Gli uccelli che sconfissero l’esercito australiano

Great Emu War

“Maggiore, credo che dovremmo appostarci qui. La strada è stretta e d’importanza strategica. Il nemico dovrà farsi avanti, prima o poi!” Appesantito dai 12,7 Kg della sua Lewis Automatic Machine Gun e circa un terzo delle munizioni, in aggiunta al resto dell’equipaggiamento da escursione, O’Halloran sudava copiosamente nell’estate australiana. 2 Novembre 1932: appena iniziata, questa guerra già sembrava futile ed eccessivamente onerosa. Per lo meno dal punto di vista del distaccamento di tre uomini sotto il comando di G.P.W. Meredith dell’Artiglieria Reale Australiana, eroe di guerra decorato, sagace stratega ed ora flagello dei volatili in terra selvaggia, secondo il mandato ricevuto direttamente dal Ministro della Difesa, Sir George Foster Pearce. “Aiden, ti ho già detto che il tuo modo di pensare mi piace?” L’ufficiale si fermo di scatto, piantò le mani sui fianchi ed indicò la direzione con un cenno della testa. Dì a Stephenson che ci fermiamo qui. Fagli piazzare il tripode a ridosso di quell’albero di eucalipto. Questa sarà la prima, ed ultima battaglia della nostra spedizione. Grossi polli senza ali..Puah! Non sanno cosa li attende…” E nemmeno tu, pensò O’Halloran. Chi mai, nella storia dell’umanità, avrebbe pensato di sfidare il secondo uccello più grande del mondo, impiegando l’attrezzo che più di ogni altro aveva modificato questi ultimi anni della storia umana: la mitragliatrice. Ma a mali estremi, come si dice… “Steph ci sei?” Il commilitone, con l’uniforme zuppa e l’espressione contorta dallo sforzo, si era già liberato dello zaino in mezzo alle radici dell’arbusto, e stava al momento armeggiando rumorosamente con l’attrezzatura di sostegno per tendere l’imminente imboscata al nemico pubblico numero 1-20.000.  “Dannazione!” Esclamo sottovoce il mitragliere: questa è la cifra di cui stiamo parlando. Di devastatori piumati dagli occhi iniettati di sangue, alti fino a 2 metri, calati sulla regione di Campion, nell’Australia Occidentale, con tutta la furia di un’orda di barbari o di cavallette. Una tale situazione non poteva in alcun modo continuare; non l’avrebbero accettata i veterani del primo conflitto mondiale, che recentemente avevano iniziato a rifarsi una vita, ricevendo concessioni e sussidi (a dire la verità, inferiori a quanto gli era stato promesso) per stabilirsi tra alcune delle terre più selvagge ma estremamente fertili del Quinto Continente; non sarebbe andata bene alla popolazione, che pretendeva di poter acquistare a buon mercato frutta, verdura, grano e derivati; e soprattutto non poteva essere neppure concepita dal governo, che proprio in quegli anni stava iniziando a comprendere le deleterie conseguenze della grande depressione americana, sopraggiunta pochi anni prima per scuotere le fondamenta stesse del mercato. Come si sarebbe mai potuto, in un tale momento delicato, regalare i propri spazi più preziosi a questi giganteschi gallinacci provenienti dall’entroterra desolato? E come gli spartani alle Termopili, i soldati non erano del tutto soli. Un gruppo di agricoltori locali, tutti volontari, si stavano industriando per spingere gli uccelli verso il punto designato per l’imboscata. Mancava sempre meno…
Completata l’opera di allestimento, O’Halloran guardò Stephenson, che a sua volta guardò verso la remota collinetta, dove il maggiore Meredith si trovava a gambe larghe, il binocolo ben stretto tra entrambe le mani e ritmicamente sollevato, su, giù, su, giù, in una sorta di ginnastica dettata dalle circostanze. Finché ad un tratto, il movimento ritmico non cessò di compiersi, e la mano destra dell’uomo non fu sollevata in una sorta di gesto teatrale, le cui implicazioni apparivano sin troppo chiare ai sottoposti. Eccoli, ci siamo, è giunta l’ora della verità. “Maggiore, non stia lì! Venga a mettersi qui dietro.” Non appena il comandante senza paura ebbe terminato di voltarsi, nei suoi occhi c’era il fuoco vivo. Sembrò stare per aprire la bocca, poi tacque e silenziosamente ubbidì. Ora veniva la parte interessante. La mitragliatrice in dotazione all’esercito australiano, notevole innovazione tecnica del colonnello statunitense Isaac Newton Lewis, aveva una cadenza di 550 colpi al minuto, 50 più della seconda miglior arma del suo periodo. Poteva montare caricatori a tamburo (le cosiddette “padelle”) con fino a 97 proiettili, che un soldato addestrato era in grado di sostituire in appena 5 o 6 secondi. La metà, con l’aiuto di un assistente. E i due addetti all’opera di necessario sterminio, qui presenti perché scelti personalmente dal loro stesso fiero comandante, erano i migliori dell’intero corpo d’artiglieria. Controllata la regolazione del mirino, scambiato uno sguardo d’intesa coi due compagni di avventura, O’Hallora socchiuse gli occhi e guardò verso l’orizzonte. Da qualche parte, nel mondo, era sicuramente mezzogiorno.

