Chi ha trovato finalmente l’oro dei guerrieri sotto un cumulo di pietre nella valle kazaka

È un assioma universale del comportamento umano, atemporale e privo di confini geografici, il fatto che la cupidigia le aspirazioni e inopportuni gesti di particolari moltitudini che non guardano l’insieme delle circostanze. Ma soltanto l’opportunità di un rapido guadagno personale, poiché d’altra parte, cosa hanno fatto gli antichi imperi per noi? In che modo può aiutarci dare agli altri, che a loro volta ben conoscono la convenienza di ostinarsi a perpetrare il ciclo dello sdegno e della reciproca noncuranza? Così come in Egitto, molto prima dell’invenzione dell’archeologia, schiere di “esploratori” scoperchiarono e fecero propri i più pregevoli e preziosi oggetti dei faraoni, qualcosa di simile è avvenuto nella valle di Eleke Sazy, un centro culturale di quel gruppo di etnie distinte chiamate in precedenza Sogdiani, Massageti, Issedoni, Sacaruli… Ma che lo studio genetico approfondito della nostra epoca, assieme al corpus di frammenti e testimonianze scritte raccolte nel moderno Oriente, ci ha portato a ricondurre in modo più specifico all’identità collettivi degli Scizi Orientali, o più semplicemente Saci dall’alto cappello conico e talvolta rosso (ancor più appuntito di quello reso celebre dai loro vicini) possibile ispirazione dell’iconografia contemporanea gnomesca. Utilizzatori fin dall’Età del Bronzo di una vasta quantità di materiali deperibili e fondamentalmente legati ad uno stile di vita nomadico, ma non per questo del tutto incapaci di lasciare valide testimonianze in grado di oltrepassare indefesse la lunga marcia dei secoli ulteriori. Primariamente grazie all’usanza, tutt’altro che insolita tra i popoli delle steppe, di costruire alti tumuli o kurgan in luoghi deputati sufficientemente sacri, ove ospitare i defunti della propria classe dirigente circondandoli dei loro più pregevoli averi terreni ad aurei tesori. Già, perché costoro, tra tutti gli utilizzatori notoriamente esperti del trasporto equino ed il tiro a distanza con gli archi compositi da cavalleria, erano forse quelli maggiormente inclini ad accendere frequentemente il fuoco delle proprie forge, dando forme iconiche e riconoscibili agli ammassi di minerali che acquistavano scavavano in maniera personale dalle miniere di cui erano a conoscenza. Dando luogo all’occorrenza di magnifici e disparati manufatti, scintillanti nella loro forma spesso incline a riprodurre o celebrare in qualche modo la natura. Non che ad oggi ve ne siano moltissimi esempi nei musei di tutto il mondo, essendo i principali complessi di tombe affini alle oltre 300 di Eleke Sazy ormai ben noti da moltissime generazioni, mentre secoli o persino millenni di sconsiderati saccheggiatori a partire dal remoto ottavo secolo a.C. fecero il possibile per trafugare, e poi rivendere i propri ritrovamenti nell’incessante circuito della ricettazione privata. Il che ci porta al singolare caso del ritrovamento del 2018 ad opera dell’equipe guidata ormai da lunghi anni dal Prof. Zainolla Samashev di una singola tomba soggetta ad una casistica tanto utile, quanto innegabilmente singolare: il crollo forse a causa di un terremoto del suo corridoio d’accesso sepolto, impedendo di fatto l’accesso all’interno per innumerevoli generazioni. Almeno fino a quel momento topico della complessa quanto attesa riapertura, che per importanza locale potremmo paragonare alla versione geograficamente riposizionata dell’apertura della tomba del giovane faraone Tutankhamon…

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Il pingo: un cumulo di terra. E sotto ad esso, l’iceberg che non puoi vedere

