La leggenda dei tremendi ponti siberiani

Siberian Bridges

Sarebbe particolarmente difficile, ritengo, negare il fascino estemporaneo che possiede per la nostra natura umana, il tema del viaggio. Quello spostarsi talvolta alla ricerca di un qualcosa, di eterno e imponderabile, che costituisce forse la natura e il senso stesso dell’esistenza. Ed è chiara e impressa nella mente quell’immagine, quasi allegorica nel suo puro ed assoluto simbolismo, della striscia percorribile, che corre a perdersi verso il punto di fuga all’orizzonte: asfalto, aiuole, aria di campagna. Tutto è splendido, nella presunta prefigurazione di una sconfinata pianura, dove esistono soltanto i punti d’interesse. Ma non c’è in effetti niente di più irrealistico, a questo mondo, che dare per scontata la continuativa persistenza di un contesto ideale. Quando il pianeta, frutto di sconvolgimenti vulcanici e derive pressoché spropositate, poggia sopra un mare di magma che frammenta, crepa e spacca il suolo. E sopra un tale susseguirsi di vertiginosi dislivelli, cosa fare…Se non costruire, tra l’alba e il tramonto dell’anélito e il bisogno, una struttura che è fondamentale alla sopravvivenza quanto l’edificio del granaio, il canale d’irrigazione, l’acquedotto della civitas; ovvero quella cosa, il ponte. Ed è lì, che si palesa la fondamentale distinzione della qualità.
Perché se pure tutti i ponti sono simili, almeno in potenza e nello scopo alla base della loro stessa messa in opera, è la condizione di contesto che immancabilmente può variare: e tutto pare accettabile, persino ragionevole, purché basti a continuare quel meraviglioso spostamento lungo l’asse orizzontale. Finché BAM, non giungi qui, per l’appunto, alla BAM – quel tratto di collegamento prevalentemente ferroviario, ma affiancato da una sorta di primitivo servizio per veicoli stradali, che prende il nome esteso di Baikal-Amur, dal nome rispettivamente del lago più profondo del mondo, presso la cui punta superiore il tratto ha la sua origine, e da quello del fiume Amur che sfocia nell’Oceano Pacifico, vicino al confine della Manciuria. 4.324 Km a partire dall’oblast di Irkutsk, confinante con la Mongolia e fino alla remota Sovetskaya Gavan, città portuale posta innanzi alle isole Sakhalin. La doppia strada, alternativamente ferrata, asfaltata o fangosa, misura dunque poco più della metà della mitica Transiberiana, ma con una significativa differenza: quei circa 4.200, tra attraversamenti pseudo-architettonici di fiumi, laghi, dirupi e fosse, in diversi stati di abbandono, principalmente a causa del poco utilizzo e delle condizioni climatiche spesso particolarmente proibitive. Perché quando fa freddo in Siberia, come probabilmente è cosa molto nota, non fanno “appena” zero o -10 gradi Celsius, ma un qualcosa di variabile tra i -20 e -30, sufficienti a mantenere uno strato quasi perenne di permafrost ghiacciato estremamente spesso, che nei suoi occasionali eventi di disgelo si spacca triturando, letteralmente, tutto quanto ciò che è stato costruito dalla mano degli umani. A ciò va pure aggiunto come la BAM, nonostante i grandi piani del premier Leonid Brezhnev (controllo del paese: 1964-1982) che l’aveva definito “il progetto d’ingegneria del secolo”, non venne completata nei tempi e modalità previste, con una progressiva quanto inesorabile caduta nel disuso, scivolando dalle 180 milioni di tonnellate annuali di merci previste in origine a solamente 8 per il binario occidentale, 5,5 per quello orientale. Per non parlare poi della rete stradale ombra, quel percorso parallelo costruito all’epoca per l’impiego da parte della forza lavoro e successivamente riconvertito ad arteria permanente, usata per collegare tra loro gli innumerevoli villaggi, paesi e cittadine sorte quasi spontaneamente lungo il suo tracciato a partire dal 1972, l’anno in cui circa 50.000 entusiastici giovani russi, definiti “gli eroici BAMovcy” partirono per le regioni più remote della taiga siberiana, convinti dalla propaganda di partito a legare il proprio nome e la propria opera alla costruzione di quella che sarebbe diventata un’importante risorsa strategica per i commerci verso il grande Oriente. Forse non sapendo, e come avrebbero potuto? Che molti di loro si sarebbero poi stabiliti in questi luoghi, per non farne ritorno mai più.

