La strategia dei ragni che impugnano la propria tela

Deinopis

La tecnica di caccia dell’aracnide gladiatore è così attentamente perfezionata, nei metodi e le procedure, che tende a suscitare nel pubblico del web un istintivo senso d’ansia, cui fa generalmente seguito un debole tentativo di sdrammatizzare grazie all’ironia. “Ah, ah, ah. All’improvviso mi sento osservato. Che…Strano” Oppure: “Se fossero lunghi diciamo due metri, puoi contarci, la razza umana si sarebbe estinta da un bel pezzo!” Esclamazione spesso seguìta dalla classica serie di invettive, ormai di carattere più memetico che personale, contro tutto quello che abbia otto zampe che si diramano dal proprio addome e due cheliceri assassini, usati per colpire prede piccole o in alternativa, per lo meno nel senso comune collettivo, piombare sugli umani impreparati, allo scopo d’iniettare orribili veleni. Ora, la realtà è che gli appartenenti il genere Deinopis, talvolta anche chiamato dei ragni lanciatori o “dalla faccia di demone”, per il paio d’occhi frontali bulbosi e sporgenti, non sono dotato di armi chimiche particolarmente nocive, tanto che non si riportano notizie di morsi ai danni di persone. E questo per il semplice fatto che, grazie alla loro straordinaria tecnica per procurarsi il cibo, di simili rischiosi implementi non ne avrebbero neppure la necessità. Pensate che la loro ragnatela, se così può essere ancora chiamata, non è nemmeno appiccicosa!
C’è questa presunzione, estremamente tipica di noi altri umani, secondo cui l’intelligenza delle creature vada misurata unicamente nella somiglianza dei loro processi cognitivi ai nostri. Il che ci porta, generalmente, a tenere in maggiore stima un barboncino che riesce ad eseguire tutta una serie di numeri e graziose acrobazie, rispetto alla volpe che trova un’apertura nella recinzione, striscia silenziosamente tra gli edifici della fattoria e s’insinua nel pollaio, per ghermire una gallina o due. Secondo questa metrica, nulla dovrebbe essere più anonimo e incolore dell’aracnide medio, una creatura perfezionatasi attraverso secoli di evoluzione per compiere il particolare gesto d’intessere una trappola, poi porsi nel suo centro ed aspettare. Peccato che esistano particolari specie, a questo mondo, che non fanno assolutamente questo. Tra cui, per l’appunto, l’erede concettuale del retiarius, quella figura combattente e/o teatrale (le opinioni sono divergenti, ormai da quasi un secolo) che entrava nell’arena dei romani armato di un tridente in una mano, e un equipaggiamento simile a una rete da pesca nell’altra, usato per intrappolare l’avversario, che il più delle volte poteva essere il mirmillone o il trace. Mentre in quest’epoca di artropodi guerrieri, spesse volte è il grillo ensifero o la cavalletta, creature dalla massa facilmente pari o superiore a quella del temuto predatore di 25 mm (la femmina, 23 il maschio) che deve quindi catturarli giocando sapientemente d’astuzia. Così il suo piano tecnologico, eternamente ripetuto, prende il via al tramonto.
I ragni del genere Deinopis sono piuttosto timidi, soprattutto in funzione delle loro limitate capacità di mimetismo. Possono essere talvolta avvistati sotto le foglie dei giardini delle aree tropicali e subtropicali del mondo, con le due specie più famose rispettivamente attestate nel sud degli Stati Uniti e in Venezuela (D. Spinosa) e nella parte orientale dell’Australia e della Tanzania (D.Subrufa) che oscillano lievemente nel vento attaccati ad un filo, tentando per quanto possibile di ricordare dei rametti. Ma la loro attenzione, in quei momenti, è sempre orientata alla creazione del particolare strumento che gli permetterà di sopravvivere ancora una volta, il prodotto dei seritteri sulle sue zampe e del cribellum, una struttura che gli permette di separare le fibre di seta combinandole in una struttura lanosa. Più resistente, ma soprattutto, più elastica. Il che diventerà assolutamente fondamentale, di lì a poco.