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E così, francese, dici che puoi correre con l’armatura?

Armored Boucicaut

I vestimenti metallici dei cavalieri risplendevano persino sotto il sole tenue di fine ottobre, mentre il meglio della Francia si schierava in cima a un colle ad Agincourt. Ma nessuno, in quel frangente, aveva un’espressione più decisa, un cipiglio maggiormente fiero, ed una presa ancor più salda sulle redini che Jean Le Meingre detto Boucicaut, esimio maresciallo del Regno, salvatore del patriarca di Costantinopoli, flagello dell’antipapa Benedetto XIII ad Avignone, nonché probabilmente il più famoso guerriero della sua era. Estremamente consapevole, come del resto il conestabile Carlo d’Albret alla sua destra, per non parlare delle due vecchie conoscenze d’arme e d’avventure i duchi Charles d’Orléan e Giovanni I di Borbone che si agitavano in sella sulla sua sinistra, che se eri Enrico V il re d’Inghilterra nel 1415, e volevi rimanere tale, non imbarcavi circa 10.000 truppe in prossimità dello Stretto di Dover, non le traghettavi con lo scarso numero di imbarcazioni fino al passo di Calais, e soprattutto non ti lanciavi all’assalto di una mezza dozzina di fortezze prive di significato in giro per la Piccardia, quasi dimezzando i tuoi soldati in modo inutile, per poi tentare di tornare in patria con quel poco che ti rimaneva. Si, le notizie sull’incipiente pazzia del re di Francia Carlo VI, vecchio amico d’infanzia del possente maresciallo, potevano anche essere vere. Ma dall’altro lato della Manica, a quanto pare, la cupidigia del guadagnarsi nuove terre stava per mietere ancor più vittime della guerra civile tra Armanacchi e Borgognotti, scaturita dalla necessità d’istituire una reggenza a Parigi.
Un falco ammaestrato, senz’ombra di dubbio la proprietà di un nobile locale, lanciò il grido che segnava lo scoccar dell’ora storica del cambiamento. Era proprio questa del resto, la fine di una lunga cavalcata a perdifiato, che aveva finalmente permesso ai francesi, dopo numerosi fallimentari tentativi d’imboscata, di sorpassare gli invasori e sbarrargli la strada, tra due alture fittamente alberate che non gli avrebbero permesso di fuggire tanto facilmente. Il perfido dragone, dunque, sarebbe finalmente perito in questa valle, liberando la France dal più terribile dei rischi che correva: ritrovarsi presto comandata da un re inglese. Il cavalier di Boucicaut, giunto l’epico momento, sollevata in alto la sua lancia col vessillo, diede allo schieramento il suo segnale di avanzata. Come un sol uomo, 36.000 tra cavalieri, fanteria, balestrieri genovesi ed arcieri fecero il primo passo verso la vittoria, discendendo verso il fulmine ed il lampo della gloria. Naturalmente, l’impatto tra gli schieramenti non avvenne subito. Mentre i francesi tentavano d’indurre una probabile carica suicida sfidando il nemico, Enrico V dispose i circa 4.000 tiratori che gli rimanevano sulle ali destra e