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Quando i corvi si ricoprono con le formiche

Crow anting

La scienza dell’etologia, che si occupa di studiare il comportamento degli animali nel loro ambiente naturale, sperimenta una profonda problematica, in grado di condizionare l’ampliamento delle sue nozioni: è fin troppo facile dare determinati punti chiave per scontati. Fin dall’epoca del filosofo Aristotele, riconosciuto come remoto fondatore della disciplina, il progresso di un simile scibile è avanzato faticosamente, senza il caratteristico andamento a grandi balzi occasionali che costellano la storia dell’umanità. Osserva un evento in corso di svolgimento, prendi nota, fai comparazioni con quanto si è acquisito fino ad ora; nel giro di pochi giorni di ricerca, avrai trovato la tua utile analogia. “Il corvo del mio giardino si avventa sopra il formicaio, due o tre volte al giorno, perché ha…Fame.” Che c’è di strano? Generazioni di uccelli insettivori da sempre facevano la stessa cosa, divorando le piccole rivali artropodi sulla via per la sopravvivenza. “Pubblicare QUESTA osservazione oggettiva non darebbe luogo ad alcun grado di prestigio, ma piuttosto a una risata collettiva da parte dei miei colleghi all’università.” E così per molti secoli, gli uccelli hanno mantenuto un certo dettaglio della propria vita ben lontano dai nostri libri, benché tale gesto fosse praticato proprio sotto gli occhi di coloro che quivi ponevano le proprie firme. È una questione di latente preconcetto, ma anche una mancanza di spirito d’osservazione. Perché l’ipotetico scienziato di cui sopra, al verificarsi di una scena come questa, avrebbe dovuto avvicinarsi per guardare meglio. Chinarsi per quanto possibile in prossimità al volatile, per notare come quest’ultimo, lungi dal trangugiare subito ciascuna preda, quelle formiche le prendeva e masticava con il becco, per poi apporle, l’una dopo l’altra e spesso ancora vive, nel bel mezzo delle proprie lisce piume!
È così alquanto sorprendente, ma non del tutto inaspettato, trovare la prima notazione scientifica di un simile comportamento soltanto nel relativamente recente 1935, ad opera dello scienziato tedesco Erwin Stresemann, che lo discusse in un articolo per la rivista Ornithologische Monatsberichte. In cui raccontava di aver assistito alla fatidica scena di un gruppo di cornacchie grigie (Corvus cornix, piuttosto comuni anche qui da noi in Italia) che si affollavano attorno a un formicaio di formiche rosse dell’emisfero boreale (F. rufa) che pur non essendo dotate di pericolosi pungiglioni come certe loro cugine tropicali, risultano comunque dotate di un’arma chimica piuttosto fastidiosa: l’acido formico, un liquido incolore ma piuttosto maleodorante, in grado di ustionare la pelle se vi si trova a contatto per un tempo prolungato. Ora, il fatto stesso che i pennuti tormentatori alati mostrassero una simile insistenza nell’infastidirle, a vantaggio delle ben più indifese formiche nere, avrebbe dovuto far insorgere in qualcuno il seme del sospetto. Per non menzionare il fatto che l’incontro non prevedesse affatto un pasto sistematico e efficiente, con i grossi passeriformi che si affrettavano a saziarsi, prima di spostarsi verso lidi più ospitali, ma piuttosto un prolungamento atipico dell’intera faccenda, con i sottili becchi usati per prendere delicatamente ciascun insetto, posizionandoselo addosso, con cura, per un tempo complessivo stimabile sui 20-25 minuti. Sembrava quasi che gli uccelli, inspiegabilmente, da questa attività stessero traendo un misterioso piacere.
Ed è nell’analizzare simili questioni, soprattutto, che l’etologia tradizionale ha sempre dimostrato i propri limiti residui. Ereditati, per così dire: perché se nessuno aveva mai notato quel qualcosa, non sembrava esserci alcun vantaggio nell’approfondire. Non è forse già una descrizione soddisfacente, quella relativa all’alimentazione, senza aprire nuovi vasi di Pandora, validi soltanto ad aumentare il nostro senso d’incertezza!

