Il volo di quattro automobili da oltre due tonnelate

Humvee Drop

Non sono in molti i civili, soprattutto al di fuori dagli Stati Uniti, ad essersi messi al volante di un simile mastodonte: l’Hummer Vehicle o Humvee, tanto per usare la terminologia di quel mondo da cui è stato inizialmente progettato, con il preciso scopo di pattugliare i territori ostili o far muovere una squadra di fanteria da un capo all’altro del teatro operativo. Tutti coloro che hanno avuto una simile (s)fortuna, tuttavia, concorderanno indubbiamente in merito alla poca praticità del mezzo. Dico, avete mai provato ad avventurarvi in mezzo al traffico cittadino con un veicolo da 1,8 metri di larghezza (nella versione H3)? Per non parlare della sua versione per l’esercito, che ne misura ben 2,2. Sebbene ci sia un’indubbio effetto psicologico su chi ti guida a fianco, con conseguente guadagno quasi automatico dell’assoluta precedenza, nella maggior parte dei casi ciò significa trovarsi ad occupare ALMENO un’intera singola corsia, trovandosi precluso l’accesso a innumerevoli strade, persino tra quelle di scorrimento. E non affrontiamo poi, neanche per scherzo, la problematica inerente del parcheggio. Per queste ed altre valide ragioni, dunque, l’Hummer sia militare che civile andrebbe fatto precipitare da un aereo in corsa. Non (sol)tanto per farlo sparire dalla faccia della Terra, quanto allo scopo di accorciare i tempi del pendolarismo, ritrovarsi a percorrere il tragitto solamente in un particolare senso, con aumento esponenziale dei tempi medi di sopravvivenza per gli specchietti retrovisori sulla stessa carreggiata del fuoristrada preferito del buon vecchio Arnold (alias Mr. Terminator). Non per niente li chiamano “Heavy” Airdrops.
In un punto imprecisato del globo terrestre, ma assai probabilmente nel corso di un’operazione simulata sopra il territorio degli Stati Uniti, romba un tuono nella notte, anzi quattro: i potenti motori turbofan del Boeing C-17, uno degli aerei da trasporto di maggior successo nella storia dell’ingegneria aeronautica. Lanciato a circa un terzo della sua velocità massima (l’aereo può raggiungere gli 817 Km/h) sfrecciando clamorosamente all’altitudine relativamente contenuta di 600-800 piedi, il suo possente portellone posteriore si apre in modo cadenzato, lasciando penetrare un flusso d’aria di ritorno in grado di voltare facilmente un guanto. Il rumore si fa quasi assordante. Eppure, la sua stiva non è vuota, anzi, tutt’altro: seduti ai margini lungo una doppia fila di postazioni, vi sono circa 50 paracadutisti in uniforme, le ginocchia cautamente ripiegate e con i piedi in posizione diagonale. Questo, perché sanno fin troppo bene ciò che sta per verificarsi: quattro giganti in pallet, con gli pneumatici ben protetti dall’impatto con il suolo, già fremono dal desiderio di saltare. Saranno pronti ad aspettarli, perfettamente integri, là sotto.
La sequenza quasi surreale di questo rilascio del carico, perfettamente in linea con la scena culmine di un film di fantascienza o d’azione, rientra nei fatti nella prassi militare del LAPES, Low Altitude Parachute Extraction System, una tecnologia famosamente sfruttata per la prima volta nel 1968, per portare rifornimenti alle truppe alleate durante l’assedio della base militare Khe Sanh, nel contesto della lunga e sanguinosa guerra del Vietnam. Consiste di un approccio particolarmente funzionale ad uno degli anatemi peggiori per un pilota: lo spostamento, anche soltanto momentaneo, del carico di bordo, che potrebbe facilmente portare il velivolo in stallo. Proprio una problematica di questo tipo, dovuta all’inappropriato posizionamento dello stesso, fu ad esempio la causa dell’impressionante e ben documentato schianto nel 2013 di un 747 da trasporto a Bagram, poco dopo il decollo e presso una superstrada vicina all’aeroporto. Come liberarsi del peso di quattro autoveicoli per un totale di quasi 10 tonnellate, senza andare incontro a un fallimento catastrofico dell’assetto di volo? L’obiettivo è chiaro: occorre farlo molto, molto velocemente.

