Distrugge il pomodoro per poterne bere il succo

Tomato Kagome

Ciò che compare in questa pubblicità della Kagome, compagnia giapponese che dal 1899 ha il controllo quasi totale dei frutti rossi per il ketchup a produzione nazionale, potrebbe sembrare un semplice scherzo, l’effetto speciale costruito per accattivare il pubblico del web. Un serio professore emerito dell’Università di Kumamoto (la prefettura con la celebre mascotte a orsetto nero), tale Shigeru Itoh, indossato il camice bianco simbolo del suo mestiere, si avvicina con i propri aiutanti ad una teca piena d’acqua, in vetro spesso e resistente. All’interno del contenitore, incredibilmente, galleggia a mezza altezza un singolo e spaurito pomodoro racchiuso in una sorta di membrana, pronto ad essere praticamente obliterato. Come? Grazie a un’esplosione, chiaramente. Nel Dipartimento d’Ingegneria Meccanica dei Sistemi non si perdono in complesse spiegazioni: le loro idee migliori, questi uomini e donne saldamente posizionati sulla prua del vascello del progresso, preferiscono dimostrarle in modo semplice e diretto. O per lo meno, questo è ciò che sembra dalla strana situazione che siamo chiamati ad osservare, lui, con espressione tesa, che si siede ad un computer dall’aspetto alquanto antiquato, da cui avvia un breve conto alla rovescia. L’assistente occhialuta, nel frattempo, ha giusto il tempo di piegarsi ad angolo ottuso con fare indagatorio, ricordando in modo vago l’Igor del film di Frankenstein con Mel Brooks, quando un colpo clamoroso fa vibrare i bordi dell’inquadratura: primo piano, il cubo trasparente, da cui emerge un geyser di acqua prossima alla vaporizzazione. Nulla resta come prima, tranne l’elemento più importante. Grazie all’uso delle immagini al rallentatore, viene anche mostrato il fato del classico ingrediente della cucina italiana, raggiunto in modo quasi simultaneo dalle bolle d’acqua movimentata dal botto della deflagrazione e l’onda d’urto tangibile, quello spazio in cui un gas (o come in questo caso, un liquido) vengono spostati a una velocità superiore a quella del suono. Soltanto che nei pochi centimetri a disposizione, dalla posizione dell’esplosivo a quella del vermiglio pomo, tale distanziamento non ha mai modo di avere luogo. Così percorso in contemporanea dalla forza duplice di simili sconvolgimenti, quest’ultimo viene fatto vibrare e sconquassato, compresso e scombussolato. La sua buccia diventa, letteralmente, come la federa di un cuscino usato per difendersi durante una battaglia tra bambini. Ma così attentamente è stata calibrata la forza dell’esplosione, ed a tal punto l’acqua riesce a distribuirne l’impatto su una superficie più ampia, che l’oggetto resta intero, almeno all’apparenza. È una situazione piuttosto inquietante, specie se messa in relazione con una particolare situazione d’emergenza: il tecnico artificiere che dovesse fallire nel momento più importante della sua carriera. Quando un ordigno, variabilmente improvvisato, nonostante l’impegno infuso dalle forze dell’ordine o un membro dell’esercito, raggiunge il punto culmine della sua instabilità, facendo saltare in aria proprio colui/lei che, fra tutti, maggiormente era disposto a rischiare per il bene altrui. Ora, naturalmente il corpo umano non è poi così vulnerabile, e soprattutto gli ultimi progressi compiuti nel campo della protezione personale, vedi tute balistiche o armature peciali, possono virtualmente annullare qualsiasi danno causato da shrapnel o frammenti di granata. Persino lo spostamento d’aria causato dalla bomba media ad uso criminale o terroristico, che a distanza ravvicinata può facilmente scaraventare un corpo umano a distanza significativa e contro muri e strutture resistenti, può essere in parte contrastato dall’impiego di adeguate imbottiture tecnologiche, simili ad airbag interni. Ma quello che inevitabilmente riuscirà ad ucciderti, qualora ti trovassi nello spazio primario dell’esplosione, è un qualcosa di ben più inarrestabile e subdolo, che tutt’ora sfugge alla sicura manipolazione: la pressione stessa delle particelle subatomiche, sospinte innanzi per l’effetto deflagrante. È in effetti acclarato come un corpo di qualsiasi tipo, sia questo umano o vegetale, quando sottoposto a sollecitazioni adeguatamente proporzionato verrà letteralmente disintegrato dall’interno, a causa della liquefazione delle sue stesse pareti cellulari.
Un qualcosa di simile lo sperimenta il soggetto principale di questa sequenza. Sul finire della parte dura dell’esperimento, Itoh trae fuori dalla teca il suo trofeo, lo scarta senza un eccessivo grado di delicatezza. Con fare sicuro, lo porge all’uomo che si trova alla sua destra, il quale estrae dalla tasca frontale del suo camice una corta e tozza cannuccia trasparente. La quale, fatta penetrare nella buccia, rivela l’orribile e gustosa verità: là dentro non c’è più nulla, che si possa definire un pomodoro. Ma vero e proprio succo pronto da suggere, qualora se ne provi il desiderio (personalmente, preferisco il gusto di banana o mela).

