Il problema più comune quando abbocca un luccio alligatore

Ombre che si aggirano sotto la superficie trasparente di una lanca, ansa preistorica di un fiume rimasta separata dal corso principale. Finché nella stagione delle piogge, in Texas, la piena temporanea non permette loro di tornare verso il grande corso e la distante foce costiera. E da lì, ovunque possa trasportarli il loro desiderio di vagabondare. Non c’è praticamente nulla, che possa fermarli: acqua dolce, acqua salata, profonda o il suo contrario, ricca di nutrienti o popolata di un piccolo numero di creature, che loro cacciano un poco alla volta, giacendo immobili in agguato tra le sabbie millenarie. Li chiamano alligatori, mostri e coccodrilli, ma non sono niente di tutto questo, in realtà. Bensì Lepisosteidi, ultimi della loro famiglia, accomunati dal sapere popolare ai lucci d’Europa. Anche se costituiscono, nei fatti, un esempio di un qualcosa di completamente diverso. Ovvero un fossile rimasto  in vita fino ai nostri tempi, creatura senza un’epoca specifica che gli appartenga, poiché l’intero corso della storia umana è nulla, rispetto agli eoni millenari da cui emana uova, le feconda e poi si riproduce, noncurante dei mutamenti climatici e le altre trasformazioni del suo ambiente naturale di provenienza. Uno stile di vita, questo, in grado di generare veri e propri mostri, intesi come unioni più o meno coerenti di percorsi evolutivi distinti, verso il raggiungimento di uno stato ideale di prosperità collettiva.
È pronto a dimostrarcelo quest’uomo soprannominato Ty Pigpatrol, nel corso di una collaborazione internettiana col collega e connazionale Fish Whisperer, altro noto pescatore di YouTube. Quando, durante un’escursione lungo il Trinity River, per caso o per fortuna abbocca alla sua lenza qualcosa di GROSSO. Di davvero imponente, gigantesco, ponderoso, tanto che i presenti all’occasione non ci mettono poi tanto ad esclamare: “Deve certamente trattarsi di un gar.” Pesci in grado di raggiungere, in casi particolarmente eccezionali, quasi i 150 Kg e benché questo non sia affatto il caso, un esemplare lungo quanto un manico di scopa può può causare qualche grattacapo, a partire da quello niente affatto indifferente di riuscire, se possibile, a portarlo fino a riva per la fotografia di rito. Così abbiamo per un paio di minuti l’occasione rara di osservare Ty al lavoro, con visuale in terza persona (normalmente, lui lavora in solitario con la telecamera sul petto per commemorare l’impresa) mentre tira, tira e gira il mulinello, finché non si ode un suono secco ed improvviso: CRAACK. Soltanto pochi istanti, un attimo frenetico per dare un senso alla realtà: il pescatore si ritrova con la canna in una mano e dentro l’altra… Il mulinello. “Si è spezzata! Si è spezzata!” Grida all’indirizzo dei colleghi, con un tono che è a metà tra meraviglia e rabbia, come ci si aspetterebbe da qualsiasi pescatore esperto in una simile spiacevole contingenza. Ma poiché l’occasione di girare un video come questo è d’oro, gli altri accorrono immediatamente, per aiutarlo in qualche modo a compiere l’impresa. Uno gli tiene la canna, mentre l’altro tenta di reggergli fermo il marchingegno, mentre lui continua nell’essenziale gesto di riavvolgere il filo. In breve tempo ci si rende conto che così non va, motivo per cui prende a reggerle lui stesso quest’ultimo elemento, prima che qualcuno torni con un lungo pezzo di fil di ferro. L’emergenza scongiurata, dunque, lo strumento torna temporaneamente in un singolo pezzo, e benché la riparazione non sia particolarmente bella o pulita a vedersi, nel complesso basta chiaramente a completare l’obiettivo. E in breve tempo, l’imponente pesce si ritrova lì con loro, che lo volesse, oppure no.
La prima volta che si vede un luccio alligatore dal vero non è facile da dimenticare. Quella bocca larga e piatta, come quella del rettile che gli da il nome, e il corpo ricoperto di una vera e propria armatura, fatta di scaglie tanto rigide e resistenti che in origine, i nativi americani erano soliti usarle per foderare gli aratri. E la doppia fila di denti lunghi e ricurvi, capaci di far pensare alla versione acquatica di un piccolo tirannosauro, finalizzati ad impalare e intrappolare le tipiche vittime di questo arguto predatore: pesci, pesci più grandi e qualche volta uccelli o piccoli mammiferi, tanto incauti da essersi avvicinati ai confini del suo regno abissale. Creature non particolarmente combattive, nel tentare di sfuggire all’amo, ma che una volta messe a secco iniziano il più delle volte ad agitarsi in varie direzioni, rischiando di colpire i pescatori con la coda e perché no, ferirli con un morso particolarmente fortunato. Non che sia questo il caso e poi del resto, i qui presenti hanno troppa esperienza per essere colti impreparati da un simile stratagemma. Detto questo, il loro senso di stupore e meraviglia dinnanzi a una cattura tanto magnifica e imponente non può che essere reale…

