Citroën e l’enigma dell’undicesima ruota

L’anno è il 1972, la giornata tiepida e accogliente. Gli alberi risuonano dei cinguettii riconoscibili della campagna francese. Tutto a un tratto, le nubi sembrano convergere in presenza di un’oggetto mai visto prima, mentre l’orizzonte si allontana verso un impossibile punto di fuga. Una possente vibrazione si trasmette sull’asfalto del Michelin Technology Center a Ladoux, sito 10 Km a nord del comune di Clermont-Ferrand, nella regione dell’Alvernia-Rodano-Alpi quando in lontananza compare… La Cosa. Un bolide arancione e giallo, largo 2 metri e mezzo, lungo 7,2, che avanza a una velocità di 180 Km/h, spinto innanzi dall’energia da una forza spropositata. Se aveste la possibilità di pesarlo, scoprireste infatti che sfiora agilmente le 9,5 tonnellate, praticamente il quadruplo di Hummer multiruolo dell’Esercito Americano. Questo perché nulla, in esso, è stato concepito per ridurre il peso, ma anzi il veicolo si compone in massima parte di acciaio e addirittura piombo, trasportati con facilità soltanto grazie a quelle 10 ruote top-di-gamma della Michelin. Raggiunta la prima curva del circuito, l’assurdo mezzo sterza non con due, bensì quattro ruote, mentre all’apparenza non sembra piegarsi neanche di pochi centimetri per l’effetto della forza centrifuga e di gravità. Non c’è affatto da meravigliarsi: le sue sospensioni sono del tipo idropneumatico, quelle inventate in gran segreto durante la seconda guerra mondiale dall’impiegato autodidatta della Citroën, Paul Magès, all’epoca in cui la sua azienda produceva camion intenzionalmente difettosi da spedire all’esercito di occupazione tedesco. Il che significa che sotto non ha molle di alcun tipo, bensì una quantità imprecisata di ampolle globulari piene di gas nitrogeno, compresse grazie all’uso di una pompa fatta funzionare con la forza del motore. Una per ruota, come di consueto, e un’altra usata per l’azionamento dei freni. Nulla in questo veicolo è stato fatto a risparmio, se si esclude il concetto stesso di crearlo come il mostro di Frankenstein, unendo i pezzi di altri mezzi straordinariamente diversi tra loro. C’è il telaio in versione allungata, e le linee anteriori un tempo aggraziate, della leggendaria Citroën Diesse di Bertone (la “Dea” di Francia) e ci sono i semi-assi del furgone Tipo H, dalle riconoscibili pannellature zigrinate e il metodo di costruzione a corpo unico, che massimizza lo spazio di trasporto a disposizione. Mentre altri aspetti sono solamente suoi: le griglie laterali simili alle branchie di un pesce, usate per far raffreddare i due grandi motori 454 Chevrolet Big-Block da 200 cavalli ciascuno e lo specchietto di destra collocato avanti a lato dello strano cofano, che nessuno avrebbe mai avuto bisogno di aprire. Un bolide di un altro tempo e luogo, come un drago o un dinosauro di metallo.
Sogni che si affollano e diventano interrogativi, attimi meditabondi alla ricerca della verità. Trascorrono i secondi, finché all’improvviso, si ode il suono di una gomma che stride, come se fosse stata premuta con forza eccessiva sulla strada. Il suono aumenta e muta d’intonazione, mentre il fumo inizia a comparire attorno allo strano veicolo che all’apparenza grida tutto il suo terrore. Eppure l’autista, con calma professionale ed apparente rassegnazione, inizia ad affrontare la stretta curva, all’apparenza ormai convinto di finire fuori strada. Imposta la perfetta posizione del volante, il muso della nave segue la sua rotta designata e quindi BANG! La ruota esplode: è la fine? Tutt’altro: la maestosa quanto bizzarra Michelin PLR (Poids Lourd Rapide – camion semi-rapido) soprannominata Mille Pattes (il Millepiedi) non sembra risentire in alcun modo del disastro. Con il riorientarsi del mezzo, mentre ricomincia il rettilineo, avete l’occasione di scrutarla da entrambi i lati. Tutte e 10 le ruote sono totalmente intatte. Di certo deve essersi trattato della vostra immaginazione dunque, se non che… C’è un segno netto e scuro sull’asfalto della curva, con tutto l’aspetto di una tragica sgommata. L’incidente, quindi, si sarà pur verificato, in qualche misteriosa dimensione parallela? È l’inizio di una suspense sulla quale per stavolta, ho voglia di soprassedere: si, nel centro esatto della PLR, c’era un’altra ruota. Più grande, perché appartenente a un’altro ambito veicolare: quello dei camion. Per capirne la ragione, sarà meglio proseguire la lettura…