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Tre speciali tagliaerbe: triplo, telecomandato, volante

Triple Lawnmower

Tutti vorrebbero una casa con il prato, almeno in teoria. È la realtà dei fatti successivi a rivelarsi spesso un’onerosa seccatura. Il problema è che come in tutte gli àmbiti che sono ambìti, c’è chi è portato, ed ama l’esperienza rilassante di curare un tale appezzamento, poi ci sono tutti gli altri. Chi non ha pollice verde, quindi, raramente ha il medio di un colore comparabile, né l’anulare oppure il quinto dito, anchilosato nella sofferenza di dover pensare all’erba. Su e giù, destra o sinistra, l’implemento viene trasportato. E c’è sempre qualcosa di spiacevole che condiziona quel processo: O fa caldo O s’inceppano le lame O le ruote perdono pressione. La vita è già di suo piuttosto faticosa: perché complicarsela tagliando il prato? Nella guerra quotidiana contro la crescita eccessiva, l’inopportuna insistenza della piante, non c’è logorìo che tenga. Se davvero l’esperienza entropica del calpestìo bastasse, nel quotidiano, a contrastare un tale spirito generativo, oggi il mondo si conformerebbe all’estetica di un tiepido deserto. Mentre il verde è tra i colori che più facilmente riempiono lo spazio di una coppia di pupille. Soprattutto se si ha l’uscio che si apre su un giardino, per così dire, grande.
Grande come quello di Victor Poulin, l’uomo che avevamo conosciuto qualche tempo fa, come un eccentrico costruttore d’armi in grado di tornare indietro nonché titolare dell’impresa e-commerce BoomerangsByVic, ben fornita di versioni estremamente variegate dell’oggetto aborigeno per massima eccellenza. Che in qualche maniera, a giudicare dalla sequenza in questione, deve aver fatto fortuna, vista l’ampiezza estremamente significativa delle zolle a sua disposizione per il patio (è una piscina, quella?) Per di più, rigorosamente lasciate vuote per fare da campo operativo della sua passione. Niente torna indietro se s’incaglia in mezzo ai rami! Ma anche vivere nel mezzo di uno spazio brullo e secco e incolto, chiaramente può fare tristezza. Senza contare le proteste dei propri vicini, che nel tipico consorzio delle ville a schiera in stile americano, difficilmente accetterebbero una casa tanto desolata. Il che significa, in parole povere, che non si scappa: se hai un giardino, hai prato. Se hai un prato, hai *almeno un tagliaerbe. O più. Il problema, semmai, sono le mani disponibili per affrettare il passo della procedura, mettendo in funzione l’intero concerto delle lame affilatissime e rotanti. C’è chi si procura l’assistenza di uno o più ragazzi di fiducia, reclutati tra gli amici di famiglia, che per pochi dollari s’industrieranno nell’operazione. Però come dice il proverbio: se vuoi le cose fatte bene…Devi legare assieme tutta l’attrezzatura, attaccarla ad un trattore motorizzato, premere l’acceleratore e sperare che l’idea funzioni.
Così il buon vecchio Vic, applicando la sapienza tecnologica acquisita in anni di successi ed ottimi video virali, ci presenta l’esperienza della sua ultima invenzione. Si tratta di una di quelle cose tanto semplici, così immediate, che verrebbe un po’ da chiedersi: possibile che nessuno ci abbia mai pensato? Sicuramente, nel secolo prima di questo digitale…Quando non tutto ciò che aveva una ragione d’ulteriore popolarità, veniva necessariamente messo sotto l’occhio della gente con il monitor e la tastiera! È un tagliaerbe triplo, questo, formato dal tipico dispositivo semovente verde oliva, con un traino di metallo a T. Che lui ha saldato, e quindi in qualche modo assicurato, ad una coppia di fiammanti attrezzi manuali, del tipo a spinta che verrebbe normalmente consigliato a chi ha un giardino dalla metratura contenuta. Ciò che risulta da una tale impresa, per usare le parole composite tanto apprezzate dagli americani, potrebbe definirsi un Frankenmower, un Lawnzilla delle quotidiane circostanze. L’apparato dalla larghezza di taglio complessiva di 94 pollici (2,4 metri ca.) le cui lame girevoli sono state attentamente allineate, eliminando del tutto l’esigenza di passare nuovamente in ciascun punto per rimuovere le strisce d’erba. Un’incredibile prova d’ingegno. Ma per chi invece, ama le cose fatte in serie…

