Nuovi modi per scendere dai grattacieli di Dubai

Dubai Dream Jump

Senti il vento che ti soffia nei capelli, mentre lo sguardo vaga rapido sul panorama. Non sei mai stato tanto attento in vita tua. Sopra la Princess Tower, sopra la tower, mamma mia. E quell’arbusto geometrico che si protende verso il mare! Vederlo con i propri occhi, da un’altezza di circa 400 metri, fa una certa impressione. Perché non c’è proprio nulla di naturalistico, nell’arcipelago ingegnerizzato di Palm Jumeirah, il primo e più piccolo dei tre progetti di recupero dal mare che dal 2001 hanno iniziato ad ergersi orizzontalmente (in fondo, sono alberi) all’interno del Golfo Persico, stagliandosi con il loro color sabbia sullo sfondo dell’Oceano Indiano. Un’ipotesi di crescita ed investimento così profondamente…Caratteristica della città di Dubai…Dove tutto sembra qualche volta possibile, persino l’irragionevole. E salire sulla cima di un palazzo, qualche volta, non comporta il riutilizzo successivo degli stessi metodi col fine di tornare giù. Bensì un approccio radicalmente differente, che presuppone una mancanza di vertigini e l’appartenenza a una specifica cultura, quella, naturalmente giovane, dell’arte verticale del BASE Jumping. O almeno, questo è il messaggio che ti sembra di aver metabolizzato, al termine del corso accelerato, condotto con gli istruttori della Skydive Dubai, una delle poche scuole al mondo che si specializzano nel divulgare questa strana disciplina. Un rombo distante, alzi gli occhi per notare il transito di un piccolo jet, l’aereo, assai probabilmente, di qualche magnate del petrolio in viaggio verso le città di Doha o di Muscat. Chi ricorda, giunti tanto in alto, i quattro punti cardinali? E perpendicolarmente sotto quella macchia di colore nell’azzurro cielo, in posizione protetta dalle onde per l’effetto della “chioma” della palma, campeggiano due cose totalmente differenti: 1 – La marina, un porticciolo, ad uso rigorosamente d’intrattenimento (ma ciò non vale in questi luoghi, forse, per ogni singola cosa?) In cui yacht e motoscafi attendono pazientemente che ritorni il loro proprietario, per l’attimo esaltante, di nuovo ripetuto, di provare l’entusiasmo mediano di un balzo in mezzo ai flutti scintillanti. (Oh, quanto vorresti, in un certo senso, essere laggiù…) 2 – Un piccolo aeroporto, con accanto il capannone che conosci fin troppo bene: qualche aula, una potente capsula del vento o due, dove fluttuare virtualmente come se la gravità ti avesse in pugno per qualche estatico minuto. Nient’altro che la sede, in effetti, del tuo istituto di educazione post-laurea delle ultime settimane, dove hai appreso tutto quello che serviva per trovarti qui, adesso, e partecipare all’esperienza irripetibile del cosiddetto Dream Jump.
“È molto semplice, studente. Ci serve sangue fresco.” Pare ancora di sentire la sua voce: “Lo vedi quello? Si, il palazzo alto con la cupola sulla sua cima. In questo momento ti trovi all’ombra del secondo edificio più alto degli Emirati Arabi, misurante la metà esatta della torre Burj Khalifa. Ecco, non farti strane idee. Quella lì, purtroppo, è off-limits. Ma in prossimità della cima della sua sorella minore, che è pur sempre l’edificio residenziale più alto al mondo, di qui a qualche mese sarà collocata una passerella. E dalla passerella correrà un filo. Sarà teso come una corda di violino ed ancorato…” A quel punto, l’istruttore si alzò con un fluido movimento, spostandosi fino alla finestra più vicina. Quindi puntò il dito verso un punto, apparentemente arbitrario, del verde praticello antistante: “…Proprio lì. Allora, che te ne pare?” E se mai c’è stata un’occasione irripetibile di questa vita, allora eccola qui. Perché se è vero che gli sport estremi, a Dubai, sono di casa, in una sorta di ricerca delle relazioni pubbliche che ha scelto di fondarsi sul compiere dei gesti veri, correre pericoli, ma in modo affascinante…Non sono in certo in molti, i newcomers che ricevono l’invito a un’esperienza come questa, destinata a stabilire un certo numero di nuovi record del mondo. Così, mentre tu portavi a termine la serie di lanci prevista dal tuo corso, pagato rigorosamente in anticipo e per una somma, tutto sommato, non maggiore di quella di un paio di track days presso l’autodromo di Vallelunga, dalla cima di questa location prestigiosa era iniziata una vera e propria pioggia d’uomini, per nient’altro che le molte prove di un lancio collettivo che doveva esserci, ci sarebbe stato. Ed in effetti si è verificato, ormai da qualche tempo (era lo scorso aprile del 2015). Ma ecco che il tempo si esaurisce….Basta divagazioni. Ritorniamo a TE, saltatore dell’ultimo giorno, l’invitato speciale ucronico dell’intero show!