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Le auto del futuro secondo un cinegiornale del ’48

Con la guerra alle spalle e una vittoria conseguita grazie allo straordinario potere della tecnologia, gli Stati Uniti sul finire degli anni ’40 erano pieni di fiducia negli eventi dell’immediato, nonché remoto, futuro: la Nazione avrebbe conosciuto la ricchezza di tutti, l’alfabetizzazione perfetta, una rete stradale e dei trasporti del tutto priva di difetti. Tutti avrebbero potuto esprimersi liberamente, alla ricerca di quel principio sacro e universale d’autodeterminazione, sopra il quale governava il senso universale dei popoli finalmente uniti. Pace, cessazione dei bombardamenti e sempiterna sazietà. Una visione del mondo e delle cose che difficilmente può esimersi da modificare a più livelli lo stile di vita della gente, da una maggiore propensione a spendere, alla consapevolezza più che mai giustificata che lasciare un metodo di lavoro imperfetto era possibile, perché il domani avrebbe riservato un metodo diverso per guadagnare. Ed è proprio questo che pensavano anche loro, gli ingegneri e designer automobilistici di più larga fama. Se si spinge lo sguardo indietro fino agli anni ‘2o e ’30, si ha modo di conoscere uno stile motoristico dotato di una bellezza antica, con automobili dalle linee eleganti, ancora simili a carrozze che fossero state magicamente private dei cavalli. Ma dal dopoguerra fino alla prima metà degli anni ’60, soprattutto in Nord America è un tripudio di forme improbabili con pinne, protuberanze, vere e proprie ali sul portabagagli. Con le normative di sicurezza ancora in stato embrionale, ma le catene di montaggio già perfezionate ad un livello comparabile alla tecnica contemporanea, i diversi grandi marchi parevano sfidarsi a chi sapesse creare in mezzo con l’estetica più strana e innovativa, ovvero maggiormente in grado di risultare accattivante quando fotografato dalle riviste di settore, la vera e propria Internet di allora. Ed è questo lo scenario in cui, nel 1948, l’intramontabile mensile Popular Mechanics fece produrre per il cinema questo breve segmento, intitolato in modo pienamente descrittivo: CARS of the FUTURE! Se visto oggi, una vera e propria finestra sullo stile e il gusto estetico di allora, commentato da una magistrale interpretazione della “voce” dei vecchi tempi, quel commentatore spersonalizzato con dozzine di volti e lingue madri in tutto il mondo, che pareva esprimersi a metà tra l’annunciatore di un circo e l’imbonitore delle folle in occasione di colorite fiere di paese. Ma sopratutto con loro, 3 modelli di veicoli dannatamente affascinanti ed al tempo stesso, chiaramente destinati al fallimento di pubblico, visto come non somiglino per niente alle auto che oggi viaggiano sopra l’asfalto.
È un’attenta selezione di quelle che potrebbero definirsi auto utilitaria (oggi la chiameremmo city car) grossa familiare con carlinga in alluminio e fiammante fuoriserie sportiva, ciascuna rappresentante con la massima puntualità la visione delle cose di un particolare progettista, egualmente determinato a lasciare il segno sulla storia futura dell’automobilismo. E tutte egualmente caratterizzate da un’influenza marcatamente aeronautica, perché tutti amavano volare in quegli anni! Con linee morbide, apparentemente pronte ad accompagnare l’abitacolo fin sopra le nubi delle oltremodo lievi circostanze.
Guardare ed apprezzare simili creazioni motoristiche, giudicandole per ciò che sono senza attribuzioni di contesto, è già di per se un’attività meritevole d’attenzione. Perché permette di conoscere il pensiero e l’approccio risolutivo dei tecnocrati all’epoca dei nostri nonni, che ancora lavoravano a stretto contatto con la carta, il righello e la matita, piuttosto che affidarsi all’aiuto procedurale dell’ormai dilagante mezzo informatico, che evita gli errori ma appiattisce il sentimento. Ma è soltanto approfondendo nei dettagli ciò che abbiamo visto e stiamo vedendo, io credo, che si può giungere a comprendere la vera portata della brusca inversione di marcia sopraggiunta nella storia dell’automobilismo, appena poche decadi dopo quell’arbitrario momento. È un fallimento del tutto imprevisto che riprende, per certi versi, quello dello stesso sogno americano…

