F7U Cutlass, il caccia che sembrava odiare il suo stesso pilota

Nel luglio del 1954 il pilota della marina Floyd Nugent si trovava in volo sopra l’isola del Nord di San Diego quando il suo aereo sperimentale della Vought smise, improvvisamente, di rispondere ai comandi. Sospettando un guasto al sistema idraulico, eventualità tutt’altro che improbabile, l’uomo decise di seguire alla lettera il manuale delle procedure, lanciandosi con il paracadute. Ma contrariamente a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, il velivolo a questo punto non precipitò affatto. Entrando in un circuito dalla forma ovale, girò piuttosto attorno all’edificio di un hotel pieno di gente per ben tre volte. Quindi con la massima leggiadria possibile, puntò dritto verso la spiaggia. Per toccare terra e fermarsi conseguentemente avendo subito danni di natura, tutto sommato, trascurabile. 16 mesi dopo, a bordo di una versione migliorata dello stesso strano apparecchio, il tenete George Milliard stava effettuando un atterraggio sulla portaerei USS Hancock, una tipica classe Essex di quei giorni priva di ponte d’atterraggio angolare. Il che comportava la necessità, per i piloti, di agganciare la più grande quantità possibile dei 12 cavi d’arresto prima di andare a sbattere contro la barriera di sicurezza finale. Qualcosa tuttavia, in quel caso, non sembrò funzionare con il sistema di arresto del carrello ed una volta raggiunta l’ultima fermata l’F7U Cutlass fece ciò che notoriamente gli riusciva meglio: cadde bruscamente in avanti, dopo che la sua altissima ruota frontale si era letteralmente staccata dal pilone di sostegno. Così che quest’ultimo, penetrando dal basso nella cabina di comando, fece scattare il meccanismo di eiezione, catapultando Milliard per 60 metri in avanti. Appena sufficienti, purtroppo, per finire contro la coda di un Douglas A-1 sul ponte della nave, morendo in seguito per via delle ferite riportate. Un epilogo terribile purtroppo non dissimile da quello vissuto dai molti piloti coinvolti in uno dei progetti maggiormente scellerati dell’intera storia ingegneristica statunitense, nonostante le ottime premesse ed il funzionamento, sulla carta, del tutto privo di difetti.
Chi avrebbe mai potuto dubitare d’altra parte, in quegli anni, della competenza della Chance Vought? Compagnia con quasi mezzo secolo d’esperienza, essendo nata circa una decade dopo l’invenzione dei fratelli Wright a cui uno dei fondatori aveva lavorato, nonché creatrice del rinomato F4U Corsair, tra gli aerei più formidabili della seconda guerra mondiale. Non sembrò esserci dunque nulla di sbagliato quando sul finire del conflitto la commissione incaricata di selezionare i primi jet a reazione al servizio delle forze armate americane, tra cui uno che potesse essere imbarcato raggiungendo i 970 Km/h e un’altitudine di 12.000 metri , optò per la proposta della compagnia texana. Che si era presentata per l’appalto con qualcosa di decisamente accattivante, per lo meno in teoria: un caccia multiruolo con enormi ali a freccia ma privo di alcun tipo coda, con due motori ed altrettanti impennaggi per il timone, condotto mediante l’utilizzo delle superfici di volo sulle ali note come elevoni, alquanto avveniristiche per la sua epoca di appartenenza. Ma l’ambizione tecnologica, secondo alcune fonti basate sui progetti dell’Arado Flugzeugwerke tedesca catturata assieme al resto del gotha ingegneristico nazista, non si fermava certamente al solo aspetto estetico. Con un sistema di pilotaggio antesignano dell’odierno fly-by-wire, in cui l’operatore immetteva i comandi attraverso il fluido idraulico mantenuto ad elevata pressione, ricevendo in cambio un feedback di ritorno totalmente simulato capace d’informarlo sul comportamento dell’aereo. Così avanzato che quando sviluppava una perdita o si guastava in altro modo, erano richiesti fino a 11 secondi perché entrasse in funzione un meccanismo di controllo manuale. E qualche volta, sfortunatamente, non succedeva affatto…

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L’assurda persistenza dell’igloo gigante costruita da un visionario alaskano

