La capra che offese la regina Elisabetta II

Billy the Goat

Tutto accadde il 16 giugno del 2006, durante le celebrazioni tenutasi a Cipro per il suo ottantesimo compleanno. Lei, raggiante nel suo abito e copricapo rosa fuchsia, perfettamente abile nel suo ruolo di rappresentanza nonostante l’età avanzata, che incede maestosamente (come potrebbe mai essere altrimenti) dinnanzi alle truppe in rassegna. Tra le quali, come potrete a questo punto immaginare, c’era una rappresentante della tipica genìa quadrupede di montagna, ornata da magnifica coperta, cappucci d’argento per le corna, un emblema con lo stemma reale tra le corna. Mentre un fante, con il grado ufficiale di “maggiore della capra” la teneva saldamente al guinzaglio, mostrando un’espressione molto preoccupata. William Windsor, infatti (casuale omonimo del di lei nipote, il duca di Cambridge) si era dimostrato quel giorno come un animale piuttosto recalcitrante e riottoso, in perenne ricerca di un bersaglio contro cui far battere il suo cranio corazzato. La regina, nota amante degli animali, si avvicinò con fare cordiale. In quel momento, tutti compresero con orrore, ogni cosa poteva accadere…
Che tra gli americani ed inglesi non corra tradizionalmente del buon sangue è una questione molto nota; è in effetti, del tutto impossibile in determinati ambienti del mondo politico, nonché in altri del senso comune, dimenticare la Rivoluzione delle colonie iniziata nel 1775, che tante anime costò ad entrambe le parti, e che avrebbe condotto con certezza i primi all’indipendenza ed al diritto di essere considerati una nazione. Ma quale fu, in effetti, il punto di svolta dell’intera problematica faccenda? Se non il primo conflitto sanguinoso di quella dannata guerra, combattuto il 19 aprile di quell’anno, presso i due villaggi del Massachusetts, Lexington e Concord? Molte sono le storie collegate ad un tale evento, tra cui quella della folle cavalcata degli ufficiali della milizia Revere e Dawes, che corsero ad avvisare i miliziani dell’arrivo dei britannici e dell’imminente scontro a fuoco. E poi c’è l’intera, assolutamente fondamentale faccenda, di chi sia stato a sparare il primo colpo della guerra, contrariamente all’ordine dato dai generali britannici e coloniali. Dando inizio ad una situazione di conflitto che avrebbe portato, entro il termine della giornata, alla triste dipartita di un gran totale di 100-120 persone. Roba da nulla, essenzialmente. Sopratutto al confronto di quello che sarebbe capitato qualche mese dopo. 17 giugno: i miliziani delle colonie, che si facevano chiamare i minutemen per la loro capacità di “prepararsi alla battaglia in un minuto” imbaldanziti dalle prime facili vittorie, si uniscono alle forze assedianti la città strategicamente fondamentale di Boston. Silenziosamente occupano le colline circostanti il porto ed iniziano quindi un fragoroso bombardamento d’artiglieria, grazie ai cannoni che avevano sottratto dal forte di Ticonderoga. I britannici al di là del fronte di battaglia, che nelle settimane precedenti avevano ricevuto i rinforzi via mare di fino a 3.000 uomini perfettamente armati ed