La nobile arte di grugnire ai vermi

Worm Grunting

Si potrebbe anche comprendere l’errore di chi dovesse pensare in un primo momento, osservando all’opera l’esperto cacciatore di lombrichi della Florida, Gary Revell, che il suono da lui emesso sia una sorta di prova del ventriloquo, oppure il richiamo di un maiale selvatico di passaggio. L’espressione concentrata, la posizione inginocchiata sul terreno, gli occhi che percorrono con attenzione il suolo circostante, alla ricerca del più piccolo, fra tutti gli animali che possano dirsi essenziali alla nostra sopravvivenza. Mentre le mani, operano con un metodo particolare… Vermi. Esseri viventi che preparano il suolo, nella loro costante ricerca di cibo, creando l’humus e tracciandovi milioni di minuscoli canali, all’interno dei quali possono passare l’acqua e l’aria provenienti dalla superficie. E uomini: quanto spesso s’incontrano, nella realtà dei fatti? Guarda. Sussiste nella realtà dei fatti questa improbabile condizione, per cui non importa quanto siano numerosi i primi, brulicanti sotto alla porosa superficie degli ambienti naturali; nessuno, tra i secondi, riuscirà a sentirli né a vederli con i propri occhi. Finché all’improvviso, a seguito di un imprevisto o lo spavento di un secondo, un certo numero di appartenenti alla genìa strisciante sotterranea (non si tratta mai, di uno oppure due) decidono di mettere la testa al di fuori dell’opprimente protezione della Madre Terra, e finiscono generalmente molto, molto male. Perché servano allo scopo, soprattutto se serviti in acqua di fiume o di lago, appesi a un amo poco prima di passare a miglior vita. Il tipico verme del Sud-Est degli Stati Uniti, dove opera ormai da molte decadi Gary Revell, non ha quasi nulla a che vedere con la sua tipica controparte europea, per non parlare di quegli striminziti anellidi che popolano i mari d’erba del distante settentrione. Il Diplocardia mississippiensis è una creatura spessa, lunga e resiliente, con fino a 12 cuori grandi come la capocchia di uno spillo. Non esiste probabilmente, in tutto il mondo civile, un’esca più efficace e duratura, in grado di resistere finché non si è raggiunto quello stato assai desiderabile (per il suo carnefice) ed altrettanto problematico (per il pesce) di essere soltanto parzialmente digerito e poi smaltito, assieme al resto del contenuto dello stomaco del nuotatore.
Così, quanto può valere un secchio di dimensioni medie, pieno di questi abitanti del profondo, laboriosamente raccolto grazie alla messa in opera di mezzi vecchi almeno quanto i nostri bisnonni? Il mercato può variare, ma difficilmente, anche nei periodi peggiori della stagione meno pescosa, si è mai scesi sotto 30-35 dollari. Il che vuol dire, tradotto grazie al senso pratico, che in effetti si può vivere di soli vermi. Se si è sufficientemente bravi. E Revell, si viene indotti a pensare dai numerosi video disponibili sulla sua opera, è praticamente…Il migliore. Il suono da lui emesso durante l’opera di procura, che in gergo viene definito con il termine grunting (letteralmente – grugnito) non è in effetti un prodotto del suo apparato fonatorio, ma viene realizzato tramite l’incontro tra due specifici attrezzi di lavoro: lo staub, un’asticella di legno piantata nel terreno, ed un pezzo piatto di metallo detto rooping iron, sorprendentemente del tutto liscio. Strofinando energicamente tali due elementi, l’esperto grunter riesce a creare una melodia dissonante udibile anche a 100 metri di distanza, e che soprattutto ha la caratteristica, grazie al posizionamento interrato della componente sottostante, di riuscire ad utilizzare il suolo stesso come cassa di risonanza, propagandosi a una considerevole profondità. Ora, come ci insegna la scienza, i vermi non hanno orecchie e non possono percepire i suoni. Eppure, esattamente come avviene per il cobra reale che segue con la testa il flauto durante lo spettacolo del suo domatore, non perché richiamato dalla musica, ma per difendersi in qualche maniera da un tale becco prominente, qui  c’è un fattore addizionale che richiama gli striscianti del profondo. E si tratta…Serve dirlo? Delle vibrazioni.

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È meglio un’auto vera con ruote di ghiaccio, o il suo contrario?