Milioni di facce sepolte sotto un guscio friabile ma saldo. La membrana che pur camminandoci tendiamo a definire “crosta”, quasi a sottolineare come sia soltanto un velo dietro il quale nulla è ciò che sembra, ma ogni cosa latita in un complicato caos di effetti reciprocamente agevolati: fuoco, fiamme, impermanenza delle forme. Per sempre sepolte, ma mai realmente sopite. Eppure, qualche volta, risvegliate. Poiché non è forse questo il senso di un dinamico quanto compatto promontorio? Che compare sollevandosi, nel giro di una quantità variabile di anni? Per svettare come nulla fosse, unico punto di riferimento, negli spazi senza tronchi e senza rocce dell’eterno permafrost del grande Nord… Oh, dirà il geologo tra il pubblico di questa introduzione. Sussistono creazioni come queste. Grazie a insoliti processi che potremmo facilmente mettere a confronto con il vulcanismo… Pur trovandosi all’estremo opposto di quel nucleo fiammeggiante che brucia l’anima e le mani. Un frutto freddo, se vogliamo. Ma non per questo, meno interessante o rappresentativo di quell’iter proceduralmente perpetrato che orgogliosamente definiamo, tra noi stessi ed a vantaggio d’ipotetiche creature, terrestre.
Eppure molto poco in termini di approccio scientifico, tralasciando la spiegazione di massima e un accenno di concause collegate al mutamento climatico di cui possono costituire l’indicatore, gravita attorno a queste insolite collinette, capaci di raggiungere i 70 metri di altezza ed i 1.000 di diametro, tradizionalmente utilizzate dagli Inuvialuit (o Inuktuk settentrionali) del continente americano per orientarsi. Soprattutto presso la penisola canadese di Tuktoyaktuk con il suo celebre Monumento Nazionale dei Pingo, ove ne sorgono all’incirca 1.350 in buona parte ben differenziati tra loro, incluso il secondo più alto del mondo, l’Ibyuk di 49 metri (il suo fratello maggiore si chiama Kadleroshilik ed è situato in Alaska, raggiungendone i 54). Gobbe di un cammello senza tempo e senza nome, ricoperto da una verdeggiante pelliccia erbosa. Simboli di vita dunque, che racchiudono all’interno e ben nascosto un simbolo di morte, il bianco gelo stretto in una morsa che non può conoscere alcun tipo di quartiere. Per il modo stesso in cui tali strutture tendono a manifestarsi, unicamente in luoghi dove il gelo è un’implacabile stato dei fatti. E in luoghi segreti, esso si concentra in modo ancor più ferreo in un possente pugno che attraverso decadi, se non singoli anni, può bucare e fuoriuscire dal terreno che appariva precedentemente privo disturbi nello stato del paesaggio esistente. Da che l’appellativo preso in prestito dal greco di “idrolaccolite”, idro- “acqua” e lakkos (cavità) + lithos (pietra). Il che costituisce se vogliamo un’eccessiva semplificazione o mera antonomasia. Laddove il pingo è fatto per lo più di ghiaccio, avvolto nella terra che riesce a nasconderlo eccellentemente. Senza che la pietra entri necessariamente, o frequentemente, nell’equazione…

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Le fantastiche radici dei cipressi non più immersi nell’effimero acquitrino di Tallahassee

In un certo tipo di racconti della fantascienza contemporanea, è convenzione che l’invasione aliena non raggiunga le terrestre sponde da molto, molto lontano. Palesandosi piuttosto come insurrezione o rimozione della maschera, di forze sotto copertura che aspettavano soltanto l’occasione o l’ordine dall’alto di far proprie le instabili strutture di governo costruite dai barcollanti umani. Disseppellendo quell’inarrestabile categoria di macchine, imponenti e longilinee, dalle zampe articolate e un lungo collo indagatore. Una guerra tra i mondi in altri termini, ovvero circostanze poco familiari ed esteriormente non troppo dissimili da quella rivelatosi, la scorsa estate così come nel 1999, 2000 e 2001, a tutti coloro che ebbero l’iniziativa di recarsi presso il bacino idrico di Cascade Lake, non lontano dalla capitale dello stato peninsulare americano per eccellenza. La Florida, quale altro? Un luogo che la convenzione vede già come fantastico, ancor prima che sublimi eventi come questo possano affiancare gli avvistamenti di enormi coccodrilli, pitoni e aculeati eserciti d’iguane alla ricerca di un territorio. Cui aggiungere, in maniera indisputabile, lo spettro longilineo dei Taxodium distichum, più comunemente detti cipressi calvi, cipressi di palude o più semplicemente cipressi, in queste terre ove l’imparentato sempreverde dei giardini formali o cimiteri italiani non è certo una visione di tutti i giorni. Presenze vegetali lungamente adattate ad uno stile di vita tutt’altro che comune, consistente nel prosperare con la parte basica del tronco totalmente immersa nelle acque biodiversamente affollate di uno degli ultimi veri ambienti selvaggi dei nostri giorni. L’immagine parecchio usata in campo metaforico, sia politicamente che altrove, in cui l’acqua incontra il suolo asciutto e viceversa, in un complesso susseguirsi di disomogenei contesti. Un pelo totalmente opaco, caso vuole, proprio per l’alto contenuto di tannini degli aghi perduti dalle chiome soprastanti, capaci di annerire e rendere impenetrabile il mistero dei tentacoli che ne collegano il tronco svettante al suolo della palude. Finché l’evento sopra prospettato, per ragioni chiare ma non prevedibili dal punto di vista cronologico, non agevolano l’immane gioco di prestigio rivelatorio. Già, ma quali sono le ragioni del fenomeno, esattamente?

