Secondo uno schema di credenze interreligioso, che coinvolge Buddhismo, Induismo e Jainismo, l’intero Universo e la stessa volta celeste sono supportati da un particolare rilievo montuoso, situato al centro esatto del nostro pianeta. Alto chilometri e circondato, in modo facilmente apprezzabile, dalla luce disparata di due soli distinti, le stelle della notte e i pianeti, il monte Meru avrebbe quattro facciate, rispettivamente d’oro, cristallo, lapislazzuli e rubino. Il più alto dei suoi cinque picchi, semi-nascosto dalle nubi eterne, agisce come trono del Dharma e residenza, a seconda delle versioni, di Buddha, Shiva e/o Mahavira, il 24° ed ultimo Tirthankara, ovvero discepolo del grande Insegnamento jainista. Dopo lunghe decadi d’analisi e studi filologici, dunque, gli antropologi nostri contemporanei sembrerebbero aver raggiunto la conclusione che un luogo simile possa storicamente trovare collocazione in terra d’Himalaya, presso l’alta montagna sacra di Kailash, nella regione di Ngari (6.638 metri). Ma gli abitanti della parte orientale dell’isola di Java, seguaci di un culto induista affine a quello di Bali, ma con ancora più elementi arcaici ed animisti, non sembrerebbero nutrire alcun tipo di dubbio. Possedendo la chiara testimonianza, nei loro testi culturali scritti durante l’epoca dell’impero perduto di Majapahit (1293-1527) di come i divini Brahma e Vishnu stessi, volendo aiutare l’umanità, avessero collocato un imponente massiccio entro le coste della loro particolare terra emersa, come un perno piantato fino alle remote profondità del pianeta. Chiaramente individuato, ed esplicitamente identificato da tempo immemore, con il nome altamente significativo di monte Semeru, capace di costituire con i suoi 3.676 metri il punto più alto di tutta l’isola. Ma anche punto focale, nonché maggiormente riconoscibile, di una delle zone geologicamente più insolite e caratteristiche note all’uomo, oggi denominata con il termine omni-comprensivo di Parco Naturale di Bromo Tengger Semeru, con l’aggiunta dei due termini riferiti rispettivamente alla più celebre e la più antica, nonché ormai sparita, di queste imponenti ed altrettanto notevoli montagne. Quel presumibilmente gigantesco monte Tengger, che in tempi immemori ed a seguito di un qualche tipo d’eruzione catastrofica, andò incontro alla distruzione pressoché totale, lasciando soltanto un’enorme caldera popolata da cinque ulteriori massicci (riuscite già a intravedere uno schema?) che all’ombra del sacro Semeru includono Bromo (2,329 m), Batok (2,470 m), Kursi (2,581 m), Watangan (2,661 m) e Widodaren (2,650 m). Mentre l’interno della valle stessa, circondata da un’alta parete capace di farla assomigliare a un cratere marziano, risulta ricolma di sedimenti tanti fini da renderla un letterale mare di sabbia, laboriosamente percorso quasi ogni giorno da cavalli e mezzi fuoristrada, a seconda delle preferenze individuali. Questo perché un simile luogo, inevitabilmente, ha perso negli anni le sue connotazioni puramente sacrali trasformandosi in una delle principali attrazioni turistiche dell’isola, stranamente collocabile a metà tra l’escursionismo avventuroso e la visita guidata con tanto di punti panoramici, guide specializzate e negozi di souvenir. Non che tutto ciò possa del resto inficiare l’intonso e profondo fascino, espresso da un insieme di caratteristiche esteriori, ecologiche e culturali che semplicemente esulano dall’esperienza pregressa della maggior parte dei visitatori. Con la sua zona sub-montana simile a una giungla tropicale, popolata da numerose varietà di piante tra cui 225 tipologie diverse d’orchidee, che lascia il posto all’altitudine di 1.500 metri a specie più sporadiche dal tronco legnoso come la cemara (Casuarina junghuhniana), il mentinggi gunung (Vaccinium