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Nuove invenzioni dal creatore del sarcofago anti-terremoti

Dahir Boxbed

Viene un momento, nel comune scorrere della propria vicenda personale, in cui più di ogni altra cosa si desidera di essere altrove. Durante un’interminabile riunione di lavoro, sui banchi di una giornata scolastica piuttosto complicata, in mezzo ad un ingorgo lungo quanto Jörmungandr, il grande serpente che circonda gli oceani di Midgard, scuotendo la propria coda assieme ai continenti. E forse nessuno ha mai provato questo sentimento di auspicabile dislocazione maggiormente di chi, al proprio risveglio repentino, si è trovato coinvolto nel pieno di un disastro naturale, come un’alluvione o un terremoto. Quando sarebbe bastato, quella particolare notte, decidere di andarla a trascorrere in villeggiatura, o come ospiti di amici, o magari semplicemente a bere al bar, per poter correre sul viale incolumi, gridando a pieni polmoni la propria rabbia ed il sollievo per la piega presa dagli eventi. Ma se invece abiti al quarto, quinto piano? Se l’edificio che protegge la tua casa non è stato costruito esattamente con materiali ad alta resistenza, magari perché è antico, oppure qualche predecessore della sfera tecnica, ahimé, ha ceduto alla tentazione di arricchirsi con risparmi sul progetto? Se quando viene quel fatidico momento, sorpreso ed assonnato, non hai che pochi secondi per balzare fuori dalla porta, percorrere le scale fino all’unica, remota via d’uscita…Non è detto che ti salvi. Diciamo che ci vuole, quanto meno, un certo aiuto dalla dea Fortuna. Mentre secondo le statistiche, stando alla legge dei grandi numeri, salvare vite significa trovare un sistema che sia, letteralmente, fool-proof (a prova di errori) e quindi adatto a trarre fuori dall’impellente grama chiunque, inclusi gli individui meno pratici, scattanti o quelli con il sonno più pesante. Il che significa, sostanzialmente, che nel caso qui descritto l’unica remota soluzione è questa: potenziare il letto stesso. Renderlo, grazie all’impiego di una straordinaria soluzione tecnologica, in grado di chiudersi di scatto, proteggendo il suo occupante da qualsiasi crollo, non importa quanto rovinoso e/o devastante.
Come per le altre proposte dell’azienda russa Dahir Insaat, di proprietà dell’industriale ed ingegnere Semenov Dahir Kurmanbievich, questo letto futuribile non viene offerto al grande pubblico soltanto sulla carta, bensì accompagnato da un esauriente dimostrazione video, creata in computer grafica decisamente competente, se non proprio a livello dei più costosi e popolari videogiochi. Lo scenario è per certi versi strano, eppure in qualche maniera fin troppo plausibile: ci sono alcuni personaggi, fuoriusciti direttamente dall’ultimo episodio di The Sims, che riposano beati all’interno di enormi stanze da letto, sopra dei plinti degni di una piramide però siti all’interno di un palazzo dall’aspetto conforme a quello della maggior parte delle abitazioni di epoca sovietica, che costituiscono da decenni la periferia di grandi città come Mosca o San Pietroburgo. D’un tratto, senza alcuna soluzione di continuità, la telecamera si sposta all’esterno in quanto, oh, no! La terra inizia a tremare. Montaggio alternato: fuori-dentro; mentre già le pareti s’incrinano ed iniziano a crollare sopra loro stesse, il giaciglio sopraelevato dei fortunati condòmini dimostra il suo segreto. Come una tagliola, o ghigliottina, quello reagisce a dei sensori non mostrati (simili a…Sismografi?) e ingloba la persona che dorme, assieme a materasso, cuscini, coperta e tutto il resto. Un portello quindi viene chiuso automaticamente nella parte superiore, rendendo la scatola del tutto indistruttibile, non importa il peso delle macerie che vi crolleranno sopra. Ora, naturalmente questa soluzione non è sempre la migliore: è possibile immaginare casi in cui, l’improvviso scoppio di un incendio a seguito del terremoto, avrebbero reso maggiormente consigliabile una fuga precipitosa. Oppure edifici talmente alti che il loro crollo, non importa quanto si è protetti, comporterebbe un contraccolpo grave per gli occupanti della cassaforte umana. Per lo meno, un’ampia selezione di rifornimenti è stata inclusa sotto il giaciglio, permettendo ipoteticamente la sopravvivenza per periodi prolungati sotto le macerie, per un tempo sufficiente ad attendere i soccorsi. Inoltre, è ragionevolmente probabile che l’occupante della capsula possa intervenire sui comandi, aprendola immediatamente quando ritenuto necessario. Purché i detriti causati dal crollo non blocchino il coperchio con il loro peso…

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A pesca di carri armati negli acquitrini della Russia

