La strada dove tutti frenano a Città del Messico ma l’incidente non può essere evitato

Ci sono luoghi, a questo mondo, in cui la prospettiva di una mera inquadratura con il cellulare può riuscire a trarre in inganno lo spettatore. Quando scorri i video di TikTok e vedi, tra le plurime proposte, la scena di una strada in cui ogni singola persona sembra camminare in modo bizzarro: stranamente rigidi ed eretti, le ginocchia che si piegano a malapena nonostante un visibile sforzo fisico e mentale. Le braccia tese lungo il corpo ed orientate in avanti, come se cercassero di mantenersi in equilibrio. Il ritorno da una festa particolarmente alcolica e animata? Oppure una giornata di vento forte che necessità di tecniche particolari, e tutta la loro attenzione, per non cadere rovinosamente all’indietro? Ma è soltanto quando nel riquadro del video compare un edificio, che le cose iniziano a diventare relativamente più chiare: le mura che si stagliano contro il chiarore di quel cielo, chiaramente inclinate ad un angolo di esattamente 45 gradi. Mentre la precisa ragione di tutto questo, a seguito di un breve intervallo di elucubrazione logica e analitica, potrà diventare maggiormente chiaro se soltanto s’inclina la testa da un lato. Per vedere il mondo non come è stato mostrato, ma nella maniera in cui effettivamente si presentava ai presenti, quando sottoposti alla cattura videografica dall’autore che abbiamo appena incontrato. Lo dice, questo è chiaro, anche un famoso proverbio internazionale: “Quando tutto il mondo sembra storto, è la strada sottostante divergere dalla linea di galleggiamento media degli oceani globali.” Essendo, in altri termini, visibilmente inclinata. Il che non toglie la maniera in cui l’avverbio “visibilmente” possa essere nient’altro che un eufemismo, dinnanzi all’esagerata pendenza di un tragitto come quello del Paso Florentino nel quartiere popolare intitolato al “sindaco Alvaro Obregon” possibilmente un omonimo, piuttosto che l’importante generale della Rivoluzione Messicana nel 1910, poi niente meno che il 46° presidente di quel paese. Dove non soltanto i pedoni, ma purtroppo anche le moto, automobili e furgoni tendono ad andare incontro ad un gramo destino. Quello di trovarsi impossibilitate a rallentare, mentre il mezzo di trasporto scivola direttamente o di lato verso il fondo della vallata o fino ad uno dei numerosi ostacoli a bordo strada, più comunemente definiti “case” o “edifici”. Quando non finiscono a ridosso o al di là del basso strapiombo, situato nel punto in cui è possibile cadere oltre i margini stradali dall’altezza di circa un metro e mezzo fin sull’impietoso asfalto della calle sottostante. Un’esperienza tanto comune e frequentemente ripetuta, anche più volte al giorno, da aver motivato l’installazione da parte degli abitanti locali di vistosi e resistenti dissuasori colonnari, più comunemente detti bollard, con la duplice finalità di proteggere le proprie mura e se stessi, ogni qual volta si compie l’avventuroso passo in avanti che porta a poggiare i propri piedi sulle scale ai margini stradali usate per far vece del marciapiede. Il che non permette ancora d’immaginare con piena efficienza, d’altra parte, quello che succede in questo luogo nel momento in cui, volendo il cielo, cominciasse a ricadere una pioggia insistente. Trasformando il paso nella fedele approssimazione di uno scivolo acquatico, in fondo al quale le lamiere contorte inizieranno prevedibilmente ad accumularsi…

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L’effimera precarietà di chi tocca l’acqua con le ruote dell’aeroplano