Mamma orsa guardò i suoi cinque orsetti uno dopo l’altro, pensando se fosse davvero il caso di proseguire in quella direzione. “Le costruzioni più grandi di uno stagno boschivo possono essere pericolose. Ma questa qui è… Diversa.” Priva di rumori, circostanze o abitanti particolari, sebbene di tanto in tanto fosse possibile osservare una delle grandi creature di metallo “parcheggiate” fuori dall’alta muraglia convessa, con i suoi occhi rettangolari intenti a scrutare verso gli alberi e la strada antistante. A dire il vero c’era un’automobile anche adesso, ma pareva convenientemente sopita. “E tutto sommato… Perché no. Potrà essere per loro un’occasione di crescita. Permettendoci allo stesso tempo di trovar rifugio, almeno per qualche decina di minuti, dal sibilo impietoso del vento!” Così l’esemplare adulto di Ursus arctos horribilis, il folto pelo marrone agitato come una criniera leonina, decise per una volta di fare strada, spingendo da una parte con la zampa il mucchio di detriti accumulatosi negli anni attorno all’uscio dalla porta convenientemente spalancata e parzialmente fuori dai cardini: bottiglie, lattine, qualche busta di plastica, pezzi di legno… Con incedere deciso e formidabile, la madre protettiva fece i primi passi dentro il cavernoso ambiente, osservando di sfuggita gli alti pali perpendicolari interconnessi l’uno all’altro, per formare l’equivalenza visitabile della vera volta di una cattedrale, costruita sulla base di calcoli matematici ben precisi. Non che un’orsa, come lei, potesse dire di conoscere effettivamente tali termini figli di uno stile alternativo del pensiero. In quel momento, tuttavia, annusò e sentì al tempo stesso qualcosa d’inaspettato al di sopra del persistente olezzo d’urina concentrato in molti luoghi costruiti dall’uomo. Nell’estremità opposta all’ingresso (questo ambiente, chiaramente, era del tutto privo di “angoli”) un esemplare alquanto giovane della stirpe bipede si stava svegliando, fissando uno dei suoi cuccioli con espressione preoccupata. Possibile che avesse trascorso qui la notte? Con quale pasto nello zaino, e perché? Adesso l’occupante si era messo a sedere, tirando fuori quello che sembrava essere un panino e spezzandolo a metà, mentre guardava con un mezzo sorriso verso il piccolo maggiormente vicino a lui. Gli altri parevano in effetti del tutto immobili e per uno strano scherzo del destino, momentaneamente in ombra alla stessa maniera della loro imponente genitrice. La quale ben capiva, ad un livello basico, che nessuno della sua famiglia si trovava attualmente in pericolo. Benché nulla in questa considerazione risultasse sufficiente a elaborare un tipo di comportamento alternativo. Chi toccava un membro della sua preziosa prole doveva essere distrutto. Con un profondo respiro per prepararsi all’univoca battaglia, mamma orsa sentì allora il sangue convogliato verso il suo lobo frontale cranico e dietro gli occhi spalancati ed attenti. Assieme ad esso, la rabbia… Poi un quieto senso di colpa, accompagnato dalla cupa soddisfazione.
Ci sono naturalmente plurime ragioni per non esplorare strani edifici dislocati in mezzo all’assoluto nulla fatta eccezione per la sottile striscia d’asfalto che si estende tra Anchorage e Fairbanks, in prossimità di stazioni di servizio abbandonate. E la principale tra queste è la presenza di un temuto superpredatore non del tutto benvolente per quanto concerne i possessori di documenti e chiavi di casa; l’imponente orso grizzly con la prole al seguito, che può risultare particolarmente problematico in estate. Oltre al resto dell’anno, s’intende. Il che non fu mai sufficiente né davvero preso in considerazione dall’ingegnoso costruttore di tutto questo, l’uomo dal nome di Leon Smith che dopo aver combattuto i giapponesi a Guadalcanal (così narra la biografia per niente ufficiale) decise di dar vita al suo sogno, costruendo una pompa di carburante lungo l’estendersi dell’Ultima Frontiera, da cui accumulare fondi sufficienti a costruire qualcosa di assolutamente inusitato: un resort-hotel, ma anche di per se un’attrazione turistica, incorniciata nel paesaggio unico delle grandi foreste e svettanti montagne del territorio alasakano. Con intento e una capacità di concentrarsi certamente fuori dal comune, benché dire che il progetto sia andato incontro a un “mero” fallimento potrebbe essere visto come il più scontato degli eufemismi. E il risultato, dopo cinque decadi, persiste imponente sotto gli occhi di tutti…

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Il paradosso a serramanico dell’orso imprigionato nel contenitore

