“Le gambe… Sono soltanto una decorazione, ad ogni modo” affermava con la canonica sicurezza l’eroe oscuro Char Aznable, rivale del protagonista terrestre Amuro Ray, poco prima della battaglia per porre fine alla guerra durata un anno, presso la base asteroidale di A Baoa Qu. Di fronte a lui, il titanico mobile suite da combattimento MSN-02 Zeong, costruito al fine di massimizzare i suoi riflessi e potenzialità mentali superiori, tipiche degli umani geneticamente adattati all’assenza di gravità noti come Newtype. Un mezzo da combattimento che sarebbe stato imbattibile in combattimento, se soltanto ci fosse stato il tempo di completarlo. Ma che pur completamente privo degli arti inferiori, avrebbe dato notevole filo da torcere al nemico fluttuando nello spazio cosmico, finendo per distruggersi a vicenda col temuto RX-78-2 Gundam, eponimo robot della serie. E dopo tutto, anche in linea di principio, come dargli torto? Dopo gli oltre 40 episodi, in cui più volte il co-protagonista Hayato Kobayashi era venuto in aiuto della causa comune, ai comandi dell’ormai obsoleto Guntank, macchina d’artiglieria umanoide capace di spostarsi unicamente su una coppia di cingoli, secondo le linee guida di un comune carro armato. Ma il concetto che una tale soluzione debba necessariamente costituire un compromesso, rispetto alle movenze più “eroiche” dei robot dotati della stessa quantità di arti degli esseri umani, deriva da sensibilità tipicamente appartenenti al mondo creativo e fantastico, dove una particolare estetica dei partecipanti al dramma determina il destino delle loro gesta nel dipanarsi della vicenda. Laddove nel mondo artificiale come quello creato dall’evoluzione della biologia, ogni essere viene al mondo con uno scopo, da cui deriva l’ottimizzazione delle proprie caratteristiche inerenti.
Il che è compreso molto bene nell’ambito della moderna società giapponese, dove fin dall’immediato dopoguerra la tecnologia dei nostri giorni è vista come uno strumento privilegiato, utile a risolvere i problemi di questo mondo ed agevolare l’inizio di una nuova epoca, il cosiddetto Secolo Universale immaginato da Yoshiyuki Tomino, autore ed ideatore della serie pluri-generazionale del robot Gundam. Perciò chi meglio di loro, le Ferrovie di Stato (JR – Japan Railway) poteva mostrare l’andamento futuro di un tale percorso, grazie all’implementazione dimostrativa di un sistema che non è soltanto marketing, ma una sincera applicazione utile a risolvere un ostacolo per nulla trascurabile allo svolgimento delle sue mansioni: la quantità statisticamente rilevante d’incidenti annuali, che tendono a verificarsi durante gli interventi per la sostituzione e riparazione della segnaletica, delle stazioni e i tratti di ferrovia soggetti a maggiore usura, fino ad oggi effettuati con notevole dispendio d’energia umana, proprio perché il tipo di precisione richiesta risulta essere maggiore di quella posseduta da una macchina… Convenzionale. Ed è qui che entra in gioco la Kabushikigaisha hito-ki ittai (株式会社人機一体 – Letteralmente: Human Machinery Inc.) compagnia startup nata in grembo all’Università di Kyoto Ritsumeikan nell’ormai remoto 2007, originariamente al fine di creare macchine robotiche per la manutenzione nel vuoto spaziale. Almeno fino all’approdo in tempi recenti ad una collaborazione con la Nippon Signal, importante fornitrice di servizi della Japan Railway. Per la creazione di un nuovo, perfetto (gigantesco) tipo di operaio ferroviario…
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Il vantaggio meccanico della moto giapponese all’interno dell’ovale di stato
Numero 5, l’uomo dalla tuta gialla con il casco bianco si presenta sulla pista accompagnato da un latente senso di perplessità da parte di chi ancora non era preparato ad aspettarlo. Per la forma strana del suo corpo, chiaramente deputata dalla spessa armatura simile a quella del football americano, che ne alza le spalle assieme alla protezione per il collo da motociclista, che lo ingobbisce. In mezzo a quelle moto carenate di tipo competitivo, e almeno un paio di supermotard di concezione francese, il suo veicolo a due ruote non è d’altra parte da meno: gli pneumatici sottili, l’assenza di sospensioni sul retro, il manubrio vistosamente storto, con un’estremità più alta dell’altra. Di sicuro, nessuno l’avrebbe dato come favorito. Ed in effetti al suono del via, in una corsa della durata di 4100 metri, non ci mette molto a rimanere ultimo, se non che le circostanze appaiono ben presto connotate da uno strano tipo di circuito. In cui ciascun concorrente resta pressoché costantemente inclinato ad un minimo di 45 gradi, curvando, curvando e curvando ancora. Così che, una curva antioraria alla volta, il samurai Quasimodo comincia irrimediabilmente a rimontare…