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Il parco giochi russo e la palestra costruiti coi rottami

Sloboda Park

Tra il diradarsi della nebbia mattutina, oltre i brutali palazzoni d’epoca sovietica e presso quella che sembrerebbe una piccola chiesa ortodossa in corso di restauro, la coppia di uomini parcheggiano la propria station wagon. Sono stanchi, forse un po’ affamati, di certo di nessuno dei due in uno stato apparente che si possa definire “ideale” per guidare. Lievemente inebriati, questa è l’espressione usata dalla maggior parte dei commenti al video, e quale stato migliore potrebbe mai esistere, per provare sulla propria pelle il risultato di una branca assai particolare dell’ingegneria un tempo tipica dell’Est Europa: la costruzione di luoghi un po’ raccogliticci in cui far correre la fantasia. Nonché il reimpiego, attraverso crismi costruttivi che parrebbero anch’essi in parte derivare dall’aver trangugiato una certa quantità di ottima vodka, delle cose vecchie per produrne alternative nuove. Approccio da cui proviene questo perfetto parco giochi, presso cui far conoscere ai bambini il vero significato dell’espressione “epoca spaziale”. Peccato che nel vasto cosmo, nessun addetto alla sicurezza possa sentirti urlare.
Siamo presso il centro abitato di Sloboda, nell’oblast di Tver, non poi così lontano dall’omonima città di oltre 400.000 abitanti, dove a quanto pare un certo Yuri Chistyakov (il cui nome compare nel blog English Russia, benché la provenienza del dato resti poco chiara) è riuscito a riassemblare alcuni rimasugli della fiorente industria agricola locale, tra le più importanti delle zone circostanti il fiume Volga, per costruire una serie di interessanti e potenzialmente problematici ausili allo svago, qui mostratici, con entusiasmo largamente immotivato, dai due cresciuti visitatori d’occasione. Di cui l’uno, quello al centro dell’inquadratura, sembra particolarmente pronto a mettersi in discussione, mentre l’amico più che altro preferisce limitarsi a ridere come una jena. Il che è comprensibile, del resto, vista la serie di bizzarre disavventure alle quali si trova ad assistere nel giro di pochi minuti. Si comincia dalla ruota orrendamente dondolante di un trattore, assicurata a quella che parrebbe configurarsi come una sorta di altalena colorata in modo variopinto, onde meglio ricordare un qualche tipo di astronave. Grande pneumatico, dai vistosi intagli, che si rivela inaspettatamente sufficiente a contenere una persona adulta, benché sia lecito esprimere un qualche dubbio sull’effettiva pulizia di un simile implemento, sottoposto quotidianamente a pioggia, muffa e umidità galoppante. Ma non c’è tempo di fermarsi a pensare, giacché la nostra amichevole cavia umana si è già messa ad armeggiare col secondo “gioco”, una minacciosa sedia sospesa fatta apparentemente con pezzi di trebbiatrice e non del tutto dissimile da uno strumento di tortura, che lui definisce con ironia: “degna del film dell’orrore Saw”. Se non fosse che l’arnese, agghindato come la postazione di comando di un ipotetico Gagarin o Leonov dei nostri tempi, presenta la dote inaspettata di poter girare liberamente lungo l’asse longitudinale, risultando in grado di effettuare in buona sostanza la simulazione realistica di un giro della morte. È non è chiaro quale fosse l’uso presunto del dispositivo, vista l’assenza di una qualsivoglia manopola o dispositivo di comando da parte di terzi, mentre del resto, il comportamento dell’oggetto con su il peso di un’individuo già cresciuto è alquanto preoccupante. Appare infatti subito chiaro come, allo stato attuale dei fatti, il peso della testa del giovane sia più che sufficiente a far capovolgere l’intero sedile, lasciando il suo occupante in una posizione tutt’altro che invidiabile. Bé, se non altro ciò è la prova che qualcuno si occupa di effettuare la manutenzione del dovuto: bloccati dalla ruggine, questi giochi sarebbero decisamente meno divertenti…O…Pericolosi!?
Dopo un tale trauma, per riprendersi, tutto ciò che gli restava da fare era un altro giro sulla ruota dondolante, però aspetta: c’era ancora un’altra splendida esperienza da provare, la versione russa dell’antica ruota vitruviana e leonardesca. In termini più moderni, una semplice applicazione del principio dell’aerotrim, l’effettivo giroscopio umano usato per addestrare gli astro- e cosmonauti, benché qui libero di muoversi soltanto in senso circolare, invece che verso un numero infinito di vettori. Così inscritto in detta forma, roteando vorticosamente, il corpo umano non dovrebbe faticare a scrollarsi via le redini della residua gravità, raggiungendo vette un tempo inesplorate di accrescimento fisico ed interiore. Questo, almeno, se si è sobri ovvero già dotati di un senso d’equilibrio valido allo scopo. Entrambe doti, a quanto pare, che sfuggono al qui presente operatore, che in breve tempo si ritrova in situazione comparabile a quella dell’odiato seggiolino.

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Come costruire una casetta primitiva