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Parrocchetto che incorpora le piume di un fratello mai nato

Chimera Parakeet

Non c’è niente di meglio, per aggiungere una nota di colore alla vita, che portare nella propria casa la squillante voce e quell’aspetto variopinto e delizioso, dell’uccello comunemente definito cocorita. Il cui nome scientifico è Melopsittacus undulatus, binomio da cui deriva l’espressione più immediatamente descrittiva di parrocchetto ondulato d’Australia. Si, ma che colore? Come tutti gli animali con una lunga storia di addomesticazione alle spalle, questa particolare specie di volatili è stata intenzionalmente condotta verso esiti genetici diametralmente opposti, con gli esemplari naturalmente verdi e gialli a strisce nere, tutt’ora i più diffusi, affiancati da versioni azzurre, grige, talvolta addirittura dotati di una piccola cresta. Immaginate per un attimo di vivere in un luogo dall’ossigeno estremamente limitato, come la stazione spaziale, oppure un sommergibile sul fondo dell’oceano. Dove persino una gabbia adatta a creature tanto piccole, idealmente, potrà contenere un singolo compagno cinguettante. Allora scegliere tra l’una e l’altra versione diventerà estremamente complicato, perché i gusti umani variano col soffio meridiano dei venti, e ciascuna opinione cromatica, in quanto tale, resta pur sempre valida e altrettanto degna di determinare le diverse scelte di giornata. Ecco, grosso modo, la concorrenza di fattori che deve aver sperimentato questo pappagallo, però ad uno stadio estremamente primitivo della sua vita genetica. Ovvero, quando ancora era poco più di un embrione, mentre le sue cellule iniziavano a duplicarsi dentro il rosso dell’uovo. Che ne ha avuto due, finché a un certo punto, un po’ tardivamente, non si sono uniti in uno solo! Risultato: il piccolo Twinzy, a seconda che lo si guardi da una parte oppure dall’altra, appare come due uccelli totalmente distinti tra di loro, con lo stacco tra una livrea e l’altra che si trova esattamente al centro del suo corpo. L’unica parte esattamente simmetrica del suo aspetto, in effetti, resta il becco.
Ed è davvero un’insolita creatura, questa, come si prodiga nel farci notare l’enfatico proprietario dalla voce vagamente simile a quella di Samuel Jackson, che all’epoca in cui era stato girato il video ci informava di averla messa in esposizione presso il suo negozio di animali, Woody’s Pet Life di Oklahoma City. Si calcola che questo tipo di rara condizione genetica, tanto esteriormente manifesta, sia presente e verificabile soltanto su un esemplare di uccello ogni 50 milioni. Si tratta di una mutazione avvenuta a livello cellulare nel momento immediatamente successivo alla prima mitosi (sdoppiamento). Tutti gli esseri viventi simmetrici, infatti, si sviluppano in maniera diametralmente concorrente. Il che significa che possiamo considerarci frutto di due metà POTENZIALMENTE identiche. In teoria ma non nei fatti, e questo perché, fin dall’alba dei tempi, in natura nulla è preciso al 100%, nemmeno la lunghezza delle dita o il colore degli occhi. Ora, portando tale dato alle sue estreme conseguenze, si potrebbe ipotizzare l’esistenza di un uccello formato da due codici genetici totalmente distinti, frutto di due coppie di gameti, ovvero zigoti distinti, che s’incontrano prima di riprodursi. E si scambiano l’un l’altro, a causa di uno strano caso del destino, per la copia esatta di se stessi. Procedendo a riprodursi, da quel presupposto inesatto. Il risultato è che tutte cellule figlie della prima (chiamiamola, della metà destra) conterranno nel DNA una serie di determinate istruzioni, incluse quelle sulla colorazione delle piume; mentre quelle derivanti dalla sua compagna (della metà sinistra) ne avranno di radicalmente differenti. Che poi ciò risulti dalla commistione tra due creature potenzialmente distinte, come in un’insolita inversione del processo che porta alla nascita dei gemelli omozigoti, oppure dalla mutazione spontanea e difficilmente spiegabile di una delle metà coinvolte, poco importa. Dal punto di vista concettuale, siamo di fronte a un’impossibile realtà: due uccelli, in uno. Ovvero quella che viene definita, in un gergo non specifico ma stranamente appropriato a seguito di determinati trascorsi mitologici, l’impossibile chimera.