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Il cannone pneumatico, ultima ratio del pescatore

Fra tutte le imprese compiute in tempi di guerra, la meno celebrata resta molto probabilmente quella dei convogli. Gruppi di navi, spesso condotte da civili, incaricate di attraversare gli oceani, per portare rifornimenti o truppe fino al fronte di battaglia, esponendosi a una quantità enorme di rischi. Negli anni immediatamente successivi al 1940 in particolare, le imbarcazioni inglesi e dei loro alleati erano solite affondare senza nessun preavviso, per l’intervento spietato di un sommergibile silurante. Ma c’era un altro avversario, a differenza di questo prevedibile, ed a conti fatti non altrettanto letale: l’aereo della Luftwaffe. Aereo d’assalto in picchiata o caccia a seconda dei casi, soltanto più raramente bombardiere strategico, essendo questi ultimi riservati a bersagli fissi in pieno territorio nemico. Così che, per colpire il bersaglio, questi doveva giungere particolarmente vicino allo scafo. Esponendosi al contrattacco da parte dei marinai. Ora la Royal Navy, per quanto potente, non poteva permettersi di posizionare un cannone antiaereo su ciascun vascello con mansioni logistiche. Ed a dire il vero, neanche una pluralità di mitragliatrici. Ciò che poteva concedere, invece, era una pletora di proiettori Holman. Armi costituite, essenzialmente, da nulla più che un tubo di metallo, con un serbatoio per l’aria compressa nell’estremità posteriore. Il quale veniva riempito di una certa quantità di granate Mills (il classico “ananas”) e quindi puntato verso il cielo. Finché il rombo del motore soprastante, percepito in anticipo, avesse lasciato intendere che il momento era giunto. E per difendere la nave, una, due o tre di queste armi venissero fatte catapultare, con un tonfo sordo, il loro carico all’indirizzo dell’avversario. Ora, quante pensate che fossero le probabilità di colpire un formidabile Stuka o un Messerschmitt della serie Bf sfruttando simili marchingegni? 1 su 10? 10 su 100? Forse ancor meno ma la realtà è che poco importava: l’obiettivo principale era spaventare il pilota, creando inoltre uno schermo di fumo che l’avrebbe costretto a rilasciare il suo carico letale da una maggiore distanza di sicurezza, incrementando le probabilità che sbagliasse il colpo. Simili aerei potevano sganciare, in effetti, un massimo di 3 o 4 bombe prima di dover andare a rifornirsi alla base. E a quel punto, l’imbarcazione sarebbe stata salva.
Il cannone Holman, nient’altro che una versione bellica di quello che negli Stati Uniti chiamano spud o potato cannon fu quindi trasformato in un giocattolo, usato dai bambini per proiettare pezzi di tubero verso bersagli distanti. Finché il progressivo diffondersi della Tv e dei videogiochi, assieme alla culture pericolose delle armi e delle cause civili, non avrebbe portato i genitori a relegare un simile attrezzo diabolico nel dimenticatoio. In tutti i casi, tranne uno: quello di chi ama recarsi in spiaggia, canna da pesca alla mano, per tentare di procurarsi un pranzetto pinnuto.  Pescare può essere divertente. Pescare a quel modo può anche essere, deludente. Specie per tutti coloro che, non essendo campioni olimpici del lancio del peso, devono accontentarsi di scagliare la lenza a un paio di decine di metri, potendo aspirare al massimo a qualche pesciolino della grandezza approssimativa di un’aringa obesa. Se non che le voci corrono, e sebbene al giorno d’oggi sia difficile risalire a chi ci abbia pensato per primo, nelle spiagge di quel paese è oggi talvolta possibile vedere persone, con un contegno assolutamente serio, che si recano fino al bagnasciuga portandosi l’equivalente plasticoso di un vero e proprio fucile anticarro. Per poi inserirvi dei grossi tocchi di pesce surgelato, facente funzione d’esca, nascondente all’interno il piombino e l’amo connessi a una canna da pesca di tipo convenzionale. Poco prima di estrarre la pompa da bicicletta, e prepararsi a far fuoco.