Primitive Technology

In mezzo alla foresta pluviale che costituisce una parte significativa dello stato australiano del Queensland, si aggira un uomo in calzoncini che di questo luogo ha fatto il suo cortile. Il suo nome è…Primitive Technology…Beh, per lo meno quello che dichiara al mondo tramite l’omonimo canale di YouTube. Del resto, come si chiama non è (davvero) importante, almeno non quanto ciò che riesce a dimostrare: che persino un appartenente alla società moderna, un prodotto di tre millenni di civiltà, può ancora ritrovarsi, per puro caso o un hobby stravagante, in mezzo all’assoluto nulla, solitario, privo di risorse e/o di strumenti. Riuscendo, nonostante tutto, a realizzare un qualche cosa che va molto oltre la pura e semplice sopravvivenza. È una casa vera questa, non un semplice rifugio. Grossomodo cubica, larga due metri, con tetto spiovente per proteggersi dagli elementi, mura spesse ed isolanti fino a un metro d’altezza, un letto sollevato da terra, uno spazio per accendere il fuoco e, nelle battute finali del processo progressivo di miglioramento, addirittura un ottimo camino, che permette di chiudere completamente un lato della costruzione, dando adito ad un lato riscaldato in modo più efficiente. Non riesce così difficile immaginare uno scenario in cui una simile abitazione o la sua versione più grande, nel corso del tardo Paleolitico superiore (circa 10.000 anni fa) si rivelasse un bene prezioso per un’intera famiglia dei nuovi popoli stanziali, i primi che iniziavano a dimostrare il vero potere della mente sopra la natura. In via di trasformazione quest’ultima, da risorsa nebulosa e sfruttabile soltanto attraverso la caccia e la raccolta, a un vero spazio in cui la tecnica può dare un senso al legno, la pietra e l’argilla, gli amici di chi ha il metodo e lo studio per apprenderne i segreti. Ma soprattutto importante, a quell’epoca, non era tanto il semplice possesso: ancor più che adesso, nulla durava per un tempo lungo, ed ogni cosa andava sottoposta a continui interventi di manutenzione, portando in primo piano i meriti di chi sapeva far le cose, come costui.
Il video inizia in modo semplice, con l’ingegnere che ci mostra la sua ultima creazione: una rozza ascia litica, creata a partire da una pietra oblunga di quello che dovrebbe essere basalto, piuttosto che l’ideale selce, probabilmente non disponibile in quel singolo contesto. Viene mimato quindi il gesto di modellazione, tramite un sassetto che lui impiega per colpirla in prossimità del bordo, per accentuare un filo tagliente che nei fatti è già perfettamente pronto all’uso. Del resto, la sequenza ha lo