addestrati, inclusivi di interi reggimenti di fanti e marines, marciarono coraggiosamente sotto il comando del generale William Howe, con l’intenzione di riconquistare le posizioni elevate e spezzare l’assedio dell’esercito di irregolari. Si tentò l’aggiramento per ben tre volte, dando inizio ad una mischia selvaggia, durante la quale furono trafitti dalle baionette, o i pallini di fucile, una buona parte dei 1.000 soldati inglesi e circa 400 americani che sarebbero risultati al conto delle vittime, molti dei quali dipartiti immediatamente o poco dopo, per la relativa arretratezza della scienza medica in quegli anni. Gradualmente, tuttavia, la postazione dei cannoni venne sopraffatta, e la milizia fu costretta ad iniziare una difficoltosa manovra di ritirata. E fu allora, secondo la leggenda, che dinnanzi ai vessilli strappati dei britannici si presentò una scena totalmente inaspettata.
Manto bianco, corna ritorte e un fare stranamente disinteressato, nonostante il frastuono e i letterali cumuli di morti e feriti, un artiodattilo dall’andatura dinoccolata che si stagliava contro l’orizzonte, belando. Era una capra aegagrus hircus, ovvero della specie comunemente addomesticata dagli umani, la quale tuttavia si era ritrovata a vivere allo stato brado, forse a causa dell’abbandono delle fattorie durante i primi stadi della guerra. E che adesso si trovava, incredibilmente, in una posizione perfetta per venire crivellata dal fuoco incrociato dei due schieramenti. Se non che i coloniali gli voltavano la schiena, intenti com’erano a fuggire. E i soldati inglesi insanguinati, stanchi fino ormai allo stremo, quando videro l’innocente candore della bestia ne vennero in qualche maniera corroborati, tanto che i loro ufficiali provenienti in massima parte dal Galles, piuttosto che ordinare di far fuoco, decisero di correre avanti, per sovrastare con la mera forza bruta il nemico. O forse avevano semplicemente finito le munizioni, chissà. Il risultato… Beh! La visione di un’intera fila di soldati che sopraggiunge a perdifiato, con oggetti acuminati puntati in avanti, è più che sufficiente per indurre il puro terrore un qualsivoglia quadrupede, per quanto possa trattarsi di un coraggioso montanaro. Così la capra molto sfortunata prese a correre alla massima velocità consentita dalle sue zampette, nell’esatta direzione opposta, ovvero i coloniali. Una scena diversamente interpretabile, in cui molti avrebbero visto diverse cose. Mentre i superstiti testimoni inglesi, come un sol uomo, avrebbero commemorato un tale evento come segue: “La capra sta conducendo la carica verso le forze rivoluzionarie! La capra è in questo caso, il nostro VERO generale! Seguiamola fino all’inferno!” E così fu. Si trattò di un terribile massacro, tanto che il generale Clinton delle forze di Boston, citando l’infelice vicenda del re Pirro dell’Epiro (da cui la celebre vittoria-non-vittoria per antonomasia) scrisse nel suo diario: Pochi altri “trionfi” come questo metteranno presto fine al dominio britannico in America. Fu innegabile tuttavia come, al termine dell’intera triste vicenda, i britannici avessero trovato un’amico.