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Il parco giochi russo e la palestra costruiti coi rottami

Sloboda Park

Tra il diradarsi della nebbia mattutina, oltre i brutali palazzoni d’epoca sovietica e presso quella che sembrerebbe una piccola chiesa ortodossa in corso di restauro, la coppia di uomini parcheggiano la propria station wagon. Sono stanchi, forse un po’ affamati, di certo di nessuno dei due in uno stato apparente che si possa definire “ideale” per guidare. Lievemente inebriati, questa è l’espressione usata dalla maggior parte dei commenti al video, e quale stato migliore potrebbe mai esistere, per provare sulla propria pelle il risultato di una branca assai particolare dell’ingegneria un tempo tipica dell’Est Europa: la costruzione di luoghi un po’ raccogliticci in cui far correre la fantasia. Nonché il reimpiego, attraverso crismi costruttivi che parrebbero anch’essi in parte derivare dall’aver trangugiato una certa quantità di ottima vodka, delle cose vecchie per produrne alternative nuove. Approccio da cui proviene questo perfetto parco giochi, presso cui far conoscere ai bambini il vero significato dell’espressione “epoca spaziale”. Peccato che nel vasto cosmo, nessun addetto alla sicurezza possa sentirti urlare.
Siamo presso il centro abitato di Sloboda, nell’oblast di Tver, non poi così lontano dall’omonima città di oltre 400.000 abitanti, dove a quanto pare un certo Yuri Chistyakov (il cui nome compare nel blog English Russia, benché la provenienza del dato resti poco chiara) è riuscito a riassemblare alcuni rimasugli della fiorente industria agricola locale, tra le più importanti delle zone circostanti il fiume Volga, per costruire una serie di interessanti e potenzialmente problematici ausili allo svago, qui mostratici, con entusiasmo largamente immotivato, dai due cresciuti visitatori d’occasione. Di cui l’uno, quello al centro dell’inquadratura, sembra particolarmente pronto a mettersi in discussione, mentre l’amico più che altro preferisce limitarsi a ridere come una jena. Il che è comprensibile, del resto, vista la serie di bizzarre disavventure alle quali si trova ad assistere nel giro di pochi minuti. Si comincia dalla ruota orrendamente dondolante di un trattore, assicurata a quella che parrebbe configurarsi come una sorta di altalena colorata in modo variopinto, onde meglio ricordare un qualche tipo di astronave. Grande pneumatico, dai vistosi intagli, che si rivela inaspettatamente sufficiente a contenere una persona adulta, benché sia lecito esprimere un qualche dubbio sull’effettiva pulizia di un simile implemento, sottoposto quotidianamente a pioggia, muffa e umidità galoppante. Ma non c’è tempo di fermarsi a pensare, giacché la nostra amichevole cavia umana si è già messa ad armeggiare col secondo “gioco”, una minacciosa sedia sospesa fatta apparentemente con pezzi di trebbiatrice e non del tutto dissimile da uno strumento di tortura, che lui definisce con ironia: “degna del film dell’orrore Saw”. Se non fosse che l’arnese, agghindato come la postazione di comando di un ipotetico Gagarin o Leonov dei nostri tempi, presenta la dote inaspettata di poter girare liberamente lungo l’asse longitudinale, risultando in grado di effettuare in buona sostanza la simulazione realistica di un giro della morte. È non è chiaro quale fosse l’uso presunto del dispositivo, vista l’assenza di una qualsivoglia manopola o dispositivo di comando da parte di terzi, mentre del resto, il comportamento dell’oggetto con su il peso di un’individuo già cresciuto è alquanto preoccupante. Appare infatti subito chiaro come, allo stato attuale dei fatti, il peso della testa del giovane sia più che sufficiente a far capovolgere l’intero sedile, lasciando il suo occupante in una posizione tutt’altro che invidiabile. Bé, se non altro ciò è la prova che qualcuno si occupa di effettuare la manutenzione del dovuto: bloccati dalla ruggine, questi giochi sarebbero decisamente meno divertenti…O…Pericolosi!?
Dopo un tale trauma, per riprendersi, tutto ciò che gli restava da fare era un altro giro sulla ruota dondolante, però aspetta: c’era ancora un’altra splendida esperienza da provare, la versione russa dell’antica ruota vitruviana e leonardesca. In termini più moderni, una semplice applicazione del principio dell’aerotrim, l’effettivo giroscopio umano usato per addestrare gli astro- e cosmonauti, benché qui libero di muoversi soltanto in senso circolare, invece che verso un numero infinito di vettori. Così inscritto in detta forma, roteando vorticosamente, il corpo umano non dovrebbe faticare a scrollarsi via le redini della residua gravità, raggiungendo vette un tempo inesplorate di accrescimento fisico ed interiore. Questo, almeno, se si è sobri ovvero già dotati di un senso d’equilibrio valido allo scopo. Entrambe doti, a quanto pare, che sfuggono al qui presente operatore, che in breve tempo si ritrova in situazione comparabile a quella dell’odiato seggiolino.