scopo di contestualizzare ciò che viene dopo, ovvero l’abbattimento e il disfacimento di alcuni piccoli alberi, attraverso colpi ben vibrati del pesante arnese. E benché sia chiaro come l’efficienza del processo si configuri in modo tutt’altro che ideale, nel giro di un tempo imprecisato gli riesce di crearsi una catasta di legna lunga e flessibile, cui abbina alcune radici e liane raccolte in giro, perfetti ausili alla costituzione di legame tra le parti. Perché P.T, nei fatti, sta per impiegare la tecnica relativamente sofisticata del torchis, il primo sistema strutturale nella storia dell’uomo. L’abbinamento di uno scheletro in legno intrecciato o fibre vegetali a una copertura plastica, come l’argilla. Sostanza, quest’ultima, che in apparenza abbonda in questi luoghi, al punto che nelle battute successive la userà anche per costruire l’intera serie delle ciotole e i bicchieri, perfetto corredo di qualsiasi ottima bicocca. Ma non prima di occuparsi della cosa più importante, il tetto. Quella cosa che, per ottime ragioni, viene spesso usata in senso allusivo per riferirsi ad un’intera abitazione, ad ulteriore riconferma della sua importanza al culmine di qualsiasi processo che possa davvero dirsi, per l’appunto, archi-tettonico. Qui lui compie un significativo errore, largamente trattato nella descrizione scientifica a margine di questo interessante esperimento archeologico. Si tratta della scelta di una soluzione d’impermeabilizzazione basata sull’impiego di una serie di grandi foglie, infilate una per una lungo l’asse di alcuni lunghi bastoni, poi sovrapposti l’uno sopra l’altro, a mo’ di tegole. Nell’ottenimento di un prodotto esteticamente affascinante ed, almeno nei primi tempi, anche funzionale, se non che dopo alcune piogge, forse prevedibilmente, detta materia vegetale ha iniziato a marcire. Così lui, al ritorno sul luogo dell’operazione (nonostante le apparenze, dubito che ci abbia trascorso più di qualche notte) ha dovuto smontare il tutto e ricoprire nuovamente la casa, questa volta, grazie all’impiego della sottile corteccia degli alberi di Melaleuca, le myrtacee d’Oceania a volte dette paperbark. La cui scorza sottile e flessibile, nei fatti, si sta dimostrando molto più valida nel resistere all’insistenza delle precipitazioni locali. Quindi, affinché si possa definire veramente una casa, P.T. si preoccupa di fornire alle sue quattro mura un altro servizio assolutamente irrinunciabile, ciò che distingue, soprattutto, i semplici animali dalla forma di vita (non microscopica) di maggior successo sulla Terra: il focolare.

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