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Tre insoliti caffè stranieri: il fresco, il bruno e il misterioso

Vietnamese Coffee

Recipiente di metallo dalle plurime sfaccettature, spigoloso, verticale. Un manico di bachelite ed un becco prominente, il pomello sulla cima del cucuzzolo bollente. Molti pensieri ed ancor più profonde considerazioni, sono state elaborate ai margini di ciò che stiamo descrivendo, fin dal distante 1933: la macchinetta immaginata da Alfonso Bialetti, per la prima volta sul princìpio di funzionamento della lavatrice lisciveuse, che portando ad ebollizione l’acqua per i panni, questo fluido lo spostava nello spazio superiore, in cui si andava ad incontrare col sapone. Prima di tornare giù, svolgendo il suo lavoro. Rapidità, praticità, nessuna possibilità d’errori. Bastò applicare simili metodologie all’antica quanto beneamata bevanda proveniente dal profondo dell’Africa e dell’area dell’Oceano Indiano, un prodotto possibile di oltre 13.500 specie vegetali differenti, per ottenere un qualcosa che potrà essere facilmente definito, senza timore di smentite, l’assoluta Perfezione. Un lieve sbuffo di vapore, il suono di automobili distanti. Le tende alla finestra che si muovono nel vento, dunque l’improvviso gorgoglìo. Dapprima lieve. Quindi un po’ più intenso. Ed sapore che già sgorga, dal condotto interno e l’ingegnoso fontanile in miniatura… Mentre la mente inizia a sorseggiare. Ma non smette di pensare: è davvero possibile, giungendo a tali vette d’eccellenza, continuare a mantenere un punto di contatto ininterrotto col passato? Cosa è andato perso, in questa storia di una bacca prediletta dall’umanità, e poi cosa ritrovato? È insomma davvero giusto definire, questa invenzione italiana, come l’unico modo degno per sperimentare l’epico sapore? Càpita così, di accendere la radio (Vietnamita? No, Thai). Per udire all’altro capo, nient’altro  che la nénia persistente del dubbio profondo, ding-ding-dong, ding-ding-ding…
Per trovare un punto di contatto di quel mondo, con il nostro di orgogliosi bevitori occidentali, occorre muoverci dall’altro capo dell’Oceano Atlantico. Dove dorme, acciambellato attorno al vasto continente americano, il grande drago dalle molte scaglie sfolgoranti di Starbucks. L’antonomasia del “bar” statunitense, una catena assolutamente spropositata, con oltre 180.000 dipendenti all’attivo. Un luogo in cui l’espresso tradizionale non è che una scelta fra molte, ed altrettanto spesso, non la più desiderata. Specie dai clienti di estrazione asiatica che in genere, così racconta almeno un testimone diretto in quel di Reddit, chiedono che sia guarnito con uno specifico prodotto, qui da noi praticamente sconosciuto: la mocha sauce, praticamente cioccolata ed addensante, molte volte più dolce dello zucchero e del miele. La ragione di una tale scelta va rintracciata per analogia nell’esistenza di questa bevanda concepita in Vietnam, che una buona parte del Sud-Est asiatico conosce ed apprezza da generazioni. E se avete visto il video qui sopra riportato, a questo punto lo saprete: stiamo parlando del Cà phê đá o caffè ghiacciato. Un invenzione dei primi del ‘900, qui dimostrata con abile prassi dal filmmaker Eric Slatkin, completa degli attrezzi vintage della tradizione. Perché non esiste l’eccessiva “efficienza” ma è pur vero, che anche le limitazioni fanno parte della “scienza”. E l’infusione.
Ora, naturalmente tutto quello che occorre per poter preparare la nostra amabile bevanda, non è null’altro che scaldare fino ad un certo punto i chicchi derivanti dalla lavorazione delle bacche, affinché questi liberino l’essenza deliziosa contenuta al loro interno. Ma affinché il prodotto finale non abbia un gusto sgradevole, la cottura dovrà interrompersi ad un punto assai specifico. Ed è per questo, in ogni versione moderna di una tale avventura, che s’impiega un filtro, all’interno del quale l’acqua circoli, s’insaporisca, prima di uscirne in qualche modo trasformata. Così la vecchia prassi vietnamita, molto precedente all’invenzione del nostro maestro piemontese, prevedeva l’impiego di un semplice filtro gravitazionale dal progetto francese, lì denominato cà phê phin, prima di essere depositata in un recipiente sottostante, assieme a latte in polvere e Longevity, ghiaccio ed un prodotto zuccherino comparabile alla mocha sauce. Il risultato, è…

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L’alveare umano alle porte di Hong Kong