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Il carro armato nella buca piena d’acqua e fango

Abrams in Mud

Ho quattro cervelli, otto braccia, ho sedici piedi ma nessuna gamba. Peso decine di migliaia di chili, la mia pelle è di ferro. Ho una lunga proboscide con un buco e mezzo, ma non mi serve per respirare. Un piccolo uomo, da dentro al mio guscio, vi preme dentro una pigna d’uranio. Io mi giro, punto il nemico, chiedo il permesso, quindi gli sparo, BAM. Carro da guerra, una vita difficile. Non complicata: fra tutti gli ausili alla guerra, nessuno trova un’applicazione più diretta della moderna cavalleria cingolata, che avanza verso un obiettivo in condizioni di relativa vulnerabilità. Ciascuno di questi mezzi è grande nonché rumoroso. Può essere facilmente identificato a partire dalla sua impronta radar, costituendo il bersaglio ideale per l’artiglieria o gli elicotteri, per non parlare della fanteria nemica. Come è stato ampiamente e costosamente dimostrato durante alcuni degli ultimi conflitti nel Medio Oriente, non importa quanto sia spessa la sua corazza né abile il suo comandante: in una situazione di conflitto urbano, persino il migliore di loro è letteralmente inerme dinnanzi ad un colpo fortunato. Può talvolta bastare il colpo di un antiquato lanciarazzi proveniente da un vicolo, magari ad opera di una milizia tutt’altro che disciplinata, per bloccare sul posto gli oltre sei milioni di dollari di materiél allo stato dell’arte di uno di questi veicoli, che poi è la stessa cosa che metterli definitivamente fuori gioco. Un carro bloccato, in condizioni di battaglia, va prima o poi abbandonato. Ed a quel punto, un equipaggio responsabile potrà fare una cosa soltanto: distruggerlo con cariche ad alto potenziale, affinché non ritorni di nuovo sul fronte di battaglia, però schierato dalla parte sbagliata. Nessuno vorrebbe trovarsi di fronte ad uno zombie-tank.
Anche per questo, nella progettazione dell’M1 Abrams, collaudato per la prima volta nel 1979, la mobilità è stata tenuta in altissima considerazione. Il mezzo in questione, che con le sue 55-62 tonnellate di peso (a seconda dell’allestimento) costituisce uno dei più pesanti della sua classe attualmente in servizio, è stato dotato di un sofisticato motore composito, in cui un meccanismo convenzionale a benzina riceve la spinta addizionale di una turbina a gas, per una spinta complessiva di 1500 cavalli. Per essere chiari, 500 in più di quelli della Bugatti Veyron, benché il rapporto peso-potenza, naturalmente, sia decisamente meno vantaggioso. O per meglio dire, condizionato dall’obiettivo finale dell’apparato: che nel caso del carro non