Gli occhi lievemente lucidi e del tutto spalancati per l’ingente quantità di birra che aveva appena finito di trangugiare, il gioviale Oscar avvicinò le mani al fuoco, mentre assumeva un’espressione a metà tra il diabolico e l’entusiasta. Rivolgendo uno sguardo al suo pubblico eterogeneo, rivolse un breve cenno all’indirizzo della Luna, prima d’iniziare ancora una volta la disanima del suo racconto: “È la verità, vi dico. L’ho visto personalmente la scorsa estate, mentre mi trovavo sulle sponde del lago Santa Lucia. Con i coccodrilli che spalancavano la bocca spaventati, mentre un’intero stormo di fenicotteri tentava di eclissarsi alla velocità massima consentita dalle loro ali. La ragione di tutto questo? Un piccolo Piper giallo assolutamente privo di galleggianti, in prossimità dell’orizzonte, che si era progressivamente avvicinato all’acqua fino ad innalzare un’onda simile a quella del motoscafo. Un’eventualità apparentemente impossibile, finché non mi resi conto di quello che stava effettivamente succedendo: il pilota era letteralmente “atterrato” sull’acqua, che per buona misura era diventata rigida come la pista di un aeroporto! Strizzando gli occhi, allora, la vidi: la coppia di pneumatici anteriori del carrello d’atterraggio, parzialmente immersi sotto il pelo della superficie trasparente. Costui li stava, a tutti gli effetti, lavando…” Ci furono alcuni secondi di silenzio nell’accampamento di quell’affiatato gruppo d’amici, uniti da una passione di lunga data per il buon cibo e la storia dell’aviazione. Quindi una serpeggiante risata, progressivamente, si trasformò in un sonoro schiamazzo mentre i più vicini facevano a turno dargli pacche sulle spalle. Tutti conoscevano Oscar e la portata spesso improbabile delle sue storie. Senza nulla togliere alla chiara finalità di far divertire il prossimo, espresso con ogni singola fibra del suo modo di fare. Eppure una persona, in prossimità della tenda più vicina, lo stava scrutando con espressione intensa al candido risvolto di quei momenti. Circa una mezz’ora dopo, con la festa scemata e già diversi membri della congrega recatosi a riposare all’interno dei propri sacchi a pelo, Scully Levin lo avrebbe preso da parte, rivolgendogli una raffica di domande particolarmente impegnative. “Quanto credi che andasse veloce? L’aereo era parallelo al suolo? Aveva abbassato i flap? L’assetto ti sembrava stabile o veniva corretto di continuo?” Quasi come se veramente, la mattina successiva, l’esperto pilota tra i più vecchi membri del gruppo avesse maturato l’intenzione di tentare la stessa impresa.
Le cronache non riportano, in effetti, l’esatta data di questi eventi né l’orario in cui lo spericolato utilizzatore di velivoli avrebbe dato corpo al suo sogno di rendere un potenziale volo pindarico, tangibile ed impressionante verità. Appare ragionevole pensare d’altra parte che Levin abbia vissuto quest’esperienza attorno all’anno 2006, quando chiamando a se il gruppo affiatato della propria squadriglia acrobatica, i Flying Lions a bordo dei loro iconici Harvard col motore ad elica, decise di mettere in pratica la manovra dinnanzi a un pubblico riunito sulla sommità della diga Klipdrif, in prossimità di Potchefstroom. Siamo, come potrete forse aver già capito, nella parte settentrionale del Nord Africa, dove il pubblico apprezzamento per le più ineccepibili imprese compiute con mezzi volanti a motore è tale da aver permesso nelle ultime decadi la proliferazione di una notevole quantità di stormi privati ed autogestiti, estremamente competitivi nel contesto degli show di settore. Ed ogni novità possibile viene accolta, in genere, con considerevole entusiasmo collettivo…

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Come slitte in tronchi di banani custodiscono le audaci tradizioni di Rapa Nui

Vivere nel luogo più isolato della Terra ha chiaramente i suoi vantaggi, soprattutto di questi tempi: preoccupazioni limitate in merito a guerre, pandemie o crisi economiche, totale inesistenza sul carnét di terroristi ed altri detrattori della società civile. Sebbene nel caso dell’Isola di Pasqua, territorio periferico del Cile nel bel mezzo dell’Oceano Pacifico, ciò abbia comportato storicamente un tipo assai specifico di problema… Sto parlando dell’esaurimento, progressivo e inarrestabile, di ogni potenziale risorsa a disposizione, ivi inclusa quella di alberi da usare per la produzione di legname, materia prima imprescindibile per continuare la costruzione dei tradizionali Moai, le teste di pietra tanto rappresentative di questa cultura senza termini di paragone, tanto spesso decontestualizzata dalla narrativa popolare contemporanea. Condizione ambientale che come narrato in maniera storicamente imprecisa ma concettualmente corretta dalla celebre pellicola del 1994, Rapa-Nui, avrebbe portato tali genti, verso l’inizio del XVI secolo, a duri conflitti tribali accompagnati dalla convinzione di essere gli ultimi umani sulla Terra, con conseguente venerazione del mistico Tangata manu o Uomo uccello, una creatura incline a proteggerli in cambio di continue prove di abnegazione e di forza. Vedi il coraggio necessario a lanciarsi a una velocità di circa 80 Km orari, giù dalle pendici del vulcano Maunga Pu’i, con un’inclinazione di 45 gradi mantenuta per oltre 300 metri di tragitto. Mansione ottenibile, allo stesso modo dell’antico arrivo dei coloni polinesiani presso questi lidi, tramite la costruzione di speciali canoe, ricavate in questo caso da due pseudofusti della pianta delle banane tagliati e legati assieme, che contrariamente all’apparenza non costituisce un albero bensì una pianta erbacea, e proprio per questo ancor più funzionale al principio estremo di scivolamento verso l’obiettivo finale. Gloria, vittoria, eternità, princìpi conseguiti da ogni singolo partecipante, ma in modo particolare i vincitori, del pericoloso rituale dello Haka pei. Anticamente un rito riservato al raggiungimento dell’età adulta e conseguente ingresso nelle schiere dei matato’a o guerrieri, mentre oggi viene celebrato esclusivamente nel contesto della grande festa annuale del Tapati, che si configura ad ogni mese di febbraio come la più prossima equivalenza di un vero e proprio concetto di Olimpiadi isolane, finalizzato all’elezione di una “coppia regale” al termine delle prove. Consistenti in corse di cavalli, maratone, attività creative quali la danza e la pittura e infine… Tale terribile dimostrazione, portata innanzi ormai da poche decine di coraggiosi, che regolarmente si conclude con svariati infortuni di variabile entità. Questione ancor più grave, quando si considera le svariate ore di volo che separano eventuali feriti dal più vicino ospedale cileno. Non che questo sembri condizionare eccessivamente, coloro che paiono convinti a tutti gli effetti della propria fisica immortalità quando percorrono l’antica via maestra…