Kowloon Walled City

L’essere umano: creatura sociale il cui pari, assai probabilmente, il mondo degli organismi complessi non aveva mai conosciuto. Perché i polipi del corallo, i sifonofori degli abissi che formano colonie simili a meduse, o le formiche ed api in superficie, possono aggregarsi tra di loro grazie ad una predisposizione genetica innata, ma non potrebbero mai sopravvivere in solitudine. Mentre noi bipedi dall’andatura dinoccolata, abbiamo la capacità di operare scelte in merito nelle nostre alterne vite, tali da permetterci, altrettanto facilmente, di essere come l’albero solitario del deserto del Teneré, oppure un elemento fra i tanti dell’eterno bosco di querce, distrutto e ricreato sul trascorrere dei secoli distanti. Quante persone è possibile stipare in un chilometro quadrato, senza che queste siano destinate ad prossimo un futuro di follia? 25.000 come a Delhi, la capitale del prolifico sub-continente indiano? Circa 26.000 come l’isola di Manhattan, dove l’articolata verticalizzazione ha sostituito spazi che lì non ci sono, non ci saranno mai? O addirittura 44.000, la cifra raggiunta da Manila nella Filippine, null’altro che la singola concentrazione di persone più densa del pianeta? Un caso limite, di quello che comunque già era e resta il singolo paese maggiormente sovrappopolato nel complesso situazionale convenzionalmente citato. Ma non c’è limite al peggio, così di sicuro, la parola chiave diventa “dignitosamente”. Giacché non è difficile immaginare un distante futuro, in cui la costruzione di svettanti arcologie possa permettere l’attigua coesistenza di dozzine di migliaia di piccoli appartamenti dotati di ogni comfort, eppur stipati l’uno sopra l’altro come scatole di sigarette in un container dei contrabbandieri. Talle situazione, tuttavia, non ha luogo ad essere nel nostro attuale quotidiano. Né tanto meno, in quello degli anni ’70 e ’80, periodo in cui si trovò l’apice nell’Estremo Oriente un particolare insediamento, detto la città murata di Kowloon, in cui fu raggiunta l’apparentemente assurda cifra di 1.255.000 anime per Km², con una popolazione totale di 33.000: in parole povere, qui viveva molto più di una persona al metro quadro. L’uno sull’altro, all’interno di circa 300 palazzi alti fino a 10-13 piani e non più di così, a causa dell’estrema vicinanza dell’aeroporto di Kai Tak, svincolo fondamentale per la città di Hong Kong. L’unità domestica di una famiglia tipo si aggirava attorno ai 23 m², talvolta ricavati da piattaforme sospese nel vuoto, balconate ricoperte o vere e proprie piccionaie, rivettate alla meglio nelle pareti cementizie degli edifici e pericolosamente dondolanti nel vento. Le strutture massicce di un simile luogo poi, giungevano a formare, incredibilmente, un’unica massa con fessure di pochi metri appena fra un gigante e l’altro, dalle quali erano state ricavate alcune delle strade più buie al mondo. Era sempre notte, al piano terra di Kowloon. Ciò detto, un visitatore intraprendente avrebbe potuto percorrere l’intero territorio da nord a sud, grazie ai numerosi ponti di attraversamento tra un palazzo e l’alto, senza mai doversi azzardare a toccare terra.
Molti termini sono stati usati, negli anni, per riferirsi a questo luogo senza pari nella storia: città dei sogni, della notte eterna, luogo incredibile, meravigliosa dimostrazione dell’arte di arrangiarsi. Ma la realtà è che si trattò, oltre ogni dubbio residuo, di un vero incubo terrificante. L’intero agglomerato disponeva unicamente di otto tubi dell’acquedotto municipale, con punti di recupero dove venivano, al tempo stesso, lavati i panni e prelevate le taniche di acqua potabile per i propri figli e nipotini. Anche se, secondo alcune teorie, la città disponeva di alcuni pozzi risalenti all’antichità, gelosamente custoditi all’interno di zone sotto il controllo dell’elite locale. Il crimine, come potrete facilmente immaginare, dilagava incontrollato, con alcune delle più potenti triadi (le “mafie” cinesi) che proprio qui avevano stabilito le proprie sedi operative, complete di una fiorente industria della droga, del gioco d’azzardo, della prostituzione. Era raro che la polizia si avventurasse in questi luoghi, e quando lo faceva, stava molto attenta a muoversi in gruppi estremamente numerosi. L’aria era umida e malsana, con le migliaia di condizionatori che riversavano la loro acqua a livello della strada in una sorta di torrente ininterrotto, mentre le serrande di negozi e luoghi di ristorazione si sollevavano a poca distanza da indescrivibili cumuli di spazzatura, quali la modernità, probabilmente, non aveva mai conosciuto prima. Ma prima di parlare del modo in cui giunse ad esistere un luogo allucinante come Kowloon, e della sua demolizione fortunata ed al tempo stesso ingloriosa portata a termine nel 1994, sarà opportuno porci una domanda carica di sottintesi. Non vi ricorda nulla, tutto ciò?

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Lavavetri volante: l’unico mestiere che ricerca la precarietà