Ice Wheel Car

Viene il momento nella vita di un’azienda vecchia e prestigiosa, in cui gli addetti al vertice realizzano come seguire la strada della sobrietà stilistica, fondata sul prestigio inerente ed esposta mediante una dialettica puramente oggettiva, non sia che una scelta fra tante, ed anzi forse, nell’epoca del web selvaggio, la più superata e inefficace  fra le strategie pubblicitarie. Il 2015 è stato un anno estremamente significativo da questo punto di vista, con molti grandi nomi dell’automotive che si sono approcciati, nei modi più fantasiosi, ad alcuni dei temi più tecnologicamente stravaganti del momento. Abbiamo così avuto modo di apprezzare sui nostri schermi: mezzi anfibi, strani aeromobili, robot che impugnano manubri o volanti… Ma forse ciò che veramente non ci aspettavamo, fra tutte le sorprese del web virale, è stata la completa trasformazione comunicativa messa in atto dalla Lexus, il marchio di lusso della Toyota da sempre associato ad imponenti nomi tout court come BMW o Mercedes, e che in quanto tale, si considerava seria e inamovibile quanto un macigno semi-sepolto tra la torba di palude. Finché, un bel giorno. Non è certamente possibile, dal di fuori, comprendere cosa sia avvenuto nella filiale inglese che si sta occupando dei loro principali exploit comunicativi digitali ormai da qualche tempo, né se il cambio di rotta sia stato indotto da un preciso ordine dall’alto, piuttosto che originarsi spontaneamente dalla meritoria acquisizione di un maggiore grado d’autonomia. Certo è che nessuno, fino a qualche tempo fa, avrebbe mai pensato di scrivere questo: il nuovo SUV compatto ibrido della Lexus, all’anonimo appellativo di NX, ha pubblicamente ricevuto un completo cambio di pneumatici. Che non sono gomme, bensì ghiaccioli.
È un qualcosa di così straordinariamente, gloriosamente invernale. Mentre tutti, sopratutto chi fra noi vive in campagna o a quote elevate, iniziano a preoccuparsi dell’esigenza di caricare le catene nel portabagagli, ripassando a mente i pochi ma fondamentali accorgimenti da adottare per la guida in caso d’improvvise nevicate (il primo fra i quali: non uscire in city car) loro si entusiasmano a mostrarci come un’auto davvero ben costruita possa non soltanto guidare su di una superficie dichiaratamente scivolosa, ma incorporarla nello stesso battistrada che utilizza per percorrere un tragitto definito. Ruote, in parole povere, ruote esattamente come il disco del mattino. Costruite, con meravigliosa attenzione ai dettagli, grazie all’aiuto di alcuni dei principali specialisti londinesi del settore, gli esperti della Hamilton Ice Sculptors, operativi ormai da oltre 35 anni. Un gruppo di appena quattro maestri dello scalpello, assistiti da numerosi discepoli, che vanta nel proprio curriculum anche la costruzione di sculture in acqua congelata per importanti celebrità internazionali, ricevimenti politici e niente meno che la Royal Family d’Inghilterra. Il cui rappresentante selezionato per l’occasione specifica, in modo niente affatto casuale, è stato il più giovane membro della crew Jack Hackeny, amico dei proprietari padre/figlio Duncan e Jamie nonché apprendista erede di una significativa parte della loro capacità artigiana. Che compare in prima persona soltanto per un attimo nel video reveal delle stupende ruote. Mentre si preoccupa di spiegarci meglio l’intera questione, anche da un punto di vista maggiormente tecnico, nel più recente segmento How the Lexus NX ice wheels were made.

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Chi sta scalando i monumenti più famosi al mondo

Redemeer On the Roofs

“Vedi Vitaliy, ci sta chiamando.” Sulla cima del Corcovado, il massiccio sito nel centro di Rio de Janeiro, due insoliti turisti russi alzano lo sguardo verso il Cristo Redentore. Come da programma, nessuno sembra prestargli un’eccessiva attenzione, con una buona metà dei presenti intenti ad apprezzare il panorama, la rimanenza è concentrata sulle due scimmiette intente in una zuffa per il cibo. Nonostante l’importanza di questo luogo, i due individui sembrano muoversi liberamente. Vestiti in abiti scuri e coprenti anche se fa caldo, con tanto di passamontagna e telecamere montate sul cappello, dei grossi zaini al seguito dal contenuto sconosciuto. Non è difficile comprendere perché l’azione si svolgesse nel corso della scorsa estate, qualche tempo prima che i recenti eventi causassero un drastico incremento dei controlli presso i siti frequentati dal turismo internazionale. E allora si pensava, come per certi versi ancora adesso, chi mai vorrebbe nuocere al Brasile? Un paese dell’America Meridionale, multietnico, a prevalenza della classe media, politicamente indipendente dalle principali fazioni dell’odierna instabilità internazionale. Non c’era del resto alcun intento deleterio, nell’impresa dei due esponenti del gruppo operativo/fotografico On the Roofs, solamente il desiderio di lasciare il segno su Internet, mostrando al mondo un qualcosa di potenzialmente nuovo. Almeno, nel panorama scelto per il suo ambito divulgativo, che è stato convenzionalmente collocato, a torto o a ragione, presso quella branca del freerunning (in Europa, parkour) che sconfina talvolta nell’urbex; ovvero, l’esplorazione dei luoghi dismessi o abbandonati. Talvolta! Di sicuro, non in quel preciso caso. In cui l’obiettivo dell’exploit di alpinismo artificiale, per una scelta potenzialmente criticabile ma di sicuro in grado di attirare l’attenzione, era la celebre statua in stile Art Déco dello scultore francese Paul Landowski, completata nel 1931 e che da allora costituisce il simbolo di un intero paese nonché settima meraviglia del mondo moderno. Considerate, ad ogni modo, come la struttura della stessa fosse stata realizzata all’epoca in pietra saponaria e cemento rinforzato, non metallo come la statua americana della Libertà, risultando dunque naturalmente impervia ad ogni tipo d’usura o danneggiamento. Difficilmente, dunque, la sua struttura avrebbe potuto riportare danni per questa innegabile follia operativa.
Ciò che resta di davvero grave, dunque, è soltanto il potenziale, nonché certamente comprensibile, senso d’offesa collettiva alla vista di qualcuno, chiunque egli sia, che tenta di porsi abusivamente al di sopra di un qualcosa d’innegabilmente sacro, anche nel senso meno religioso del termine. Eppure, non è forse lo scopo dell’arte, irrompere oltre ogni convenzione… Per la sua importanza estetica, per l’onnipresenza nei libri di geografia, per le riproduzioni in scala vendute presso innumerevoli banchi di souvenir: questo è certamente un luogo di culto, per chi vi si reca con l’ottica di un vero e proprio pellegrinaggio, ma ancora prima, un monumento alla cultura. Come in un certo senso, può definirsi ogni punto di riferimento costruito dall’uomo. Vanno giustificati, dunque, questi anti-eroi arrampicatori delle occulte circostanze? Quasi certamente, no.