è l’andar veloci, ma piuttosto, il procedere in modo costante. Sopra ed oltre i colli, nelle ripide valli e fin oltre le postazioni nemiche. Senza risentire eccessivamente di tutto quest’odio esplosivo, l’orizzontale pioggia d’implementi d’offesa tanto generosamente scagliati al suo maestoso indirizzo. E possibilmente, rispondendo al fuoco. Il che ci porta al nocciolo fondamentale della questione. Nel concetto stesso di linea del fronte di guerra, si deve immaginare la necessità di abbandonare le strade asfaltate. L’esercito come strumento storico, che nella sua forma più mobile marcia in un’ordinata colonna, raggiunto il nemico non può sfruttare nemmeno un decimo della sua potenza di fuoco, a meno che non pratichi l’essenziale manovra di schieramento. In sostanza, disporsi in un senso perpendicolare a quello precedente, per riprendere quindi l’avanzata, ma in condizioni diverse. A meno che non si tratti di un corpo d’armata particolarmente piccolo, dunque, o che ci si trovi all’interno della più grande e impossibile piazza del pianeta, soltanto un piccolo gruppo di (s)fortunati continuerà ad occupare quella tipologia di suolo che era stata precedentemente spianata ad uso veicolare, per di più trovandosi particolarmente esposto all’occhio degli armieri nemici. Tutti gli altri dovranno avanzare…Dove…Càpita. Il che può includere, a seconda del teatro di battaglia, foreste, paludi, deserti. Tutti luoghi in cui un automobilista responsabile, persino se alla guida del miglior fuoristrada sul mercato, si avventurerebbe soltanto con ottime ragioni, e per tratti davvero limitati. Considera! Gli imprevisti capitano. E se finisci bloccato nel fango, con un mezzo che pesa quanto una casa di piccole dimensioni, non sarà davvero facile tirarti fuori. Potranno, nei fatti, salvarti soltanto tre cose: un carro attrezzi (più carri attrezzi) dall’estrema possanza, un altro carro armato come te, o l’abilità di guida, se applicata in una condizione comunque recuperabile, ovvero una buca non troppo profonda, né eccessivamente sdrucciolevole. Qualcosa di simile, insomma, a quanto capitato a questo pilota americano, che durante un esercitazione non meglio definita, nel 2012, finiva dentro all’equivalente naturale del fossato del castello di Edinburgo. Cosa fare, dunque, se non dare gas! Ed altro gas, della turbina a gas, nel turbinìo cacofonico di un crescendo di sforzi erculei, nella speranza di non dover chiedere aiuto a qualcuno. Perché se una simile “svista” dovesse giungere fino alle orecchie dello stereotipico, spietato sergente…

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Steven Seagal dimostra l’aikido a 63 anni