varingifolium) e il kemlandingan gunung (Albizia lophantha). Ma è soltanto al raggiungimento dell’area sub-alpina, alle altitudini superiori ai 2.400 metri, che gli scalatori potranno avvicinarsi alla serenità intonsa di un vero e proprio Nirvana vegetale, con fiori ed arbusti sporadici che lasciano il posto, gradualmente, ad un suolo brullo composto da pietre d’arenaria. E circondato da frequenti vapori con il caratteristico odore di uova marce poiché, piccolo dettaglio che in molti mancano di menzionare è che ciascun singolo picco di questo memorabile complesso è sostanzialmente un vulcano. E cinque di essi incluso l’enorme Semeru, con l’unica saliente esclusione del monte Batok, risultano ancora rigorosamente e frequentemente attivi…
Asia
La scintillante pera a forma di campana che proviene dai frutteti dell’Asia meridionale
Negli ombrosi corridoi asfaltati che percorrono la giungla tropicale, rami bassi e appesantiti, che ricadono esponendo piccoli tesori, oblunghi ed odorosi dall’aspetto particolarmente distintivo. Sono i doni naturali della terra, che il sistema dei tre regni di animali, piante e minerale usano come moneta di scambio, perseguendo quello stato di equilibrio da cui trae l’origine il reciproco benessere dell’esistenza. Sono… Ovunque. Inclusa Internet, dove compaiono all’interno delle foto, stranamente appetitose, che compaiono nei gruppi Facebook e in mezzo alle pagine degli altri social network: “Ah, perfettamente deliziosi.” Oppure: “Che ricordo magnifico della mia infanzia! Da quando sono andato altrove per lavoro, non li ho più trovati.” E tutti sembrano riuscire a commentare quel sapore, tranne chi dall’altro lato dello schermo osserva, interrogandosi sull’effettiva provenienza di quel frutto dall’aspetto particolarmente insolito, nonostante il nome alquanto semplice, persino mondano. “Mela d’acqua” o “Mela di Cera” per quanto l’aspetto tenda a ricordare, più che altro, quello di una pera. E manchi d’appartenere, nella realtà dei fatti, all’una e l’altra categoria, rientrando piuttosto in un vasto genere dalla definizione scientifica di Syzygium, di piante appartenenti alla famiglia delle mirtacee i cui frutti rientrano piuttosto nel gruppo delle bacche. Essendo ragionevolmente privi, in altri termini, di una componente interna legnosa e/o scorza dura, ad ulteriore contributo delle proprie straordinarie qualità alimentari. Mentre viene consumato, generalmente crudo al prelievo diretto dall’albero, ma anche all’interno di notevoli marmellate, capaci di mantenere integre le sue presunte qualità benefiche ed anti-infiammatorie. Non che occorra giustificarsi mediante alcun tipo di finalità ayurvedica e medicinale, per voler mangiare il più possibile qualcosa di così attraente, nel suo naturale e lucente splendore nonché a quanto dicono, anche il gusto particolarmente rappresentativo. A patto, s’intende, di voler in qualche modo generalizzare, vista la straordinaria quantità di varianti, sia selvatiche che coltivate dall’uomo, che condividono lo stesso ampio areale d’appartenenza. A partire dalle rosse Syzygium malaccense, originarie della Malesia e spesso tra quelle maggiormente messe in mostra su Internet, causa il loro aspetto straordinariamente fotogenico e le dimensioni molto interessanti. Senza dimenticare le S. samarangense, una vista tipica dell’isola di Java e il resto dell’Indonesia, dalla forma maggiormente tondeggiante e una colorazione tendente al verde pallido ma non meno invitante. E che dire invece delle S. cumini dalla grandezza approssimativa di un chicco d’uva, anche dette prugne di Malabar o Jambalar? Benché risulti opportuno specificare la maniera in cui, data la natura da sempre considerata utile all’umanità, molte specie di questa pianta siano appartenute al gruppo delle cosiddette “piante della canoa” trasportate in lungo e in largo durante l’antica diaspora polinesiana. Arrivando a comparire anche nelle isole Hawaii, in buona parte dell’Australia ed in epoca più recente, persino in Jamaica, dove sono alla base di un’industria fiorente con ottimi ritorni d’investimento lungo tutto il territorio nordamericano. Questo perché la maggior parte delle mele d’acqua, per loro implicita natura, appartengono a quel tipo di frutta tropicale particolarmente difficile all’esportazione, causa la tendenza a maturare presto ed attraversare altrettanto rapidamente il periodo ideale della consumazione, senza neppure prendere in considerazione l’inerente fragilità che si trova diametralmente all’opposto di un valido e sereno trasporto fino a destinazione. Ed è forse proprio per questo, che continua a costituire soltanto uno strano sogno, o lontano desiderio, per buona parte dei suoi molti ammiratori di provenienza europea…
La tronfia imponenza della rana che sognava di essere una tartaruga
È abbastanza ragionevole nella maggior parte dei casi, riuscire a riconoscere se non proprio l’animale, almeno l’area biologica di appartenenza di eventuali creature ritrovate durante gli scavi di preparazione di un cantiere, così come possiamo immaginare essersi aspettato di fare l’operaio cambogiano Lim Khyhong verso la fine dello scorso gennaio. Quando successivamente all’opera preparatoria della ruspa, si trovò al cospetto di qualcosa che molto difficilmente avrebbe potuto prevedere d’incontrare nel corso della sua tranquilla esistenza: tondo come un disco, grande come il suo palmo, gonfio come un palloncino, l’animale gracidante che sembrava avere la forma approssimativa di un rettile rimasto privo, per qualche bizzarra ragione, del guscio normalmente facente parte del suo bizzarro corpo. Completato da tozze zampe tridattili e uno sguardo… Uno sguardo che potremmo definire nettamente scocciato per essere stato preso in mano, in forza delle palpebre semi-abbassate, la bocca larga e rivolta all’ingiù ed il labro inferiore sporgente in avanti, quasi nell’accenno di una comica espressione imbronciata. Dando inizio a una legittima stagione del dubbio che avrebbe potuto estendersi anche per parecchi minuti ed ore, non fosse stato grazie allo spunto d’identificazione offerto all’improvviso dall’iniziativa canora del piccolo abitante, che dinnanzi al concentrato sguardo dei colleghi (come resistere a una tale distrazione?) scelse di mettersi soavemente a gracidare, con un suono che potremmo azzardarci a traslitterare come 呱呱, 呱呱 (guagua-guagua). Combinazione di fonemi ripetuti che chiunque, semplicemente chiunque risulta in genere capace d’identificare presso queste terre, dove si attribuisce senza esitazioni alla diffusa rana ungok o “del collo di bottiglia” come viene chiamata per la forma appuntita del suo muso, perfezionato dalla natura al fine di nutrirsi di formiche ed altri piccoli insetti che camminano nella profondità delle notti senza luna. Poiché nella maggior parte del tempo e fino alla stagione delle piogge e conseguenti accoppiamenti, l’animale in questione è solito vivere per l’appunto sotto terra, dove scava delle buche ben protette ove nascondersi e restare ben lontano da occhi indiscreti. Benché nel caso in cui una simile strategia dovesse rivelarsi inefficace, può fare ricorso anche a una diversa strategia d’autodifesa, che nelle fotografie diventate celebri all’inizio di quest’anno vendiamo attiva in tutta la sua spettacolare magnificenza: la rana, infatti, può riuscire ad aspirare copiose quantità d’aria e trattenere a lungo il fiato. Finché il suo intero corpo, piuttosto che i soli polmoni, si riempia di quella miscela di gas ossigenati valida a conferirgli VOLUME, ed in conseguenza di ciò, un’impressionante PRESENZA.
