La spettrale villa vermiglia dell’eclettismo lombardo

Nel centro della grande sala al piano terra, abbandonato da molti decenni, giace un pianoforte a coda, ricoperto dalla polvere ed i calcinacci, precipitati dal soffitto a seguito della rottura dell’impianto di riscaldamento. Pozze d’acqua, isole di terra e relative infiorescenze, che trasportano all’interno il mondo naturale, parlano di un tempo antico e ancor più borghigiano, dell’epoca in cui visse in mezzo a queste mura il conte Felice De Vecchi con la moglie Carolina, uomo del Risorgimento che aveva partecipato alle cinque giornate di Milano nel 1848, diventando in seguito il comandante della guardia nazionale, nel cosiddetto stato italiano preunitario. Ma non prima di aver concluso, qualche anno prima, il grande viaggio della sua gioventù attraverso l’Oriente, spingendosi assieme all’amico naturalista ed entomologo Gaetano Osculati fino a Bombay in India, per poi far ritorno attraverso il Mar Rosso e l’Egitto con un bagaglio inusitato di memorie, disegni e oggetti d’arte, in quella che lui stesso avrebbe definito l’itinerario di una vera e propria carovana, per certi versi all’impresa di un altro celebre italiano, Marco Polo. E come nel caso di costui, il nobile di Milano aveva costruito, su una simile esperienza, un diverso tipo di rapporto con il mondo e in conseguenza, dell’estetica e dell’arte, tale da instradarlo, poco dopo la sua impresa rivoluzionaria contro gli austriaci, nella costruzione di una nuova e splendida dimora tra i monti. Ed è qui che inizia e termina la storia, per lo meno da un punto di vista razionale, della vecchia e rovinata villa di Cortenova, le rosse pareti scrostate dal tempo, due piani che si stagliano contro le pendici boscose dell’Alpe Forno. Ma nell’opinione degli esploratori contemporanei di questo luogo, viaggiatori di un diverso stato della conoscenza, ci sarebbe di molto, molto altro: il succitato strumento musicale, infatti, risuonerebbe certe volte nelle tenebre notturne, mentre grida e strani rumori fanno eco tra le spesse mura dell’edificio a tre piani, un tempo impreziosite da arazzi e tappezzerie. Spiriti demoniaci inoltre vi risiederebbero in attesa di vittime ignare, a seguito del soggiorno in questo luogo attorno al 1920 del celebre occultista inglese Aleister Crowley, che proprio qui avrebbe effettuato i suoi riti spiritistici e varie tipologie di malefici. Una leggenda metropolitana senza basi, inoltre, parlerebbe di una serie di delitti perpetrati in questo luogo tra cui l’uccisione di una figlia e sparizione della moglie, qualche volta familiari del conte stesso, mentre secondo altre versioni del racconto si sarebbe trattato di quelle del custode, che al fine di cercare la seconda si smarrì nella foresta finendo per morire successivamente di stenti. Entrambe verità poco probabili, quando si considera come il decesso di De Vecchi sia effettivamente noto alle cronache, quando già vedovo si ammalò di una patologia connessa al fegato, passando a miglior vita nel 1862 all’età di soli 46 anni. Mentre all’altro estremo dell’epoca abitata della villa, lo stesso discendente della famiglia Negri, incaricata di mantenere abitabile questo luogo dai successivi proprietari, abbia raccontato in un’intervista come ogni leggenda fosse stata creata dai suoi nonni, al fine di evitare la deturpazione ad opera dei vandali dell’antico e prezioso edificio. Ciononostante, sarebbe certamente privo di fantasia, chiunque volesse considerare perciò un simile luogo come del tutto privo di fascino e mistero…