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Le tre case delle bambole più preziose al mondo

Astolat Dollhouse

Era giovane, bionda, attraente e facoltosa. Mangiava senza mai ingrassare. La sua ricchezza proveniva dal petrolio, ma non nel senso che si potrebbe tendere a pensare; aveva l’automobile, l’aeroplano, la villa con piscina, il cavallo pezzato, il castello delle fate, almeno due dozzine di cani, un guardaroba senza limiti nello spazio quantistico della realtà. Aveva fatto svolto innumerevoli mestieri, tutti in qualche modo affascinanti e significativi: l’ereditiera (mi pare giusto) la stilista, la vigilessa del fuoco, la poliziotta, la veterinaria, persino l’astronauta. Eppure, per qualche impercettibile, indefinibile ragione, la sua vita a volte gli sembrava in qualche modo, come dire… Finta. A cominciare dall’eterno fidanzato, col suo fisico statuario, sempre galante e pronto a seguirla nelle sue follie più assurde (come quella volta in cui interpretò il principe azzurro, per un vezzo transitorio di lei) eppure privo di una personalità complessa, incapace d’imporsi, in qualsivoglia minimo dettaglio. Qualcuna avrebbe potuto definirlo, non senza un vago tono derisorio, lo stereotipico “bel bambolotto”. E tu lo sai, quanta ragione avrebbe avuto, Bella B.
Il motivo per cui la bambola più popolare e diffusa dell’intero mondo occidentale e oltre, amata alla follia da chi ce l’ha, follemente desiderata dalle bimbe temporaneamente disagiate, o ancora peggio, povere, potrebbe provare un vago senso d’inadeguatezza, va rintracciata proprio nell’essenza del suo patrimonio immobiliare, tutto composto da quell’unico, onnipresente materiale: la plastica. Che di per se non mostra alcuna debolezza strutturale, quando si applica in un mondo abitato da figure antropomorfe alte 11,5 o 12 centimetri. Anzi, se noi stessi umani avessimo tali misure, probabilmente il materiale proveniente da sostanze organiche polimerizzate lo useremmo in ogni cosa e ancor di più di adesso, a partire dal settore edile. Ma la vita dei giocattoli, si sa, è segnata dal supremo desiderio. E del resto la versatile fashion doll potrebbe anche aver assistito, nel corso della sua ultra-sessantenne vita, allo spettacolo di ciò che possa effettivamente diventare una perfetta casa della sua misura, dalle mura in rame e cartapesta, con divani di stoffa e realmente imbottiti, le armature negli androni in f-e-r-r-o, armadi di legno, l’argenteria d’argento e per non parlar della gioielleria, doverosamente e per la prima volta, ingioiellata. Meraviglie senza tempo o limiti di contesto, costruite attraverso gli anni come fossero una sorta di ossessione, da personalità degne di essere iscritte a pieno titolo nell’albo dell’arte. Il mondo delle case delle bambole, una volta in prossimità della vetta, si trasforma in un’ambiente notevolmente competitivo, all’interno del quale tutto viene valutato, incasellato, messo in ordine per importanza. E sulla vetta di poche, straordinarie alternative, risiede indubbiamente il capolavoro di Elaine Diehl del Colorado, miniaturista che vi lavorò alacremente per un periodo di 13 anni, dal 1974 al 1987, includendo al suo interno l’opera di innumerevoli abili e ben stipendiati colleghi. Il suo nome: Astolat Dollhouse Castle. Il suo valore: 8 milioni e mezzo di dollari, alla stima più conservativa.

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