affioramento di significative quantità del sale sottostante. Non c’è quindi molto da meravigliarsi se gli Okanagan, anche detti Syilx o per traslitterazione di epoca coloniale identificati come il gruppo etnico dei Salish, abbiano lungamente attribuito a questo luogo il coinvolgimento in un’ampia serie di miti e leggende, la maggior parte collegate ad una particolare circostanza. Quella di uno spirito superno, antica madre dei processi naturali, che piangendo lacrime amare per la malattia dei propri amati figli le avrebbe lasciate cadere per un anno intero nel bacino del Kliluk, ciascuna delle quali andando a formare una singola delle pozze variopinte del particolare contesto lacustre. Donando ad esse la particolare qualità di agire come cura possibile per una delle malattie della Terra, mediante il tramite di un giusto grado di rispetto spirituale e la capacità di compiervi abluzioni nel modo corretto. Una credenza con più basi logiche e comprovate evidenze, di quanto si potrebbe idealmente essere inclini ad immaginare…

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Avveniristico, argentato aliscafo, retaggio di una Russia che sognava il domani

Lungamente abbandonate per corrodersi nei depositi di rottami, lungo gli affluenti della Volga oppure nelle piazze dei paesi, trasformate in bar, edicole, centri visitatori. Le metalliche astronavi oblunghe dell’epoca sovietica, dalla plancia di comando a forma di U ed un caratteristico ponte panoramico nella parte posteriore, paiono a tutti gli effetti i prodotti collaterali di un set di fantascienza, tanto sono caratterizzate da una sensibilità estetica insolitamente futurista, caratteristica nel suo evidente tentativo di creare presupposti di distinzione. Eppure i membri delle più longeve generazioni, dinnanzi ad una tale vista familiare, non sviluppano alcun senso di disagio o d’inquietudine bensì la tipica malinconia dei tempi andati, ritornando con la mente a un’epoca in cui simili battelli erano letteralmente ovunque, permettendo agli utilizzatori di accorciare le distanze in un paese dove queste si attestavano su cifre largamente superiori alla media. Facendolo con stile ed efficienza, grazie alla comprovata capacità di sollevarsi in larga parte fuori dall’acqua, mediante l’utilizzo di convenienti ali idrodinamiche, in altri luoghi utilizzate come sinonimi del concetto di aliscafo. Nella nazione dove, tra l’altro, al termine della seconda guerra mondiale ogni risorsa infrastrutturale era stata deviata, in base alle semplici e apparenti necessità operative, nello sforzo bellico contro i tedeschi, i quali erano stati fin troppo propensi ad accelerare il disfacimento della rete dei trasporti sovietici, prima della loro catartica e del tutto inevitabile ritirata. Fu però la risultanza di un lungo percorso iniziato oltre due decadi prima quando, nel 1957, il rinomato ingegnere nautico nonché premiato praticante della vela sportiva Rostislav Alexeyev presentò dopo un primo viaggio di prova di oltre 420 chilometri la sua nuova barca Ракета (Razzo) al premier Nikita Khrushchev in persona, per poi procedere a guidarlo fino a Mosca con orgoglio durante il VI Convegno della Gioventù e degli Studenti dell’estate di quello stesso anno. Partendo da quella stessa fabbrica di Gorky Sormovo, nel distretto di Novgorod, dove al culmine del conflitto globale gli era capitato di essere inviato di stanza per supervisionare la costruzione di carri armati T-34, subito dopo il conseguimento della laurea nell’ottobre del 1941. Ottenuta con una tesi che, in effetti, aveva ben poco a vedere con tale mansione vertendo sull’applicazione di una serie di teorie risalenti all’inizio del Novecento, relative al comportamento di una superficie generativa di portanza all’interno di un fluido più denso dell’aria. Come quello, per l’appunto, tra le sponde di una funzionale idrovia naturale…

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