Ora, ciò è tutt’altro che raro nelle circostanze tipiche di questo territorio nazionale, soprattutto presso le regioni dell’entroterra dal clima relativamente più secco dove l’incontro soprattutto gastronomico con la specie chiamata scientificamente Glyphoglossus molossus risulta essere piuttosto frequente. Eppure c’era qualcosa, nell’ultima protagonista di una simile serie di memi o memes Internettiani, che sembrava renderla speciale nella sua diffusa e vagheggiante genia. Forse le proporzioni particolarmente “tonde” o magari il colorito grigiastro piuttosto che verde con occasionali macchie gialle, in questo caso nascosto da un sottile strato di terriccio che si era dimostrato in grado di aderire alla superficie porosa della sua pelle. Almeno finché una voce chiarificatrice, dagli abissi internazionali del vasto Web, non è sorta per fornire ottimi propositi d’identificazione…
Giunge dall’Asia il verme saltatore, che trasforma foglie morte in fondi di caffè
Rigogliosa foresta relativamente vergine, cercasi nel territorio temperato dell’American Midwest. Quella regione naturalmente equilibrata, ecologicamente tranquilla, dove flora e fauna sopravvivono senza particolari cambiamenti nei reciproci rapporti di correlazione fin dai tempi precedenti alla nostra venuta. O almeno, questo è quello che si dice. Poiché all’ombra dei faggi e degli olmi, degli ontani e degli aceri, qualcosa di spiacevole ha iniziato ad accadere. Proprio alla base degli alti tronchi, dove un tempo crescevano bassi cespugli ed erbe mediche, o attecchivano i virgulti delle prossime preziose ramificazioni, compare sempre più di frequente il suolo scarno e privo d’altri ornamenti, con soltanto qualche timido filo d’erba circondato dalla polvere dei cupi giorni odierni. Situazione, questa, motivata dalla persistenza di qualcuno che continua a esistere non visto, sotto la copertura delle foglie e sotto i suoi svariati centimetri di terra. Strisciando nell’oscurità e l’essenziale consapevolezza, come il Diavolo dei vangeli, di aver convinto l’intera umanità di essere un mero prodotto dell’immaginazione della gente.
Ma Amynthas agrestis giunto dalla Corea e il Giappone esiste davvero, sebbene sia diffusa l’abitudine di attribuirgli un’ampia varietà di nomi. Tra cui verme saltatore, verme serpente o Alabama jumper, terminologia particolarmente utilizzata quest’ultima dai pescatori dell’omonimo stato, per tutti quegli anellidi che si mostrano capaci di agitarsi più a lungo, riuscendo ad attirare verso l’amo i migliori tesori pinnuti delle profondità lacustri e/o fluviali. Sebbene stiamo parlando, nella realtà dei fatti, di creature appartenenti a una famiglia tassonomica nettamente distinta e piuttosto vasta, quella denominata Megascolecidae originaria dell’Asia Orientale e dell’Australia, con significative differenze morfologiche rispetto al tipico lombrico di provenienza europea, fino alla disposizione degli organi stessi all’interno del suo corpo tubolare. Esteriormente, quindi, l’animale presenta una lunghezza generalmente inferiore ma un corpo tozzo, con un vistoso clitellum bianco (ghiandola impiegata per la protezione delle uova) a un terzo della distanza dalla testa, che spicca sul colore rossastro di una forma per il resto ragionevolmente ordinaria. Mentre qualcosa di più nettamente diverso appare evidente nel momento in cui si tenta di afferrare, o in qualsiasi altro modo si disturba il verme: poiché piuttosto che reagire agitandosi o tentando di strisciare via, la specie in questione presenta la capacità di sobbalzare con violenti sussulti paragonabili a quelli di un serpente a sonagli, qualche volta lasciando dietro di se la coda e tentando letteralmente di terrorizzare la percepita minaccia cogliendola di sorpresa. Una reazione sottilmente inquietante che nei fatti anticipa la natura molto problematica di tali creature, capaci di rovinare in modo irrimediabile il sistema ecologico alla base della rigenerazione vegetativa. In forza della loro propensione alla voracità, per non parlare dell’indole aggressiva che gli permette di scacciare via letteralmente tutti gli altri tipi di verme, riservando solamente a loro stessi quell’intero spazio vivente che riusciva un tempo a perpetrare se stesso.
Poiché la propagazione del verme pazzo, in costante crescita nell’intera parte settentrionale degli Stati Uniti, può essere facilmente rilevata attraverso la presenza di un diverso tipo di terriccio, secco e di colore assai scuro, totalmente incapace di fornire nutrimento a qualsivoglia tipo di pianta. Il cui aspetto, convenzionalmente, è stato paragonato ai residui che fuoriescono dalla caffettiera, ogni qualvolta si procede per riporla prima dell’utilizzo successivo…