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L’irrazionale paura del pesce che penetra nei genitali

L’esperienza soggettiva di chi visita le vaste foreste brasiliane può rappresentare un momento piacevole, ma anche il giorno in cui ci s’inoltra nelle più oscure profondità del terrore umano. Il superamento di un confine, più ancestrale che turistico, tra la ragionevolezza di una natura per lo più indifferente alle sue espressioni più ostili e sinistre dell’esistenza su questa pianeta. “Fate attenzione ai caimani” affermano le guide turistiche. “Fate attenzione a non attirare i giaguari.” Oppure: “Fate attenzione agli artigli dell’aquila arpia” e più in generale: “Fate. Sempre. Attenzione.” E poi c’è una nota a margine del testo, inclusa quasi come un ripensamento, che recita grosso modo: “Ricordate sempre di non fare il bagno nel fiume senza indossare un costume o la biancheria intima.” Sottinteso: oppure potreste subire terribili conseguenze. Curioso. Il modo in cui, intendo, di tanti pericoli chiari sia quello meno apparente e definito a colpire maggiormente la fantasia delle persone, lasciando un senso latente di terrore che difficilmente può essere allontanato dalla memoria. Al pesce candirù, presunto invasore dei genitali a quanto pare soprattutto maschili, sono stati dedicati interi episodi di Grey’s Anatomy, River Monsters ed Horror Stories della BBC; esso viene citato, inoltre, in almeno due romanzi come una delle cose peggiori che possano capitarti: Il pasto nudo di William S. Burroughs e Fight Club di Chuck Palahniuk. In ciascuna di queste iterazioni, l’aneddoto è per lo più concorde (benché talvolta, venga dato per scontato.) Un uomo, possibilmente appartenente ai popoli nativi sudamericani, entra nel corso d’acqua per urinare, immergendosi all’incirca fino all’altezza delle sue cosce. Mentre esegue l’operazione, quindi, avverte all’improvviso un dolore lancinante localizzato nella parte frontale pene: a quel punto, è già troppo tardi. Un minuscolo pesce semi-trasparente di circa 3-5 cm ha percepito il calore emesso dal corpo umano, dirigendosi come un missile a ricerca verso l’appendice carnosa. Quindi raggiunto il getto giallo paglierino, in qualche maniera è balzato, imitando un delfino, per centrare con precisione chirurgica il foro dell’uretra, dove si è immediatamente ancorato con apposite spine retroattive. E sarà ormai per l’appunto, soltanto un chirurgo, a poterlo rimuovere in tempo utile, pena l’avanzamento della suddetta creatura nello stretto pertugio, fino ai più profondi recessi dell’apparato riproduttivo. Dove l’ospite indesiderato, continua la tenebrosa leggenda, inizierà inesorabilmente a fagocitare quanto gli capita a tiro, causando terribili emorragie interne e quindi, la morte.
Che la cultura televisiva moderna abbia ripetuto e promosso su scala internazionale questa spaventosa quanto complessa evenienza, arrivando al punto di segnalarla come “rischio noto” ai visitatori della regione, la dice molto lunga sulla maniera in cui funzioni l’appeal di determinati programmi e la radice stessa del loro successo. Il fatto che questa storia, d’altra parte, trovi il suo primo studioso occidentale già nel 1829, nella persona del botanico-esploratore tedesco C. F. P. von Martius, parla di un letterale universo d’incomprensioni linguistiche tra gli europei e gli indios, unito al possibile desiderio da parte di questi ultimi di spaventare lo straniero, onde allontanarlo dal proprio villaggio o potenzialmente,  prendersi gioco di lui. Dal punto di vista scientifico, il mostruoso candirù è un membro del genus Vandellia, appartenente alla famiglia dei piccoli pesci gatto noti come Trichomycteridae. Sono state identificate negli anni tre specie che potrebbero, ipoteticamente, corrispondere al nome comune dall’origine incerta, il V. beccarii, il sanguinea e il loro simile più comune, nonché potenziale colpevole, il V. cirrhosa. Prove di seconda mano della sua pericolosa propensione tendevano a includere, nei resoconti degli ultimi due secoli, l’osservazione di vari marchingegni o corazze indossate dai nativi per proteggersi i genitali, tra cui l’impiego di un semplice filo allo scopo di chiuderne totalmente il foro d’ingresso. Nel 1891 Paul Le Cointé, naturalista francese, raccontò di aver dovuto trattare una donna che aveva subito l’assalto del pesce nel canale della vagina. Nel suo racconto, sarebbe stato proprio lui ad estrarre la malefica creatura, voltandola con le dita e facendola uscire nel senso contrario alle spine. Questo singolo caso sarebbe rimasto l’unico di un attacco nei confronti di una signora, rincarando l’associazione inscindibile tra un simile essere e una delle più profonde e radicate paure maschili. Ulteriore testimonianza dell’esistenza di un simile pericolo, quindi, sarebbe giunta negli anni ’30 del ‘900, grazie alla testimonianza del Dr. Bach di Parà, il quale raccontava di aver dovuto trattare personalmente alcuni giovani a cui era stato amputato il pene, come rimedio d’emergenza a seguito dell’invasione da parte del famelico candirù, rivelatosi in quel caso resistente alla cura tradizionale del succo dell’albero di jagua (Genipa americana). Ma oggi si ritiene che una causa più probabile della loro condizione fosse stato, semplicemente, un attacco dei ben più familiari piranhas