Seagal Aikido

C’è pur sempre una ragione se vengono definite “arti” e non semplici tecniche o meri sistemi di combattimento, come si usa fare per gli approcci più moderni all’autodifesa: l’esperto seguace di una delle differenti vie marziali fiorite in Giappone o Cina all’inizio del secolo scorso, come del resto chi conosca le più antiche controparti, non si muove alla maniera di una persona normale, non contrappone la sua forza al fiume in piena! Ma piuttosto fluttua lieve, sopra la corrente impetuosa dell’istinto e della rabbia dei guerrieri. Ciò è tanto più vero nel contesto del complesso sistema di valori filosofici e approcci alla manipolazione degli attacchi dell’avversario concepito dall’Osensei (grande maestro) Morihei Ueshiba verso gli anni ’20, all’interno di una dottrina che, non a caso, riuscì a trovare un terreno fertile tra gli studenti della corrente shintoista dell’Ōmoto-kyō, fondata sulla venerazione degli antichi kami (dei) della terra, verso il raggiungimento di una grande pace ed armonia futura. Molte parole sono state spese, da quell’ormai lontana epoca, in merito al fatto che l’aikido sia in efficace in situazioni reali di pericolo, ovvero se possa servire nel bloccare o disarmare un teorico bandito di strada, soprattutto in funzione dell’aspetto fortemente stilizzato delle sue dimostrazioni: il fatto è che nella forma più pura, ovvero quella trasmessa originariamente dal suo inventore, quest’arte marziale non glorifica alcuna forma di attacco preventivo. Risultando piuttosto fondata, in aderenza ai valori spiccatamente non-violenti dell’intero contesto, su una serie di approcci all’evitare danni a se stessi (nel dojo: nage) come pure al proprio avversario (detto uke). Eppure resta innegabile come lo stesso aikido (合気道: letteralmente, la via dello spirito armonioso) assieme alla sua versione coreana detta hapkido, venga insegnato con profitto nei principali corpi speciali delle forze armate o di polizia di mezzo mondo, nonostante si tratti di una tecnica concepita originariamente per combattere senza l’intento di ferire. Forse… Perché ciò non compromette in alcun modo i suoi presupposti di efficienza? Giudicate un po’ voi.
Questo video girato in Russia durante un evento divulgativo, comparso su Internet verso la fine di Maggio, mostra l’attore, sportivo, musicista ed incisore Seagal mentre affronta sul tappeto giallo, dinnanzi a un pubblico ammirato, due praticanti del Sambo, l’adattamento per fini bellici del judo, inizialmente praticato dai membri dell’Armata Rossa verso la stessa epoca in cui visse Morihei Ueshiba. È una scena che colpisce fin da subito, in parte per il contrasto creato dai due sportivi con le sambovka bianche (una sorta di gi della tradizione russa) e lui che si avvicina indossando un minaccioso completo nero dotato di cappello, che non avrebbe sfigurato indosso ad uno dei cattivi dei suoi migliori film degli anni ’90. Ma è soprattutto ciò che segue ad aver colpito la fantasia dei molti commentatori sul web, fin troppo pronti a condannare l’intera sequenza come uno spettacolo dotato di copione: perché l’americano, incredibilmente, nell’affrontare tali e tanti attacchi pare spostarsi appena, mentre il grosso dei movimenti apparenti derivano, in effetti, dalle piroette e dai salti dei due giovani avversari. Naturalmente, poi, il noto background cinematografico del protagonista non fa che amplificare questo senso d’incertezza e labile realismo.
L’intera questione non può che riportare alla mente quella memorabile contingenza della settima stagione dei Simpson, in cui l’assistente di regia del film sull’Uomo Radioattivo si ritrovava a spiegare ad un Bart pendente dalle sue labbra come: “I cavalli non sembrano realistici su pellicola, normalmente preferiamo usare mucche dipinte. Mentre se serve un bovino in una scena, l’unica soluzione è legare assieme un mucchio di gatti miagolanti”. Valutate, di contro, il glorioso ritorno di Van Damme nella fantasia popolare giusto l’anno scorso, a seguito della pubblicità della Volvo, in cui effettuava la spaccata tra due grossi camion in corsa. Quella si, realizzata grazie all’uso degli effetti speciali, se non addirittura all’interno di un teatro di posa. Mentre ecco un altro attore della stessa generazione che si mette in discussione senza filtri, ricevendo suo malgrado un mare di critiche disinformate. Morale: la realtà è problematica, va interpretata. Talvolta sarebbe meglio non dare al pubblico quello che chiede…

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