Burj Window Cleaner

È un video di quelli che ti lasciano senza parole per l’incredibile portata di quanto è portato a svolgersi nella cornice dello schermo: con l’attore e conduttore inglese Dallas Campbell che a novembre del 2012, per girare una puntata della serie di documentari della BBC Supersized Earth (la Terra sovradimensionata) si univa ad una squadra veramente fuori dal comune di operai. Siamo, come avrete facilmente modo di notare, verso la metà di un palazzo che potremmo definire “abbastanza alto”. Ovvero il Burj Khalifa di Dubai, 829 metri ed un record assoluto, quello di struttura più alta mai edificata dall’uomo. La più perfetta ed innegabile dimostrazione della feconda prosperità di un luogo e la sua casta, puntata come un dito titanico e trionfale all’indirizzo del distante cielo stellato. E voi direte, chi sono costoro, che stanno per calarsi giù sfruttando solo lo strumento di una fune…
La metafora della torre d’avorio è stata più volte utilizzata, in prosa ed in poesia, per riferirsi al concetto di un luogo immaginifico, che si erge al di sopra del caotico contesto umano. Seggio di un’elite culturale straordinariamente sopraffina, che dall’alto scruta l’orizzonte e medita, sollevando questioni filosofiche profonde. Ma la realtà è che un grattacielo è fatto principalmente di ferro, cemento (gli elefanti ringraziano) e poi quell’altro materiale trasparente, il solito, liscio e luminoso vetro. Il quale, benché collocato a molti metri dal livello della strada, gradualmente non può fare a meno di acquisire l’indesiderata opacità, trovandosi a chiamare con clamore l’unica parola: MA-NU-TEN-ZIO-NE. Perché l’uomo, che discende totalmente dalle scimmie, nonostante le astrazioni che derivano dal desiderio, è fondamentalmente una creatura sporca, che trascina dietro a se ogni sorta d’indesiderabile antiestetica nequizia. Così le più splendide ed irraggiungibili finestre, un tempo lucide come l’argento, si ritrovano costantemente sotto assedio dalle due fondamentali direzioni di un palazzo: sotto e sopra. Dalla prima per l’effetto dello smog, che essendo più leggero del vento sale, solamente per formare uno strato solido e nerastro ricoprendo quello che ci è caro. E dalla seconda direzione in quanto, nonostante i più miti consigli, molto spesso una finestra si può aprire. E quando ciò succede al 15°, 20° piano, qualsiasi oggetto gli inquilini si trovassero a lanciare tra cicche, cicchetti, gomme o caramelle, è garantito che si trovi ad impattare contro un qualche punto dei piani inferiori. E non importa quanto si è abili col proverbiale squeegee (il tipico tergicristalli a mano) c’è un limite al risultato ottenibile da una persona come noialtri, che sporgendosi soltanto in parte si premura di raggiungere i recessi del pannello oltre cui regna il vuoto. Così per fare un’ottimo lavoro, agli abitanti o utenti di quei luoghi rimaneva unicamente la risorsa di un mestiere come quello praticato dal coraggioso Dallas Campbell, che salendo all’improvviso dalle stesse fondamenta cittadine tentava il gesto di emergere, fluttuando sopra il mondo e fino in cielo. Con un secchio al sèguito ed un cuore in ghiaccio impenetrabile, tale da fare invidia alle regine trasformiste dell’inverno disneyano in CG.
Ed è straordinariamente interessante, ed al tempo stesso molto sorprendente, questo fatto che le strutture più iper-tecnologiche del mondo non possano essere rese automatiche in questa mansione imprescindibile, che dovrà essere portata a termine ripetutamente per l’intera durata della loro vita di utilizzo. L’industria del lavaggio dei vetri dei grattacieli nasce verso la fine del XIX secolo, nel primo ed allora unico luogo che ne avesse la necessità: l’isola di Manhattan, New York. Fu all’inizio un mestiere per pochi coraggiosi, principalmente figli di immigrati polacchi, italiani, irlandesi ed ucraini. Eppure si trattava, a quanto narra un famoso articolo del New Yorker, di una mansione particolarmente ambìta, perché piuttosto ben pagata, e soprattutto dotata di un orario che definire flessibile sarebbe stato riduttivo. La vecchia convenzione in materia, infatti, prevedeva che chiunque fosse tanto coraggioso da sfidare le vette urbane con eccezionale sprezzo del pericolo, attaccasse la propria giornata lavorativa all’alba, onde ridurre il disturbo agli occupanti degli uffici all’altro lato dei cristalli. E che verso il primo pomeriggio, completata la missione della sufficienza, potesse timbrare il cartellino e andarsene tranquillo e quieto per la propria strada. E ciò, nonostante gli avessero pagato l’intera giornata. Tanto, avrebbe continuato la mattina dopo. E lo sporco, ad ogni modo, non finiva mai…

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