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Come una padella se potesse cuocere il gelato

Thai ice pan

Qual’è il segreto di quest’uomo? L’individuo che sopra un piastra getta latte e cioccolato, poi percuote il tutto con la sua paletta fino a che…L’insieme, meravigliosamente, si trasforma in una dolce e splendida frittella. Ma non pronta da staccare: perché il freddo crea tensione sulla superficie, e l’aderenza, parimenti, si sviluppa tra le cose lisce e quelle fluide, se soltanto gli dai modo. Poco importa? Questo non è affatto un male. Anzi, crea l’origine di un piatto nuovo, in cui gustosi rotolini (per citare quel binomio già sentito) provengono dalle implicazioni stesse di un simile metodo, ormai esportato ai quattro angoli del globo, ma soltanto qui espletato fino alle sue estreme conseguenze. Siamo a Ko Phi Phi Don, la più grande delle sei isole che compongono uno degli arcipelaghi più amati dai turisti della Thailandia, dove ancora una volta si sta dando adito quella pratica realizzativa parecchio invitante, del gelato un tempo detto Chǎo xuěgāo (炒雪糕) ovvero, in cinese: saltato in padella, mentre in inglese stir-fried. Un termine che nel presente caso, diversamente dall’accezione trattata sui maggiori dizionari, non sottintende nessun tipo di frittura, ma bensì l’immersione degli ingredienti in un fitto strato di brina, creata grazie all’uso dell’azoto in bombola pronto per tutte le occasioni. Una sorta di pratica della brutale evoluzione: non c’è praticamente nulla, a questo mondo, che tritato e posto assieme a un qualche tipo di cremoso impasto, raffreddato ben oltre i -100 gradi centigradi, non si trasformi in un gelato. Per citare il motto a margine di un’istituzione simile statunitense: “Se può essere frullato, noi lo rendiamo un gelato.” L’unico limite è la fantasia, nonché per inciso, le contrapposte situazioni di partenza.
È la naturale differenza, profonda come quella tra culture poste all’altro capo dell’universo dei palati, tra il cibo da passeggio e quello che invece, per sua massima natura, nasce sulla strada e lì rimane, diramandosi dai carrettini con la bombola, i furgoni, le basi mobili di scaltri operatori commerciali. Noi dello Stivale, ad esempio, che del bar abbiamo fatto una struttura portante della nostra intera società fuori le mura abitative, abbiamo questa concezione per cui la merenda o lo spuntino vengono quasi sempre consumati nello stesso luogo in cui li acquistiamo, salvo un paio di eccezioni e tutto ciò che ruota attorno ad esse: la pizza al taglio e il cono gelato. Certe particolari alternative, di contro, vedi le caldarroste o lo zucchero filato, compaiono in contesti situazionali assai specifici, sempre più rari. Mentre basta rivolgere lo sguardo verso Oriente, per scrutare un mondo in cui qualsiasi viale, vicolo e/o piazzola, vengono percorsi dalla gente con le mani piene, di ogni sorta di delizia, di frittelle o dolci e patatine, alimenti stravaganti o piccole dolcezze della tradizione. Ce n’è letteralmente un po’ per tutti i gusti e le stagioni. Perché ovviamente, come in tutte le questioni alimentari, nulla ha un effetto maggiore sopra l’appetito che il variare da un estremo all’altro della temperatura ambientale, che in alternativa può concedere un sollievo che trascende la comune sazietà, estendendosi alla regolazione del calore nell’esofago, che pur stando in ombra, è collegato a tutto il resto. E chiede sempre gran soddisfazione, però come si dice, pure l’occhio vuole la sua parte e…