T-34

Un nuovo brivido percorre i freddi spazi tra le case del villaggio di Malakhovo vicino Pskov, nella Russia europea settentrionale. “Sono arrivati, finalmente! Gli Ariyergard stanno per immergersi nella palude!” Come, chi? Quelli “della Retroguardia” un gruppo di appassionati cercatori, ex-militari in congedo, sportivi ed archeologi in erba, forniti di tutte le risorse necessarie, sia in termini di know-how che dal punto di vista più prosaicamente finanziario, per ripescare un tipo assai particolare di ponderoso dinosauro, che caplestava queste stesse lande circa una sessantina di anni fà. La Preistoria: uno stato mentale, ancora più che un’epoca cronologicamente definita. Basta, dopo tutto, un periodo di feroce barbarismo, in cui l’uomo ridiventa la creatura in lotta per il territorio, contro agenti ostili provenienti da quell’altra parte, perché si frapponga un muro divisorio tra quello che era, ciò che sopravvive limpido e indefesso. Ciò dicevano gli anziani dell’oblast, a chiunque transitasse nel remoto Malakhovo. Insieme a un’altra storia, così strana, e al tempo stesso stranamente tipica di questi luoghi. Recitata in modo enfatico dal vecchio Vasiliy, oppure Boris, o ancora quel vulcano di Anatoly: “Le tracce, le ricordo molto bene. Segni di cingoli, vicino al bassopiano paludoso, che avanzavano sicuri verso il tratto più pericoloso. Dove le nostre capre vanno a scomparire, risucchiate via nel buio dell’oblio. Il segno di qualcosa di grosso che…Entrava. Per non uscire mai più. E poi, le bollicine d’aria. Proprio lì, per circa un mese, quando andavo a fare scampagnate da ragazzo; come di un grande recipiente gradualmente intento a riempirsi…” Indubbiamente, molto strano. Per quello che sappiamo dei dinosauri sommersi, fuoriusciti ad esempio dai pozzi di catrame di Rancho Las Breas vicino Los Angeles, della loro forma sopravvive sempre molto poco. Appena qualche osso sbiancato dalle epoche, che difficilmente potrebbe contenere l’aria sufficiente a far le bolle per diverse settimane. Nè del resto, qui stiamo parlando di creature come le altre. Un portavoce storico della Prima Divisione Carristi della Turingia, successivamente alle dure avventure vissute verso la seconda metà del 1941, scriveva in questo modo: “Quei [carri armati russi] erano davvero qualcosa di mai visto prima. La nostra compagnia fece fuoco alla distanza di 700 metri, senza ottenere nessun risultato. In breve tempo, ci ritrovammo a 100 metri, continuando a mandargli contro tutto quello che avevamo. Ma le nostre migliori munizioni non facevano che rimbalzare contro quelle solide armature! Il nemico ci stava oltrepassando senza nessun tipo di problema, puntando dritto contro la fanteria, del tutto inerme ed indifesa.”
Proprio così. In nessun altro momento della storia dell’uomo, dei mostri (meccanici) sono stati tanto prevalenti come quando le fabbriche sovietiche sfornavano a regime uno scafo dopo l’altro di pesanti ed economici T-34 o gli inamovibili titani d’acciaio della serie KV. Tanto che l’esercito della Wehrmacht tedesca, impegnato nella fallimentare operazione Barbarossa, pur essendo pienamente cosciente della propria superiorità strategica ed operativa, trovandosi di fronte a tali cingoli sapeva di doversi ritirare o tentare vie d’approccio alternative: il tipo di armi montate a bordo dei Panzer III e IV semplicemente non sortivano effetti di alcun tipo. Ed è quindi davvero comprensibile, come per i nostalgici (a torto o a ragione) di quella che oggi viene in certi ambienti definiti la Grande Guerra Patriottica, il ritrovamento di una queste creature sia un’occasione entusiasmante, meritevole di grande impegno personale. Per citare il più avventuroso degli archeologi, con frusta e cappello come accessori: “Quel [carro armato] dovrebbe stare in un museo!” E se mai c’è qualcuno che aveva preso in particolare antipatia il nazionalismo tedesco di allora…Oltre ai serpenti, s’intende?!
È una scena piuttosto epica, complice la colonna sonora, e davvero coinvolgente: il sommozzatore degli Ariyergard riemerge dalla fangosa propaggine del Lago dei Ciudi, confermando la testimonianza dei locali. A questo punto, giunge sulla scena il fido trattore dell’organizzazione, un potente bulldozer Komatsu D375A-2, occasionalmente preso in affitto dalla compagnia AS Eesti Polevkivi. Si stendono ed assicurano i cavi, inizia il rombo dei motori. Gradualmente, qualcosa si comincia a intravedere…

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