sinistra, dietro delle fortificazioni improvvisate con pali di legno appuntiti, mentre 1.000 uomini d’arme e cavalieri appiedati, con picche, alabarde e semplici spade, si ponevano al centro dello schieramento, per assorbire l’impatto del nemico. Uno schieramento, tutto considerato, relativamente ben concepito. Ma la differenza numerica, di armi ed equipaggiamento era di certo troppo significativa, o almeno questo riteneva Boucicaut. Così alla fine, fu proprio lui a lanciarsi all’assalto, assieme ai circa 8.000 coraggiosi cavalieri che includevano, nei fatti, una buona metà della corte di Francia.
Trovarsi all’altro lato di una carica di cavalieri di quell’epoca del Basso Medioevo costituiva, nei fatti, un’esperienza terrificante. Innumerevoli storie e leggende narravano di piccoli manipoli appartenenti a questo o quell’Ordine rinomato, che galoppando tra gli schieramenti dei non-cristiani, potevano distruggere la coesione di forze numericamente molto superiori. Un guerriero pienamente corazzato, con palafreno adeguatamente abile nel suo ruolo, era una forza inarrestabile comparabile a quella di un moderno carro armato. Soltanto un miracolo avrebbe potuto salvare Enrico V, in quel frangente. Ed il miracolo (della tecnologia) arrivò. O per meglio dire, esso era già lì, cautamente avvolto in un panno impermeabile nei bagagli di ciascun margravio, ogni vassallo, dei pochi popolani e seguaci che si erano trovati a supportare l’offensiva del re. Il suo nome: longbow. L’arco lungo, il più letale strumento bellico che fosse stato mai schierato in un campo di battaglia. Soltanto che allora, non lo sapeva ancora nessuno. L’arte del tiro a lunga gittata era infatti praticata in Inghilterra come una sorta di sport, trasmesso di padre in figlio nelle città, nelle tenute, nei villaggi, come un utile modo per andare a caccia e procurarsi della carne. Le frequenti competizioni regionali, nonché il plauso concesso ai migliori cecchini, costituivano tutto il premio di cui avessero bisogno costoro. Poi nel momento della verità militare, naturalmente, quell’attrezzo si scopriva estremamente utile allo scopo di difendere se stessi ed il paese: perché una freccia che può giungere fino a 200 metri, altrettanto facilmente, se chiamata a farlo, avrebbe perforato qualche valido centimetro d’acciaio. Uccidendo chicchessia. Così Boucicaut, alla testa dei suoi prodi, si lanciò alla carica contro l’istrice inferocito, contando assieme agli altri comandanti sulla forza imperitura del suo diritto di nascita, l’onore e la fierezza dei cavalieri. Per primo cadde Carlo d’Albret, colpito fatalmente alla gola. Quindi i Duchi di Borbone e d’Orléan, i cui cavalli, follemente, non portavano una bardatura laterale. E infine egli stesso, il più grande cavaliere della Storia. Mandato a rotolare giù nel fango, mentre gli zoccoli infuriavano tutto attorno alle sue membra indolenzite. Ma l’intera vicenda, a conti fatti, non poteva certo finire a quel modo…