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Il pianto dell’oblungo vibro-sintetizzatore

Yaybahar

Resta strano, quel tipo di video che ti mostra un luogo affascinante, però solo dall’interno e unicamente per la cosa che c’è dentro. Yaybahar: da qualche parte sulla costa turca sorge questa torre ottagonale. È parte di un complesso, assai probabilmente, come uno chateau, il palazzo costruito da qualcuno. Forse un druido di passaggio. Oppure è sorta sopra le pendici di un dirupo, nel giro di una sola notte, oltre l’onda di marea e fra l’ombre di cipressi silenziosi. Chi può dirlo? C’è qualcosa di diverso, in questo luogo, come un senso di profonda aspettativa. Gli uccelli non si posano sopra l’alto tetto, i cervi stanno fuori la portata di quei muri. Anche se non vedono, ciò che invece adesso è chiaro. Si accendano le telecamere che inizia quel concerto. L’ultima solenne vibrazione.
La fantasia e l’inventiva di un artista come Görkem Şen, del resto, è adatta solamente per i nostri occhi di visitatori umani, sovrumani e tutti gli altri in grado di capire. E soprattutto, per le orecchie a punta tese da migliaia di chilometri, a udire virtualmente un tale canto melodioso, senza veri equivalenti nell’intero mondo naturale. Che ci ricorda il vento, però è più veloce di un ciclone. Che riproduce un po’ le onde, ma di un mare… Dal profondo sentimento, con milioni di meduse variopinte a far da chiavi di violino. Sinestetico è il principio, ingegnosa la sua esecuzione. Nebulosa, la funzione. Simili suoni variabilmente discordi, di sicuro, non sfigurerebbero in un tempio tibetano, tra gli altri mandala cosmici, l’evanescente mappa del creato. Tracciati nella sabbia, per svanire, come niente fosse, all’ultimo eco di un simile concerto d’accompagnamento.
Certo, c’è un motivo se da molti anni a questa parte, la gente non inventa nuovi strumenti musicali. Anzi, due. Il primo è quello innato, del modo in cui funziona e agisce la Tecnologia. Tutto si trasforma, col procedere del tempo, e tendenzialmente perde la sua forma materiale. Nell’epoca in cui è possibile mostrare facilmente, sullo schermo di un computer, dinosauri su comete millenarie, o alieni che camminano tra stolidi bovini, perché mai dovremmo ancor produrre il suono primordiale, da metallo, pelli d’animale oppure legno lavorato dai liutai? È molto meglio, RI-produrlo migliorato, in senso digital, sfruttando quel potere che è SIMULAZIONE. Esistono, probabilmente, due persone, forse tre, che udendo il ritmo cadenzato da uno Stradivari Vero, possono affermare con sincerità: “Ah, si sente differenza, anche se manca la potenza!” Per gli altri, noi comuni esseri umani, perché mai affannarsi…Tanto vale, battere sulla tastiera luminosa e mettersi le cuffie del disc jockey, per guidare suoni senza una vera ragione d’esistenza, fino a diecimila decibel d’imponenza. Analogico: phuew! Il passato, giusto?
Di sicuro non è il nostro presente, visto che la blogosfera concorda sul fatto che tutto quello che ricorda lo Yaybahar, è l’effetto auditivo di un “comune” sintetizzatore informatico. Ma il futuro, chi lo sa! Verrà forse un giorno, forse-forse non lontano, in cui la musica sarà finita. Esaurita, kaput. Molto prima del petrolio, dell’uranio, addirittura del gas elio, l’eccesiva saturazione di melodie, endemicamente tutte uguali, ci farà stancare di questa sublime forma d’arte, antica quanto il primo colpo di un sassetto, dato da una protoscimmia sopra il tronco cavo. Tutti quei tamburi, quelle trombe, le arpe ed i violini, gli alti e larghi o bassi pianoforti, gli arpiscordi, i flauti dritti, di traverso e all’incontrario, allora, non saranno che ingombranti orpelli da tenere in umide cantine.
I computer sanno fare molte cose. Ma tra queste, non figura l’apertura di sentieri nuovi…