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Quale shampoo? Ci basterà spremere lo zenzero nella foresta equatoriale

Un uomo in India meridionale avanza, con fare indagatorio, nell’angusto sentiero che procede in mezzo agli alti tronchi ricoperti di muschio. Risuona con cadenza ritmica il suono di scimmie distanti. D’un tratto egli si ferma, con lo sguardo concentrato, e volge gli occhi ad un basso cespuglio. In mezzo a quelle fronde, prospetticamente messo in evidenza, figura un lampo di colore stranamente fuori dal suo contesto. Rosso, giallo ed arancione come una bottiglia di una trentina di centimetri d’altezza, ma dotata della forma stranamente suggestiva di un qualche tipo di alveare o altro nido d’imenotteri, insetti socievoli e compatti nella propria missione. Con appena l’ombra di un sorriso sul volto concentrato, l’individuo si avvicina a quello che può essere soltanto: un fiore. Ed anzi a conti fatti ed ora che ha guardato meglio, ce ne saranno, almeno, una dozzina. Egli ne impugna il più vicino tra l’indice e il pollice, come se stesse per staccarlo dalla pianta. Ma invece stringe la sua mano con fugace enfasi, mentre un liquido perfettamente trasparente inizia a colare. Fluido, profumato nettare creato dalla natura. L’abitante di un contesto particolarmente remoto, allora, mette l’altra mano a coppa sotto la cascata. Dunque al trascorrere di qualche attimo saliente, solleva quest’ultima fino alla testa ed al volto. Con una smorfia indecifrabile viste le circostanze, inizia dunque a strofinare.
La pulizia personale, in luoghi caldi, umidi e spesso privi d’acqua corrente che non sia un semplice fiumiciattolo intento a serpeggiare tra le radici, diviene straordinariamente importante. Ma anche l’occhio vuole la sua parte, e non sia mai che gli abitanti della giungla rinuncino completamente a portare i capelli lunghi. Che richiedono inerentemente e nella maggior parte dei casi, un impegno costante. È qui che entrano in gioco, nella maniera conosciuta fin dai tempi ancestrali, determinate piante appartenenti al genere Zingiber, lo stesso da noi ampiamente conosciuto come fonte dello zenzero, la radice utilizzata in tutto il mondo come beneamato e altrettanto riconoscibile condimento. Una pianta il cui processo riproduttivo risulta essere tutt’ora tanto misterioso per la scienza, nell’assenza in molte specie di frutti o semi, da aver lasciato teorizzare che potesse trattarsi di un ibrido sterile capace di propagarsi unicamente mediante un processo di tipo vegetativo. Vedi il caso dello Z. mirabile o (vero) ginger selvatico con la forma di un favo, noto agli antenati di questi popoli per una caratteristica particolarmente distintiva: la capacità di produrre impressionanti quantità di nettare, molto amato da insetti e piccoli uccelli della foresta. Ma anche tutti coloro che, dopo averne consumato le numerose parti commestibili, ancora sentono il bisogno di dedicarsi alla tutela della propria persona…

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