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L’atollo con la tomba radioattiva larga 107 metri

Enewatak Atoll

Presso l’equatore, grossomodo in corrispondenza della linea internazionale immaginaria che dovrebbe indicare, secondo la convenzione, l’inizio di una nuova giornata di 24 ore, esiste un piccolo paese. Nel mezzo del più vasto oceano, e grande all’incirca due volte la Repubblica di San Marino, ma a differenza di quest’ultima, non contiguo: ciascun territorio di cui esso si divide, risulta infatti circondato da miglia e miglia di acqua non perfettamente trasparente e senza alcun dubbio, popolata dagli squali. Così chi dovesse dunque sorvolarlo con un aereo, questo ambiente abitato da circa 53.000 persone, non scorgerebbe certo alcuna struttura più grande di un municipio in muratura, una chiesetta, qualche dozzina di capanna e moli d’approdo costruiti secondo le antiche metodologie polinesiane. Con una singola, preoccupante eccezione: la grande cupola di cemento dell’isola di Runit, chiamata dai locali “il mausoleo”. Formata da 358 pannelli interconnessi di un gradevole color grigio topo, caratterizzati dal notevole spessore di 58 cm. A ben pensarci, la cosa più stupefacente è che l’insieme di materiali non sia sprofondato in mare, in funzione del suo semplice peso eccessivo. Chi l’ha costruita e perché? Dove avrebbero mai trovato i fondi, questi tranquilli e relativamente improduttivi isolani, per costruire un simile maestoso edificio? La cui esistenza, in altre condizioni, sarebbe più che sufficiente a far sospettare la diretta partecipazione di una qualche civiltà aliena, anche per la spiccata somiglianza con lo stereotipico UFO degli show televisivi una volta. Ma no, ma no! Niente di simile La realtà risulta molto più semplice, ed al tempo stesso orribile, di così…
Nel 1943, con due anni di feroce guerra nel Pacifico alle spalle, i generali d’armata americani decisero che era giunto il momento di conquistare delle basi avanzate a sud, dalle quali decollare per effettuare le prime, prudenti ricognizioni dei principali territori giapponesi. Fu quindi deciso, senza esitazioni, che il primo bersaglio di un tale iniziativa sarebbe stato l’atollo di Enewetak (talvolta detto Eniwetok) 5,85 chilometri quadrati, con un’elevazione massima dal mare di tre metri, presso cui il nemico aveva già costituito un piccolo campo di rifornimento aereo senza nessun tipo di personale stabile e velivoli in stazionamento permanente. Gli attuali occupanti delle isole affioranti dalla sottostante montagna sommersa e relativa barriera corallina, tuttavia, non erano numerosissimi, soprattutto perché il comando nipponico si aspettava di subire un’attacco più a nord, presso le isole Marianne. Fu così deciso che le forze incaricate della presa del territorio sarebbero stati due reggimenti, al rispettivo comando di un ufficiale di fanteria e dei marine. Giunto il 17 febbraio quindi, con la caratteristica dottrina del thunder & lightning, i circa 10.000 uomini sbarcarono sulla spiaggia, utilizzando un’ampia selezione di chiatte da sbarco ed altri battelli specializzati, senza premurarsi di disporre di un adeguato supporto del fuoco d’artiglieria navale. Il che si rivelò, ben presto, un errore: le truppe imperiali, che secondo lo storico Rottman, G. ammontavano  a poco più di 3500 uomini, si erano infatti trincerate estremamente bene, con un generoso utilizzo del tipo di fortificazione definita in gergo “fossa dei ragni”: essenzialmente, ciascun soldato aveva scavato una buca nella sabbia friabile dell’atollo. Quindi l’aveva ricoperta con foglie e rami, e da essa usciva solamente con la testa ed il fucile, facendo fuoco su chiunque avesse l’intenzione di avanzare. Nel frattempo, una piccola divisione di carri al comando del tenente Ichikawa, formata da 9 leggeri Tipo 95 Ha-Gō, impose non pochi grattacapi agli aspiranti nuovi possessori dell’isola principale dell’atollo, detta per antonomasia Eniwatok. Passarono così tre giorni di battaglia estremamente cruenta, nel tentativo di guadagnarsi la prima testa di ponte dell’obiettivo strategico principale. Le difficoltà incontrate furono decisamente superiore alle aspettative, tanto che nel caso dell’assalto alla seconda isola dell’atollo, quella di Parry, fu deciso invece d’impiegare un bombardamento a tappeto ad opera delle due corazzate USS Tennessee e Pennsylvania, così serrato da necessitare di 900 tonnellate di munizioni, ed al termine del quale, essenzialmente, ben poco rimaneva di riconoscibile da quelle parti, a parte la sabbia e il mare. Al termine dell’operazione, quindi si passò al conteggio delle vittime: in quegli ultimi cinque giorni avevano perso la vita 313 soldati americani, senza contare gli 879 feriti e 77 dispersi, mentre per quanto concerneva l’altro lato del fronte, quasi l’intero contingente dello schieramento avversario fu trucidato, con soltanto 105 prigionieri presi. La vittoria degli americani, dunque, fu rapida e totale: troppo diversi erano i fattori delle forze in gioco. Ma il prezzo pagato? Fu notevole, senz’altro.