Non giudicheresti un pesce dalla sua capacità di scalare una montagna, a meno che si tratti del leggendario pesce alato che soggiorna tra le nubi che circondano il vulcano di Sumeru, asse cosmico dell’universo buddhista. Ed allo stesso modo, non daresti un voto a un’aquila di mare in base al tempo registrato in 10 giri su una pista ovale di 500 metri, della larghezza di 30 e circondata dallo sguardo attento delle telecamere, affinché nulla d’intrigante possa essere portato in tavola dai concorrenti di un’imprescindibile tenzone animale. Quella in grado di decidere, al concludersi del giorno, non soltanto chi sia il più abile ma anche i riceventi di una somma non indifferente di denaro, tra coloro che hanno scelto di scommettere seguendo una stimata tradizione locale. Poiché molte cose possono essere negate in merito al secondo arcipelago più vasto d’Asia, ma non che i suoi abitanti amino cimentarsi nella previsione del numero di palline di metallo uscite da una macchina (nel gioco nazionale del pachinko) piuttosto che i vincitori di un evento sportivo, particolarmente quando è in gioco il tradizionale montepremi con sistema parimutuel, dante ai migliori l’intero ammontare del corposo banco, meno i contributi e le commissioni. Al punto che a partire dal secondo dopoguerra, stanco di veder trarre un considerevole guadagno in quel mondo unicamente le organizzazioni non-legali della yakuza, al governo di Tokyo venne in mente di creare e regolamentare un calendario assai preciso e controllato di tali contingenze, creando il concetto quello che avrebbe presto preso il nome di kōei kyōgi (公営競技 – Concorso pubblico) attraverso l’applicazione di accorgimenti, modalità e controlli estremamente stringenti. Fino al punto, al giorno d’oggi, di poterne elencare ben quattro tipologie: cavalli, biciclette, motoscafi ed auto racing (オートレース) dove alquanto stranamente, l’auto in questione non è intesa possedere quattro ruote, bensì due di meno. Un tipico caso di storpiatura anglofona da parte di chi vive oltre i confini dell’Eurasia. Ma anche il primo verso di un haiku procedurale, conciso ed elegante come si confà ad un tale genere di composizione poetica. Il canto ritmico della marmitta delle circostanze avite…
Quel tenero prosciutto da tagliare a fette di un tronco taumaturgico d’Oriente
È semplicemente così lontano, dal tipico equipaggiamento che ti aspetteresti di trovare nella dotazione di quello che costituisce, in dei conti, una variazione locale del concetto di taglialegna. Sto parlando della lama metallica imperniata, con un manico sporgente, concepita per effettuare un movimento parzialmente rotatorio in corrispondenza di un piano di lavoro rettangolare. Affinché l’incontro tra le superfici, rigida e tagliente, ponga in essere i fondamentali presupposti del processo di segmentazione molecolare, ovvero la trasformazione in multipli di ciò che originariamente era uno (1). Un solo tronco, di una sola pianta, presso i margini di una singola foresta. Situata assai probabilmente in qualche luogo della Cina, del Sud-Est Asiatico, la penisola coreana o l’arcipelago del Giappone. Perché dove, altrimenti, poteva crescere il rampicante un tempo noto come Ji Xue Teng (鷄血藤 – liana del sangue di pollo) ma che sui lidi redditiani parrebbe aver assunto la più descrittiva dicitura di “prosciutto proibito”, per la maniera in cui si taglia con l’equivalenza in campo forestale di un grissino, ovvero quell’attrezzo che ti aspetteresti di trovare tra le mensole di una copisteria universitaria. Per l’ottenimento di un qualcosa di sottile, dal colore rosso intenso e contrassegnato da una serie di cerchi, che pur sembrando legno non si comporta affatto come tale, essendo morbido, spugnoso e assai probabilmente delicato. Al che potreste essere indotti a pensare: “Se fossi un fautore della medicina tradizionale cinese, non esisterei a disidratarlo e farlo in polvere, per usarlo come cura di afflizioni dalla provenienza più diversa.” Il che vi porterebbe anche più vicino, se possibile, alla verità.