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Incontro col più raro e piccolo degli armadilli

Pichiciego

Quanto state per vedere in questo video è davvero molto insolito. Si ma quanto, esattamente? Talmente tanto che Mariella Superina, direttrice di un gruppo di ricerca speciale all’interno del CONICET (Consejo Nacional de Investigaciones Científicas y Técnicas) che da 14 anni si occupa di questo animale, non ha mai avuto d’incontrarlo in prima persona senza le sbarre di una gabbia a fare da interfaccia con la sua presenza. Almeno che l’armadillo fata rosa (Chlamyphorus truncatus) non l’avesse appena liberato lei stessa, poco tempo dopo averlo ricevuto da qualcuno, con lo scopo di salvarlo da un destino molto sfortunato. Lo stesso YouTube, normalmente ricco di sequenze riprese dai nativi o turisti che si trovino a contatto con le bestie più diverse, in natura o negli zoo, non dispone che di un gran totale di tre video dedicati a quello che in Argentina chiamano il pichiciego, creatura difficile da trovare, perché dalle abitudini notturne e sotterranee. Che per di più risulta affetta da una strana sindrome, estremamente problematica, che gli impedisce di essere tenuta in cattività, dimostrando la propensione a morire nel giro di poche ore o giorni dal momento della cattura, se non persino durante il trasporto via dalla dimora naturale. È piccolo e delicato. Misura 15 cm, al massimo. È letteralmente sconosciuto ai più. Eppure, rappresenta da solo il 22.5% della diversità genetica della famiglia dei Dasypodidae, gli ultimi discendenti dei mammiferi Cingulata che un tempo percorrevano le lande americane. La loro eventuale estinzione, dunque, sarebbe una grave perdita per tutti noi. Il problema principale, tuttavia, resta il fatto che ogni considerazione sullo stato di salute della specie resta largamente aneddotico, fondato su farsi del tipo di “Prima se ne vedevano di più!” Per il semplice fatto che anche nelle generazioni ormai trascorse, “di più” voleva dire un paio l’anno, invece di uno al massimo, quando si è veramente fortunati. Questa, è l’effettiva rarità del video qui realizzato da Willy Escudero, presso una semplice strada di campagna vicino Mendoza, nell’Argentina centro-occidentale.
A tale considerazione, potrebbe seguire subito un vago senso d’invidia. Perché non capita spesso, né a molte persone di questo pianeta, di poter realizzare le proprie fantasie di essere d’aiuto alle creature semi-sovrannaturali, tipo gli unicorni, le manticore, il cane nudo messicano… Il titolare del canale, la cui voce si sente impegnata in un breve dialogo con un altra persona presente sulla scena, si rende subito conto del problema: l’armadillo, dall’aspetto vagamente simile a quello di un’aragosta senza coda, si trova esattamente al centro della rudimentale carreggiata, apparentemente perplesso dalla sua incapacità di fare breccia nel fondo sterrato e compatto, risultando, quindi, una potenziale vittima per qualunque predatore di passaggio, incluso il più pericoloso in assoluto: la ruota di una macchina o di un camion. Purtroppo. Così, l’approccio scelto e semplice e diretto. Con un bastoncino, il protagonista umano tenta di indurre a scappare l’armadillo, che tuttavia risulta totalmente privo di un simile istinto e reagisce a malapena. Talmente è abituato a vivere in stretti cunicoli, dove la velocità è un optional del tutto inutile allo scopo. Il risultato ottenuto, dunque, risulta quasi comico, con l’animale che scava freneticamente, poi, una volta ridirezionato a forza, ricomincia nuovamente a scavare, come se non fosse successo alcunché di nulla. All’intera vicenda non viene fornito un epilogo, con l’indicatore che raggiunge la fine della barra proprio sul più bello, ma possiamo comunque presumere che i due, alla fine, abbiano trovata il modo di spostare il pichichiego dei pochi metri necessari per salvarlo dalla situazione scomoda e imprevista. Ma la vera risoluzione sarebbe giunta solo successivamente, quando quest’ultimo, finalmente lasciato solo e in pace, sarà riuscito a fare breccia e ritornare nel suo unico luogo sicuro: il buio della dimensione sotterranea, da dove uscire solamente a notte fonda, per cercare qualche insetto particolarmente succulento, utile ad ottimizzare la sua dieta composta primariamente di materia vegetale marcescente.