Leggi tutto

La strana guerra delle streghe sovietiche dei cieli

Stanco per la guerra, Iosif Stalin appoggiò la pipa sopra il posacenere creato da un solo pezzo di cristallo di San Pietroburgo, compiacendosi di quel silenzio tanto a lungo considerato necessario in quell’inizio ottobre del 1941. L’ufficio situato al secondo piano del Cremlino era l’unico ambiente illuminato a quell’ora di tarda sera, in cui tra le alte mura rimanevano soltanto le guardie del palazzo e lui, intento a scrivere sulla semplice scrivania in legno. All’orario concordato, la persona che stava aspettando bussò alla porta, quindi aprì senza aspettare la risposta. Stalin sorrise sotto i baffi: non era mai stata un tipo formale, neanche quando gli avevano appuntato sull’uniforme le maggiori onorificenze della nazione. “Compagno Segretario” Esordì senza perdere tempo Marina Mikhaylovna Raskova, eroina dell’Unione Sovietica ed esperta pilota/navigatrice d’aerei: “Il nemico è alle porte. Sono venuta quindi a farti una richiesta che dovrà senz’altro trovare il tuo consenso. Lascia che anche noi possiamo fare la nostra parte! Noi donne, figlie, madri, combattenti per la libertà! Donaci le ali di cui abbiamo bisogno per proteggere la Madre Patria!” Stalin squadrò colei che aveva di fronte, prima di preparare una risposta. C’era stato un grande impegno collettivo, mediatico e di propaganda, tre anni prima, per far riconoscere al popolo in questa donna lo stesso spirito della celebre aviatrice statunitense Amelia Earhart, quando aveva completato assieme al suo equipaggio di due persone il viaggio a bordo di un bombardiere DB-2 da Mosca a Komsomolsk, nell’Estremo Oriente, oltre i 5.947 Km necessari a stabilire il più lungo volo in linea retta della storia umana. Il potente capo della nazione sovietica, probabilmente l’unico individuo che poteva farlo in quel momento della storia, decise quindi che era giunto il momento. Inarcando leggermente il sopracciglio destro, sollevò la mano dalla parte opposta. Il suo dito indice, medio ed anulare erano sollevati. Quindi spiegò per filo e per segno un’altra rivoluzionaria idea.
Tre furono, a partire da quel punto di svolta nella seconda guerra mondiale e fino alla sua fine, gli squadroni prevalentemente al femminile facenti parte della Voenno-vozdušnye sily, nome nazionale delle Forze Aeree, ciascuno dedicato a una diversa attività conducibile nei cieli della guerra: il 586°, dotato di aerei caccia Yak-1, successivamente Yak-7b e Yak 9, comandato da Tamara Kazarinova; il 587°, agli ordini della stessa Raskova, integralmente costituito da bombardieri leggeri bimotore Petlyakov Pe-2, destinato a produrre altre cinque eroine dell’Unione Sovietica in funzione delle sue gloriose gesta. E poi c’era il 588°, soprannominato con l’appellativo di battaglia “Streghe della Notte” con ben 24 delle sue aviatrici destinate a ricevere lo stesso status d’insostituibili tesori della battaglia. Questo particolare reggimento agli ordini di Yevdokiya Bershanskaya, d’altra parte, fu l’unico ad utilizzare una particolare tecnica per fare la guerra ai tedeschi, la cui semplice implementazione richiedeva un particolare tipo di approccio al pericolo, che essenzialmente subordinava la propria stessa sopravvivenza al completamento di una difficile missione. Tutto aveva inizio, normalmente, al sopraggiungere delle prime tenebre del vespro…

Leggi tutto

L’uomo con la sfera d’acciaio proiettata nelle oscure profondità del mare

“…Percepisci, essere della superficie, la nostra sconosciuta irrealtà.” Forme danzanti ai margini del campo visivo, spettri luminescenti nelle tenebre senza fine, ormai prive di colore ed alcun punto di riferimento alla profondità di oltre 400 metri, tranne la potente lampada, proiettata attraverso lo spesso vetro in quarzo della terza finestra, al di fuori della curvatura del veicolo corazzato. Spinosi, bulbosi, zannuti esseri predatori. “Otis, li hai sentiti anche tu?” Aggrappato al corrimano interno, per non risentire dei colpi inferti dalle imprevedibili correnti sottomarine del mare delle Bermuda, il famoso naturalista ed esploratore William Beebe alzò momentaneamente la penna dal taccuino, per guardare in volto l’amico e collega, inventore materiale dell’ingegneristica contingenza che i due si trovavano a vivere, in quel drammatico momento. Intento a calibrare la valvola della bombola d’ossigeno per prolungare il tempo di funzionamento dell’impianto rebreather, l’interlocutore sollevò il volto comprensibilmente teso, mentre con la mano sinistra continuava ad agitare lentamente il ventaglio in foglie di palma, usato per garantire un’idonea circolazione dell’aria. “Sentito cosa?” Rispose dopo qualche attimo di esitazione, sospettando il peggio. Ma la voce di Otis Barton, inventore destinato a diventare un attore di Hollywood, sembrò impattare un’impenetrabile muro di gomma, tanto cadde nel vuoto riecheggiante dell’angusta camera d’immersione. “Si, si, continuate a parlare!” Esclamò invece l’esimio professore dalle mille pubblicazioni, che lui aveva convinto a seguirlo fin laggiù: “Tutti potranno conoscere, ciascuno dovrà sapere. Quanto indegni, ed inconsapevoli, siamo al cospetto dell’universo.” Sospettando una lieve ebbrezza per mancanza di ossigenazione, l’unico orecchio umano presente aprì del tutto la valvola. Giusto mentre un volto mostruoso, che neanche la sua stessa madre avrebbe potuto amare, appariva per fargli una smorfia infastidita all’altezza del suo sguardo, momentaneamente incapace di guardare altrove…
Anni ’30 o per meglio dire, estate del 1929: l’attimo sul percorso della storia in cui Barton, avendo letto sui giornali dell’apertura di un nuovo centro di ricerca oceanografico statunitense presso l’isola di Nonsuch nelle Bermuda, pensò di scrivere al suo direttore, rendendolo pienamente partecipe del suo principale progetto ed aspirazione. Effettive immersioni in profondità, in effetti, a quei tempi risultavano del tutto impossibili, con un massimo raggiunto di 160 metri grazie all’impiego della tuta da palombaro, mentre secondo la sua opinione sarebbe stato possibile ottenere fino cinque volte tanto, mediante l’impiego di uno specifico veicolo di sua esclusiva concezione. E di sicuro, il mondo non aveva mai visto niente di simile alla batisfera: 2,25 tonnellate (nella versione definitiva) per 1,45 metri di diametro, con uno spessore di 25 mm, attaccata ad un lunghissimo cavo d’acciaio e dotata di una serie di aperture che potevano essere chiuse mediante dei tappi semi-permanenti a seconda dei bisogni, affinché risultassero attentamente protette dall’immane pressione del mondo oceanico sommerso. Dopo un fortuito incontro organizzato da un amico comune, dunque, Beebe e Barton raggiunsero un accordo e la divisione delle spese, portando all’effettiva realizzazione dello strano veicolo entro l’inizio dell’anno successivo, dopo il la fusione e seconda colata dell’acciaio per un errore trascurabile nel calcolo del peso che l’aveva portato, sfortunatamente, ad essere semplicemente troppo ponderoso per qualsiasi argano navale. Entro maggio dell’anno successivo, quindi, il dispositivo poteva dirsi pronto ed a seguito di alcune prove tecniche, i due scelsero di fare una prima seria immersione alla profondità di 245 metri…