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L’innovativa ragnatela per gli inseguimenti della polizia

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Per quanto si è parlato, soprattutto negli Stati Uniti, della giustezza di limitare o meno la diffusione delle pistole o fucili tra i civili nell’ottica di limitare i crimini potenzialmente letali, nessuno ha mai realmente preso in considerazione un altro aspetto del problema dell’umana iniquità, in grado di applicarsi ad ogni latitudine o nazionalità: il fatto che siamo tutti, dal più giovane a suo nonno, potenzialmente armati di uno degli strumenti più pericolosi del mondo moderno. E quell’arma è l’automobile, un ammasso di metallo da oltre una tonnellata, in grado di accelerare a una velocità sufficiente da sfondare un muro, penetrare dentro un edificio e fuoriuscire dall’altra parte, lasciando dietro di se una scia di morte, sofferenza e distruzione. Il nostro intero mondo moderno, con la sua ottica del lavoro, le pretese verso l’individuo, le scadenze sull’agenda e gli altri impegni quotidiani, è concepito affinché possedere un motore e quattro ruote semplifichi la vita, nonostante i costi, ed acquistarlo diventi passaggio pressoché obbligato del diventare adulti e indipendenti, salvo rare, fortunatissime eccezioni. Ma c’è anche questo, da considerare: nel momento in cui tutto sembra andare male, dopo aver commesso un crimine imperdonabile o un gesto di supremo egoismo, l’individuo che si mette al volante può perdere ogni freno inibitorio. E trasformarsi nell’equivalente 100 volte più pericoloso di un bufalo preso dal panico, dominato unicamente dall’istinto di fuggire. Mentre la polizia, nel tentativo di evitare l’irreparabile, non può far altro che inseguirlo per fermarlo in qualche modo. QUALUNQUE modo.
Ed è a questo punto che entra in gioco l’invenzione di Leonard Stock, l’uomo dell’Arizona che dopo aver osservato in Tv l’ennesimo disastroso inseguimento in prima serata terminato, nonostante l’ampio dispiegamento di forze, con l’impatto deleterio contro il lato guidatore di un’innocente veicolo di passaggio ad un incrocio, andò a letto profondamente turbato, e continuò ad esaminare la questione da ogni lato per tutta la notte. “Se neppure volanti dal motore potenziato, elicotteri e strisce chiodate possono evitare un tale risultato, davvero l’unica scelta è accontentarci ed accettare il dramma? Non esiste un metodo migliore?” Quindi prese a meditare, in uno stato di concentrazione profonda totalmente indistinguibile dal sonno. E la mattina, al suo risveglio, l’idea del suo Grappler era lì: non più bloccare l’automobile in fuga, ma intrappolarla totalmente. Come fa il ragno gladiatore con la mosca succulenta, nel momento in cui estende le due zampe anteriori dalla posizione sopraelevata e gli distende sopra l’inesorabile trappola appiccicosa. Il tutto rivisto ed adattato per l’uso ad alta velocità, nel contesto di una ruvida strada asfaltata o  addirittura, lo sterrato. Il video promozionale, mandato in onda sulla Fox ed incluso in apertura, potrebbe bastare a convincere qualsiasi esigente capo dipartimento della polizia. Il SUV Chevy Tahoe di Stock si avvicina di soppiatto all’auto “sospetta” quindi con l’attivazione dell’apposito comando, estende l’inconsueto meccanismo montato sul suo parafango anteriore, formato da due aste estensibili del tutto simili agli arti dell’aracnide. Tra di essi, all’improvviso, si palesa un incrocio di resistenti corde elasticizzate in nylon, che lentamente si avvicinano al bersaglio, con l’aumento di velocità da parte dell’inseguitore. Quando raggiunta finalmente la ruota posteriore sinistra, l’intero apparato viene risucchiato in avanti dalla sua rotazione e la blocca con violenza, causandone il totale sgonfiamento. Ma non è finita. Qualora il malvivente dovesse decidere di continuare la sua corsa, egli scoprirà di essere saldamente assicurato al suo catturatore, da una lunga ed elasticizzata fune, ancorata alla pesantissima Tahoe. Ed a quel punto, non potrà far altro che spegnere il motore, e lasciar progredire ulteriormente la sua condizione disperata, in un modo o nell’altro…

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L’autobus tra due sportelli ed altri casi di super-trasporto umano