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Subacquei soverchiati dall’abnorme pesce alieno

Mola Mola

I tedeschi lo chiamano Schwimmender Kopf, la Testa che Nuota. Mentre per i cinesi è fan-che-yu, il pesce-ruota rovesciata. In Latino viene detto pesce mola, perché è grigio, ruvido, piatto, grosso modo circolare, esattamente come lo strumento che si usava anticamente per schiacciare il grano. Nella maggior parte dei paesi europei contemporanei, nel frattempo, si preferisce usare una locuzione variabile che lo accomuna ad uno dei due maggiori personaggi dei cieli: la Luna (pesce-) oppure il Sole (in inglese: Ocean Sunfish). La prima perché le due pinne mediane della creatura, dorsale e ventrale, sono tanto allungate da ricordare il tipico spicchio dell’inizio di un ciclo mensile. Il secondo…Non si sa. Forse in origine si era voluta dare precedenza all’astro mattutino, piuttosto che a quello decisamente meno importante che controlla il flusso delle nostre maree. La ragione di tali e tanti suggestivi epiteti va ricercata, piuttosto che in particolari atteggiamenti dell’animale o altre caratteristiche non evidenti, unicamente nel suo aspetto alquanto…Insolito. Per usare un eufemismo. Basta guardarsi intorno nei diversi habitat del mondo, emerso o sotto le acque degli oceani sconfinati, per rendersi conto che il concetto di bello può essere adattato a molte varie circostanze. Ci sono bestie maestose e fiere, splendide nei loro caparbi propositi d’aggressione. Ed altre meno istintivamente attraenti, che tuttavia risultano dotate di un particolare fascino, frutto della funzione. Ma il pesce alieno in questione, per quanto gli si voglia concedere il beneficio del dubbio, ha la particolare sfortuna esteriore di rassomigliare da vicino ad un qualcosa d’incompleto. Come se la Natura, nel metterlo a punto, avesse iniziato con la parte anteriore di un grosso e resistente abitante delle fasce oceaniche epipelagica e mesopelagica (attorno ai 200 metri di profondità) e poi si fosse stancata, dicendo: “Basta così!”. Questo perché ad un punto imprecisato dell’evoluzione del pesce, tuttavia comprovato come antecedente all’epoca geologica dell’Eocene superiore (33,9-38 milioni di anni fa) la sua coda è diventata sempre più corta, la colonna dorsale si è accorciata, i quattro grandi denti simili agli incisivi caratteristici del suo ordine tipologico si sono fusi, formando l’equivalente maggiorato di un becco da pappagallo. Così nasceva, dunque, la leggenda.
È difficile restare indifferenti di fronte ad una simile scena, quasi onirica nel suo improbabile fluttuare delle astruse circostanze. Trovarsi di fronte a una creatura così antica e totalmente indifferente, al mulinante logorìo dei nostri giorni, alla logica dell’efficienza, ai suoi stessi propositi di autodifesa. La più diffusa e grande delle quattro specie appartenenti alla famiglia dei Molidae, qui ripresi da sommozzatori a largo dell’Ilha de Santa Maria nel bel mezzo dell’Oceano Atlantico, non ha in realtà moltissimi predatori, soprattutto in funzione della sua mole e della dura pelle corazzata, spessa fino a 15 centimetri sul dorso. Gli unici a sfidare un simile titano inerme, e sia chiaro che lo fanno generalmente prima che questi raggiunga l’età adulta, sono i più voraci ed aggressivi predatori, come gli squali, le orche o i leoni marini, e persino loro, non sempre con successo. Gli ultimi pinnipedi citati, ad esempio, finiscono spesso per ferire gravemente il pesce alle pinne, per poi lasciarlo sul fondale a morire, dimostrandosi incapaci di mangiarlo. Una strana forma di difesa a posteriori da parte del grosso navigatore delle acque sommerse, se così vogliamo definirla. Mentre non costituisce in realtà un problema per l’effettiva sopravvivenza della specie. Questo perché il Mola Mola, fra le sue molte caratteristiche biologiche inusuali, ne presenta una che basta a giustificare tutte le altre: la capacità di deporre fino a 300 MILIONI di uova in una volta, più di qualsiasi altro animale vertebrato sulla Terra. E se anche soltanto una minima parte di queste verrà fecondata nella stagione della fregola, se pure molti dei pesciolini che ne scaturiscono saranno pasti facili dei predatori di passaggio, il semplice numero delle opportunità offerte alla prossima generazione, da ciascuna ponderosa madre, basteranno a garantire ottimi propositi continuativi. E non è forse questa, alla fine, la singola cosa più importante?

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