Metallico bagliore in mezzo ai rami, oggetto fuori dal contesto in mezzo agli alberi della foresta. Dicitura in un riquadro giallo: “Attenzione: la porta può aprirsi senza alcun preavviso.” Ma si tratta di una contraddizione in termini, giusto? Se mi stai avvisando che la porta può aprirsi, tale condizione non potrà in effetti cogliermi del tutto impreparato. Fatta eccezione per quello che potrebbe accadere, poco dopo. Qualora soffermandomi per qualche attimo, impiegando il cellulare, dovessi ritrovarmi ad inserire su Google il marchio Alter Enterprise seguito dal preciso numero di quel brevetto, anch’essi riportati sul metallico implemento tubolare. Per trovarmi innanzi alla definizione chiarificatrice di ABT: Automatic BEAR trap. Come a dire orso, orso delle circostanze sfortunate, orso che quando vorrà esprimere il proprio fastidio nei confronti dell’umanità, per via di eventi appena giunti ad un catartico coronamento, sarà meglio che si trovi nelle condizioni di assoluta solitudine. Piuttosto che a quattrocchi con… Escursionisti eccessivamente curiosi. Una serie di pensieri simili attraversano le mie sinapsi, così come il suono del motore che solleva lentamente il portellone della scatola dei misteri. Che in maniera totalmente prevedibile, vede aprirsi e fuoriuscire l’animale all’interno. Veloce come un fulmine, altrettanto arrabbiato.
Eravamo così concentrati sul fatto che potevamo, da non arrivare a chiederci se veramente fosse il caso di FARLO: così anno dopo anno, una generazione di seguito all’altra, abbiamo continuato a espandere i nostri interessi fino ai territori del caro vecchio plantigrado peloso dalla stazza di fino a tre quintali e mezzo. Per poi farci spazio eliminando gli esemplari “in eccesso” catturandoli e spostandoli altrove, senza nessun tipo di considerazione per la contingenza che immancabilmente ne sarebbe derivata. Per cui tolti tutti gli orsi presi con le tagliole, le carcasse elettrificate, le corde appese agli alberi, quelli rimasti sarebbero stati i più scaltri e intelligenti, ovvero attenti ai minimi dettagli delle circostanze avverse poste in essere dall’uomo. Così l’idea del tipo di apparato noto come “trappola culvert” (a forma di tubo) in cui l’animale viene indotto a entrare tramite l’impiego di un’esca. Agguantata la quale, sul fondo del pertugio eponimo, la porta d’ingresso scatterà in maniera sufficientemente rapida da non costituire un rischio per l’incolumità dell’animale. Tanto che un tale soluzione viene definita “benevola” o “umanitaria” proprio perché permette di tenere in vita la sua vittima, mentre la si sposta tramite l’impiego di un rimorchio automobilistico nel nuovo luogo che dovrà ricevere l’incombenza non sempre semplicissima di ospitarla. Ma il problema di qualsiasi trappola per animali è che una volta che raggiunge l’obiettivo per cui è stata posta in essere, il responsabile dovrà passare fisicamente a controllarla almeno una volta al giorno. O nei casi di località particolarmente remote, anche in periodi ancor maggiori di così. Durante i quali l’essere all’interno potrebbe ferirsi, surriscaldarsi o subire una condizione di stress eccessivo. Da qui l’idea ingegnosa della Alter, azienda di Missoula nello stato largamente rurale del Montana…

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Il regno incontrastato dei trenini che si estende tra le plurime foreste oregoniane

“Se la Terra fosse grande quanto una pallina da ping pong, la sua distanza dal Sole sarebbe di 460 metri.” È per questo che ai fini di effettuare dimostrazioni scientifiche, non è opportuno che la Terra abbia dimensioni superiori a una pallina da ping pong. Va d’altra parte anche considerata la maniera in cui, nonostante il suo velato ed ingiustificato senso di aleatoria familiarità, il sistema planetario a cui noi apparteniamo sia costituito in larga parte dal vuoto cosmico, ragion per cui prende il nome di Spazio e non, tanto per dirne una: “Grande oceano popolato da una pletora di pesci e altre creature.” Se dovessimo d’altronde immaginare un ipotetico futuro, in cui stazioni spaziali, ferrovie astronautiche a la Galaxy Express 999, punti di approdo asteroidali e piccole stazioni fluttuanti di altra natura dovessero riuscire a costellare questi territori, sorgerebbe l’esigenza di costruirne, da qualche parte, un plastico in scala maggiore. Altrimenti come potremmo riuscire a immaginare, senza staccare i piedi dal pianeta che ci ha dato i natali, di vedere con i nostri occhi Marte, Venere o gli anelli luminosi del grande Saturno? Ebbene se una simile possibilità dovesse mai effettivamente palesarsi, non è irragionevole pensare di conoscere già il luogo dell’impresa: le vie ferrate di Chiloquin, Oregon, contea di Klamath, non lontano dal famoso Crater Lake Park. In un luogo noto tematicamente e in modo almeno parzialmente descrittivo come “Train Mountain” benché non sia (soltanto) una montagna, contenendo anche diverse valli, colline, vari boschi e i suoi percorsi, serpeggianti in mezzo a quella che potremmo definire l’incomparabile e ragionevolmente incontaminata natura. Dove la Terra avrebbe un diametro corrispondente grosso modo all’altezza del Messico e una locomotiva la capacità d’ingombro di una marmotta adulta. Bestia di metallo dalle dimensioni forse contenute, ma cionondimeno in grado di trasportare assieme alle sue molte consorelle un carico pensante ed entusiasta in giro per i 2.205 acri ed oltre 40 Km di binari di quel territorio in “miniatura”, completo di rimesse, scambi elettrici del tutto funzionanti, piccoli paesi in miniatura, torri di approvvigionamento idrico e veri e propri ponti a traliccio, per non parlare del tunnel lungo 91 metri posto a transitare sotto il corso di un’autostrada full-size. Benvenuti, dunque, in quello che pur avendo le caratteristiche, l’aspetto, il funzionamento, l’organizzazione, i metodi promozionali di un luna park, è in effetti più che altro un museo a cielo aperto. Forse il più atipico, a suo modo memorabile degli Stati Uniti e del Mondo…

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