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I vantaggi di chi afferra direttamente la lama

Half Swording

Un uomo dalla folta chioma bianca, nudo, iscritto in un cerchio e in un quadrato. Il cui ombelico costituisce il centro esatto della composizione e le cui braccia e gambe, rappresentate in due possibili posizioni, raggiungono rispettivamente il perimetro della prima delle due forme geometriche se divaricate alla loro massima estensione, oppure della seconda, quando parallele e perpendicolari al suolo. Non c’è forse una singola immagine, a questo mondo, che possa riassumere in maniera più lampante il concetto stesso alla base del Rinascimento, per la maniera in cui Leonardo Da Vinci, in quel suo disegno del 1490, si rifaceva ad un particolare brano di un architetto e scrittore latino, Marco Vitruvio Pollione, nella sua personale ricerca di una base matematica ed oggettiva per il mondo dell’arte. Probabilmente già allora ben cosciente, da grande saggio ed uomo di mondo quale lui era, di come un qualcosa di simile fosse già stato disegnato oltre 80 anni prima in un ambito totalmente diverso, eppure in qualche maniera, a lui affine. Ovvero negli studi sulle mosse tattiche disponibili a uno spadaccino, prodotti da Fiore de’ Liberi da Premariacco, sommo magistro de’ scrima (la scherma) del Patriarcato di Aquileia, l’odierna Cividale del Friuli. Certo, la qualità e l’accuratezza anatomica erano ancora quelle approssimative delle miniature medievali. Del resto, l’autore non praticava pittura, scultura etc. Ma visto a posteriori, il fondamentale diagramma delle Sette Spade, che apre il suo testo del 1409  Flos duellatorum, fa una certa impressione: perché raffigura un’altra figura umana, vestita e con le braccia conserte, anch’essa iscritta all’interno di un cerchio. Di spade. O per meglio dire, formato dai quillons, ovvero le prominenze laterali che costituivano la versione più diffusa del concetto di guardia proteggi-mani, e diedero per secoli a tutte le spade d’Occidente la caratteristica forma cruciforme, mentre ciascuna lama, come guidata da una forza invisibile, sembra puntare dritta al cuore del malcapitato. Ora, a parte il fatto che tra un’arma e l’altra, nell’illustrazione del Fiore fossero stati inclusi i quattro animali corrispondenti alle virtute dello spadaccino (la lince prudente, la tigre veloce, il leone coraggioso ed il forte elefante) ciò che colpisce è proprio un tale dato: perché mai, nella raffigurazione dell’uomo ideale, l’autore aveva scelto di porlo tra gli apparenti pericoli acuminati? Non sarebbe stato più sensato rivolgere le spade verso l’esterno?
Una risposta possibile è che si fosse trattato di un semplice vezzo stilistico, ma nei fatti, potrebbe esserci una ragione più profonda. Proprio il magistro di Premariacco, in effetti, fu l’inventore formale di una particolare tecnica di combattimento all’arma bianca, concepita appositamente per contrastare gli armigeri vestiti della poderosa armatura a piastre europea, indubbiamente la protezione più efficace contro le armi da taglio mai concepita nella storia dell’umanità. Il punto, sostanzialmente, è questo: la spada è l’arma più sopravvalutata dai moderni, che molto giustamente, non l’hanno mai utilizzata. Abituati al cinema, ai videogiochi, e perché no, all’animazione giapponese, in cui tale arma viene mostrata affettare con drammatica facilità ogni sorta di nemico più o meno umano, non siamo più coscienti di come essa costituisse in effetti, più che altro, un puro simbolo di nobiltà. Servendo soprattutto, fino all’epoca pre-moderna, nell’attività prettamente nobile dei duelli. Mentre in un campo di battaglia, quando la propria stessa vita e quel che è peggio gloria ed il buon nome, erano in gioco, un cavaliere avrebbe preferito impugnare armi come la mazza, l’ascia, l’alabarda. Si potrebbe in effetti pensare che la limitata disponibilità e l’alto costo dell’armatura completamente in metallo, in qualche modo, bastasse a creare un’elite di guerrieri, sostanzialmente impossibili da ferire mediante l’impiego di metodi convenzionali, mentre i popolani costretti a combattere cadevano come mosche di fronte alla loro invincibilità. Quando la realtà è che, grazie all’opera di teorici o istintivi utilizzatori di tecniche affini a quelle di Fiore dei Liberi, non fu sempre, o quasi mai, così.

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