Leggi tutto

L’unica ragione per cui non esistono i pancake volanti

Durante il primo terzo degli anni ’30, il giovane ingegnere elettrico del Kansas Charles H. Zimmerman con già una carriera alle spalle nella progettazione di tunnel del vento per il National Advisory Committee for Aeronautics (quella che sarebbe diventata, un giorno, la NASA) era un uomo con una visione ben precisa, e questa visione era rappresentata dal prototipico disco volante. Non che fosse provenuto da un diverso pianeta, tuttavia, bensì controllato da un pilota di nazionalità rigorosamente americana, intento a proteggere, o in qualche modo espandere, i confini del possibile immanente. E sebbene tale oggetto del pensiero fosse destinato ad attirare qualche sguardo di perplessità, giungendo a guadagnarsi l’appellativo di pancake (frittella) o flapjack (barretta/galletta ai cereali) volante, tale insolito aeromobile sarebbe stato un giorno non troppo distante realmente costruito, complice l’inasprirsi di un conflitto globale che avrebbe reso i più alti vertici militari aperti ad ogni idea & suggerimento, non importa quanto folli potessero sembrare inizialmente. Ed almeno sulla carta, il futuro Vought V-173, inserito non a caso nel sistema di numerazione della stessa compagnia responsabile per il caccia di grande successo F4U Corsair, di stranezze ne aveva molte: prima fra tutte, la completa assenza di ali in senso letterale, dato che nei fatti, l’intera struttura del velivolo sarebbe stata responsabile di generare l’essenziale portanza. Grazie a un’intuizione assolutamente geniale, avuta probabilmente da Zimmerman durante i suoi studi approfonditi del flusso aerodinamico latente, relativa al fatto che quest’ultimo venisse costantemente modificato, e di frequente compromesso, dall’inevitabile generarsi di vortici al di sotto delle carlinghe di tipo convenzionale. Che cosa sarebbe successo, dunque, egli si chiese, se la coppia di eliche di un aereo bimotore fosse stata disposta in maniera tale da spingere via un simile orpello, liberando in questo modo le più segrete potenzialità del mezzo? Giungere a scoprirlo e dimostrarlo, naturalmente, non fu facile e l’avrebbe infine condotto, nel 1937, a lasciare il suo posto sicuro nei laboratori di Langley per spostarsi a Long Island presso gli uffici della Vought Aircraft Division, dove finalmente, gradualmente, il suo sogno si sarebbe trasformato in incredibile realtà. Non prima di aver dimostrato, tuttavia, tramite la costruzione di un modellino a propulsione elettrica, come il fattore d’efficienza del suo velivolo potesse trarre un improbabile beneficio dal valore d’attrito sviluppato contro il passaggio dell’aria, dimostrato nelle prove matematiche come proporzionale al coefficiente di portanza e direttamente inverso alle proporzioni delle ali. Tale fattore venne quindi definito in gergo “FOO” ed avrebbe confermato come, in ultima analisi, l’assenza del più grande elemento ingegneristico ispirato dalla natura (degli uccelli) fosse dopotutto sopravvalutato, e addirittura superabile mediante l’applicazione di particolari artifici…

Leggi tutto