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Il re volante della dama turca

Dama Turca

Una discendenza insigne, l’alto copricapo e un sigillo di giada. Ma il vero potere non era sul trono di Luoyang. “Finché avrò in pugno il mio falcione a tridente e la Lepre Rossa come cavallo, nessuno potrà mai catturare il grande e invincibile Lu Bu” La storia del mondo, da Oriente a Occidente, è piena di condottieri straordinariamente valorosi ed al tempo stesso, per qualche ragione ineffabile, tragicamente arroganti. Quando nel 192 d.C, con la dinastia Han ormai prossima alla caduta e un cambio di capitale alle spalle, il grande generale si ribellò contro il suo secondo padre adottivo Dong Zhuo, cancelliere e tutore del giovane Imperatore, non lo fece per una precisa mossa strategica, ma per l’amore di una giovane donna. Il nuovo ordine costituito della Cina, con a capo effettivo il ministro dell’interno Wang Yun, sarebbe durato appena due mesi, a causa di decisioni amministrative imprudenti e campagne spietate contro i vecchi nemici. Con il nuovo seggio del potere, Chang’an, ormai invaso dagli armigeri sanguinari delle regioni del nord, e quello precedente ormai in rovina, senza truppe fedeli rimaste al suo fianco, Lu Bu non si sarebbe mai perso d’animo. Con la moglie Diao Chan al seguito, la spada e il celebre destriero, che si diceva potesse correre veloce per 1000 miglia, avrebbe imperversato ancora a lungo attraverso gli anni turbolenti dell’epoca dei Tre Regni. Trasformatosi in una tigre senza morale né il senso della misura, causò innumerevoli battaglie, tradì tutto e tutti, distrusse paesi ed interi regni. Aveva, nel suo seguito, un’eccezionale consigliere: il sapiente Chen Gong. Non lo ascoltava praticamente mai. Un errore che fra tutti, alla fine, gli sarebbe stato fatale.
Dev’esserci un qualche tipo di equilibrio, tra la mente ed il braccio, chi comanda e chi invece comprende i limiti delle situazioni. Questa è senz’altro la lezione principale di ogni gioco strategico davvero degno di questo nome. Negli scacchi ci sono pedine formidabili, in grado di rovesciare l’andamento di un’intera battaglia. Ma persino loro non sono nulla, al confronto della mano di colui che le muove, degli occhi che vedono, della mente pensante dei giocatori. Considerate il diamante, una pietra talmente comune che viene impiegata in diversi campi. Nell’industria pesante, non è insolito utilizzare attrezzi da taglio sinterizzati con la polvere di tale elemento, il tipico frutto dei depositi di kimberlite e lamproite sottoposti alla pressione termica di un vulcano. Eppure una sola di queste pietruzze, quando appropriatamente lavorata e montata sopra un gioiello, può valere quanto una casa e tutto quello che c’è dentro. Come l’arma di un grande guerriero che può essere valida, se adeguatamente guidata. Oppure un semplice attrezzo da lavoro, dotato di ben poca nobiltà.
I sassetti manovrati da questi due signori di etnia curda non sono nulla, all’apparenza. Eppure rappresentano, grazie allo strumento della fantasia, eserciti in guerra, torri d’assedio e castelli, avviluppati dal turbine distruttivo del caos belligerante. Il giocatore di sinistra arranca e le perde quasi tutte, finché all’improvviso, l’ultima non diventa…Un diamante!

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