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Per tornare salvi dal subcontinente, non avvicinarti all’orso labiato indiano

Nulla riesce a esprimere il concetto della calma prima della tempesta, che una scena di siffatto tenore: il gran felino giallo a strisce nere, accovacciato in mezzo all’erba, che sorveglia di soppiatto una creatura scura, dalla corta coda che sia agita mentre appare intenta a emettere un particolare tipo di rumore. Non così diverso da un aspirapolvere industriale, motivato da un bisogno ragionevolmente allineato con tale strumento dell’ambiente umano. Fatta eccezione per un PICCOLO dettaglio: l’aspirazione elettiva di formiche, piuttosto che soltanto polvere del cosmo trasandato e dismesso. Un mezzo passo alla volta, dunque, l’imponente tigre si avvicina all’orso nero con la testa a terra, confidando in una valida riuscita dell’agguato tante volte messo in pratica nel corso della sua lunga esistenza predatoria. Se nonché qualcosa, come un vago presentimento, porta la presunta preda a sollevarsi. Voltandosi di scatto per mostrare, agli occhi dell’aspirante Shere Khan, la forma chiara di una V sul petto, segno iconico e fin troppo ben riconoscibile tra chiunque abbia tentato di disturbarlo. Quel mirmecofago rabbioso, in un simile momento fatale, si solleva allora sulle zampe posteriori. Lasciando all’attaccante il compito di un chiaro calcolo dei rischi e delle ricompense. Il quale con un ringhio soffuso, decide di voltarsi e ritornare dìndi si era palesata prima del configurarsi di tale incontro. Strano. Imprevedibile. Sorprendente. Che cosa può riuscire a spaventare il felino più grande, aggressivo e pericoloso al mondo? Ancora una volta, è la letteratura a venirci in aiuto. Con la descrizione effettuata da Rudyard Kipling del suo amato personaggio, l’allegro danzatore Baloo. Un orso si, ma non del tipo che il film disneyano avrebbe potuto indurvi a pensare.
Poiché togli il Libro della Giungla da quel vago tipo di ambientazione “selvatica” cui viene tipicamente associato, o il setting fantasy-africano dell’ultima incarnazione cinematografica in live-action, e tutto quello che resta nella concezione originaria dell’autore si colloca perfettamente in una particolare regione dell’India orientale. Dove i plantigradi di certo esistono, ma sensibilmente più piccoli del tipico orso bruno europeo o nordamericano, riuscendo a raggiungere in media gli 80-150 kg di peso. Creature il cui nome scientifico Melursus ursinus vuole costituire un diretto riferimento alla loro ben nota passione per il miele d’api, benché la dieta tenda ad includere anche grandi quantità viventi di un diverso tipo d’imenottero, famoso per lo scavo d’intricate gallerie sotterranee al fine di ospitare le proprie comunità prive di ali. Formiche risucchiate grazie all’uso del suo labbro superiore grande e muscoloso, privo d’incisivi sottostanti al fine di formare un miglior tipo d’imbuto, mentre giunge a risucchiare anche parecchie migliaia d’insetti nel corso di una singola nottata di lavoro, prima di tornare sulla cima del suo albero a dormire. Ma poiché la legge di quel bioma, la fitta giungla asiatica, costituisce un luogo inospitale e spietato, può pur sempre capitargli di trovarsi allo scoperto mentre sopraggiunge l’ora del pasto per un grande felino del doppio del suo peso, ragione valida al fine di sfoderare il paio di canini acuminati di cui l’evoluzione ha mantenuto la presenza. Assieme alla particolare caratteristica fisica, da cui deriva l’altro nome assegnatogli dalla cultura generalista: sloth bear, l’orso bradipo dalle zampe sovradimensionate, ciascuna dotata di cinque artigli acuminati e ricurvi che non sfigurerebbero in un film dell’orrore. Tali da suscitare un certo tipo di esitazone, anche nell’aggressore più sfegatato…

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