Ecco, dunque, cosa state osservando: niente meno che un esempio del processo di lavorazione “sul campo” del gambo principale di una Spatholobus suberectus, specie vegetale della giungla imparentata alla lontana coi legumi, fagioli e piselli di questo mondo. Un caposaldo di quel gruppo di piante, dell’altezza molto variabile ma che può raggiungere anche i 10-20 metri, famose per la consistenza assai particolare del proprio abito legnoso e le presunte caratteristiche guaritrici possedute dalla composizione chimica della loro linfa vermiglia. Comunemente usata non soltanto in farmacia, ma anche come condimento in cucina e per l’insaporimento di una serie di bevande alcoliche ritenute un’influenza positiva nei confronti dell’organismo umano. Con vantaggi garantiti che cominciano dal rafforzamento del sangue, come per la classica associazione parascientifica tra estetica ed effetti, proseguendo con la riduzione dell’altralgia reumatica, i dolori del ciclo, le polluzioni notturne, la lombalgia, il dolore di stomaco. La solita vasta sequela di sintomi, dalla genesi ed evoluzione clinica molto diverse, che non parrebbero implicare alcun tipo di base scientifica apparente ma soltanto un presunto rafforzamento del principio femminile Yin contrapposto alla forza, qualche volta distruttiva, dello Yang maschile. Sebbene i preconcetti dello scienziato moderno, in certi rari casi, possano anche trarre in inganno…
L’ingegnosa giustapposizione tra il Tamburo Rosso e la Nave Bianca della città di Kobe
Nei primi film sui mostri giganti kaiju, proiettati a partire dalla metà degli anni ’50, il bersaglio della furia di Godzilla & Co. era sempre la grande città metropolitana di Tokyo. Un luogo istantaneamente riconoscibile, sia in patria che all’estero, e per questo tanto più soddisfacente da ridurre fantasiosamente in polvere, mentre l’esercito tentava per l’ennesima volta di bersagliare il lucertolone di turno. Quale altro luogo del Giappone, d’altra parte, vantava una serie di punti di vista altrettanto iconici, degni di essere raffigurati sulle locandine e gli altri materiali promozionali a corredo dell’innovativo franchise d’intrattenimento? Tanto che il primo cambio di registro può essere individuato solamente dieci anni dopo, con l’avventura apocalittica dal titolo ガメラ対バルゴン (Gamera Vs. Barugon) in cui il tartarugone alieno titolare si ritrova ad affrontare un gigantesco rettile cornuto dalla coda a frusta, nella sua ingrata missione autogestita di difendere l’umanità sulla Terra. E finisce per farlo, tra tutti i luoghi possibili, nell’operoso e “friabile” porto di Kobe, importante città portuale situata nella parte centro-meridionale della grande isola di Honshu. Prima vittima designata: l’interessante torre panoramica alta 108 metri di colore rosso e dalla forma paraboloide di un oblungo tamburo tradizionale di tipo tsuzumi (鼓) , costruita tre anni prima nel 1963 grazie ad un’iniziativa fortemente voluta dal sindaco Chujiro Haraguchi, sul modello della popolare Euromast di Rotterdam, da lui visitata durante un viaggio in Olanda. Il successo internazionale del film costituisce l’inizio di un processo di sdoganamento mediatico, tanto a lungo ricercato da tutti gli abitanti di quei centri urbani che non sono delle capitali, ma possiedono allo stesso tempo un fascino del tutto degno, e qualche volta giustamente capace, di raggiungere i quattro distanti angoli della Terra. Ora nel caso specifico di Kobe, un luogo strettamente legato alla storia marittima e commerciale del Giappone, è possibile osservare luna singolare inclinazione pubblica a celebrare la fondazione del suo porto moderno nel 1867 con grandi opere architettoniche, sebbene la torre avrebbe finito per anticipare di cinque anni il primo secolo trascorso da un tale fatidico momento. Non così, d’altra parte, l’edificio costruito accanto ad essa nel 1987 (120° anniversario) quello che oggi viene conosciuto come Kōbe kaiyō hakubutsukan (神戸海洋博物館) o in maniera più accessibile il Museo Marittimo di Kobe. Il cui edificio, recante la sola firma architettonica della commissione edilizia cittadina (che metodo tipicamente asiatico di attribuire i meriti!) risulta impreziosito dalla caratteristica configurazione del tetto a forma di vela gonfiata dal vento, rappresentata grazie all’utilizzo di una serie di elementi tubolari in metallo. Simili a quelli della torre preesistente, ma lasciati questa volta di un più sobrio color bianco, grazie al cambiamento nel frattempo delle norme di sicurezza aeronautica, in modo tale da formare, assieme, i due colori della bandiera nazionale del Sol Levante. Possibile che si sia trattato di una semplice… Coincidenza?