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L’ultimo samurai del vero tonno giapponese

Alcuni dei più grandi personaggi nei rispettivi campi professionali sono caratterizzati da una lunga serie di aneddoti, ciascuno significativo nel definire le loro specifiche abilità e punti di forza. Persino in tale antologia di successi, tuttavia, ve ne sono alcuni che meritano una menzione particolare. Così è, probabilmente, per la metodologia implementata dal broker Yukitaka Yamaguchi e il suo intervento nella famosa disputa, avvenuta nel 2009, per uno dei più pregiati pesci che abbiano mai posato le loro defunte pinne sul suolo del grande mercato di Tsukiji. Un luogo che potreste conoscere, anche se non siete mai stati a Tokyo: dopo tutto, innumerevoli sono stati i segmenti televisivi, documentari e reportage internazionali dedicati a questo luogo unico al mondo, destinazione turistica irrinunciabile per chiunque ami sushi, sashimi o più in generale la rinomata cultura gastronomica giapponese. Specificando come, tuttavia, la scena in particolare non si sia svolta nel vecchio complesso di edifici in pieno centro cittadino dalla forma angolare, sito a ridosso del costoso quartiere commerciale di Ginza, bensì all’interno del bar di un hotel a Nihonbashi, alla vigilia di un’asta che ci si aspettava potesse superare abbondantemente i 10 milioni di yen (circa 80.000 euro). Immaginate, a questo punto, la scena: seduti al bancone ombroso, di fronte a tre bicchieri di birra due giganti della scena ristoratrice d’Asia: Imada Yosuke, 63 anni, proprietario del prestigioso ristorante Kyubei in pieno centro e Ricky Cheng, 41 anni, general manager della rinomata catena Itamae Sushi con sede a Hong Kong. I due perfettamente in silenzio, mentre aspettano la venuta di colui che li ha convocati lì. D’un tratto i presenti in sala tacciono, mentre dalla porta d’ingresso principale fa il suo ingresso il celebre Yukitaka. L’espressione atteggiata in un lieve sorriso, il passo sciolto di un consumato guerriero di 46 anni pronto a combattere la sua più importante battaglia, il semplice piumino nero e i calzoni da lavoro, come se fosse appena giunto sul luogo di lavoro. Senza proferire parola, egli raggiunge il posto vuoto tra i due convitati e con la massima calma, beve un sorso dal boccale centrale. La matita dietro l’orecchio sinistro, tra i più chiari simboli del suo mestiere, scintilla lievemente per l’effetto delle luci al neon. “Signori, benvenuti. Sarà una lunga serata. Che ne dite, dunque di venire al punto? Questo pesce, dovremo dividerlo a METÀ…”
Procacciatori d’ingredienti, veri chef mancati, esperti mercanti capaci di dominare le offerte con capitali e sponsor dalle risorse virtualmente illimitati. Eppure pronti, ogni qualvolta se ne presenti la necessità, a correre personalmente il rischio, acquistando a carissimo prezzo uno dei cosiddetti “20 tonni” realmente eccezionali, che giungono in queste auguste sale dopo una rapida trasferta da alcune delle più preziose riserve della nazione. I broker di Tsukiji sono questo e molto altro, eppure persino in questa categoria d’illuminati, Yukitaka è una figura tenuta in altissima stima. Poiché nessuno, come lui, avrebbe potuto tagliare lungo l’asse centrale l’equivalente alimentare di un diamante da 100 carati, avendo cura che entrambi i compratori potessero ricevere la stessa quantità di carne pregiata. Un’impresa che richiede, nei fatti, mano ferma e un occhio capace d’identificare immediatamente quali siano le parti adatte a produrre sushi e sashimi del più alto grado, con il coraggio di eliminare quelle imbevute di sangue, potenziali fonti di sapore o aroma fastidiosi. Per non parlare del giusto strumento: un “coltello”, se così vogliamo ancora chiamarlo, lungo all’incirca un metro e 30, non così dissimile dall’arma che samurai come Miyamoto Musashi erano soliti impiegare nel corso delle loro sanguinose battaglie. Il cui impiego, senza alcun dubbio, richiede una quantità assolutamente comparabile di abilità…

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