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Video come questi. Scene che ti aprono la mente, gli occhi, il portafogli. Alla ricerca di un concessionario d’importazione delle rustiche automobili GAZ Volga che purtroppo, qui da noi, risulta assente fin dal primo dei giorni di scuola. Sarebbe facile sottovalutare le doti d’inventiva ed il senso pratico del popolo della Baschiria, in primo luogo perché molti non hanno neppure chiara la posizione, di un simile paese. E non solo. Perché una volta approfondito l’argomento diventa chiaro che si emana, da questo freddo territorio di 143.600 km² ad Ovest degli Urali, un alone di competenze ingegneristiche e di senso pratico che può indubbiamente dirsi rappresentativo dell’intera Federazione Russa, ma in modo particolare di quella fascia di popolazione nazionale che, piuttosto che rinchiudersi tra le incolori mura di un ufficio, si è ritrovata a fare la serie di scelte di vita che in genere ti portano a condurre l’interessante vita del manovale. E chi ha detto che fuori da un contesto lavorativo suddiviso in rigidi dipartimenti, e sottoposto allo scrutinio continuo di un capo dagli occhi di falco, le giornate diventino per forza prive di sorprese? Il senso e il significato della parola “sfida” è infatti soggettivo, e in ogni campo dello scibile si può trovare, nei recessi più profondi, l’intangibile particella di Dio. Che poi sarebbe, in altri termini, l’umana creatività.
“Oh, gli amici di Bashki arrivano finalmente al lavoro.” Esclama la voce fuori campo [trad. di Evanescent_Intention, redditiano] con un tono suggestivo e vagamente canzonatorio: “Ma vengono tutti con una macchina? Ma non dovevano venire con MOLTE macchine? Ooh, sembrano esserci soltanto quattro persone. Così non va per niente bene. Come facciamo adesso? Ma guarda un po’! A quanto pare, invece, c’è una folla. Stanno uscendo tutti, l’uno dopo l’altro, uno, due…Buongiorno! Buongiorno… Dieci, undici, quindi, diciassette, BUONGIORNO GENTE!” Poi qualcuno si mette a suonare la fisarmonica: mi pare giusto.
Mamma mia, quanti sono? Abbastanza. Da essere iscritti nel libro dei record (di arrangiarsi) anche perché in definitiva il numero fondamentale di quante persone riescano ad entrare dentro ad un veicolo è necessariamente molto soggettivo, per la definizione delle specifiche ragioni di contesto. In primo luogo, di che ruote stiamo parlando, esattamente? I risultati variano sulla base della marca e del modello. Nel 1982, l’Associazione delle Giovani Mogli di Davenport, U.K, probabilmente mentre i loro giovani mariti erano a fumar la pipa dentro un club, sono riuscite a riempire una piccola Leyland Metro con 21 affiatate amiche, portando all’attenzione di tutti l’antica arte delle automobili e dei clown. Soltanto l’anno dopo, un’organizzazione analoga ma maschile di Langenlois (Austria) si è impegnata per conseguire la nuova vetta di 30 anime dietro a un motore. Ma in quel caso, il mezzo era la decisamente più grossa VW Golf. È tutta una questione, come dicevamo, di aspettative della gente. Qualcuno forse direbbe che il più significativo di questi traguardi fu quello raggiunto nel 1989 a Leeks in Inghilterra, che vide 354 studenti di una scuola media stipati dentro a un autobus a due piani londinese. Questo resta, dopo tutto, il caso che coinvolge il maggior numero di persone. Altri invece cercherebbero l’auto più piccola, imbattendosi probabilmente nel caso della Smart che nel 2012, grazie agli sforzi del team di cheerleaders della squadra americana di Glendale, arrivò a contenere per un breve storico momento l’intero staff di 20 flessibili fanciulle, pompom esclusi. Ma in ultima analisi, ciascuno di questi casi fu attentamente costruito per lasciare un segno degno di essere commemorato, e in alcun modo si sarebbe potuto dire, neanche volendo, spontaneo. Il che fa tutta la differenza del mondo. Perché un conto è prodigarsi nell’iper-sovrappopolazione veicolare restando ben fermi in un parcheggio, e sfruttando dunque ogni recesso dello spazio a disposizione, anche a discapito della guidabilità del proprio mezzo di trasporto. Tutt’altra cosa, invece, è approntare un simile apparato per l’universale necessità di risparmiarsi un viaggio (e quindi, tempo; e quindi, denaro) verso il conseguimento dell’imprescindibile paga quotidiana. E i russi sono maestri nell’arte di risolvere i problemi su quattro ruote in modo anti-convenzionale, anche se ad un ulteriore analisi delle prove scientifiche diffuse online, ci sono almeno altri due paesi che non scherzano AFFATTO.
La Mongolia, la Cina…

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