Il sorriso dei palazzi che ricordano ai tedeschi un eclettico maestro della Pop Art

Può essere un concetto filosoficamente rilevante il tentativo d’immaginare che le cose, nel loro sussistere, possiedano quella coscienza implicita in grado di trascendere l’ora e il singolo momento della loro stessa creazione. Percependo tramite coloro che ne fanno uso, di volta in volta le precipue associazioni umane, inclusa quella che determina il coordinamento occasionalmente soggettivo tra causa ed effetto. Vedi l’impetuoso fiume cristallizzato di cemento, metallo e vetro, che il lessico contemporaneo ama definire megalopoli della trascendenza, ovvero centro imprescindibile di tutte le moderne aspirazioni, desideri e progetti sia presenti che futuri. Un luogo in cui sarebbe facile essere felici, secondo lo stereotipo delle allegorie bucoliche e l’impostazione “innata” della nostra esistenza, il cui valore può essere misurato (molti ne sono convinti) nelle ore in cui si mettono la testa e spalle fuori dal gravoso iter ripetuto del quotidiano. Il che risulta essere d’altronde una questione di punti di vista, come quelli garantiti da un particolare tipo di organi sensoriali, più imponenti di quelli di una balenottera azzurra ma anche maggiormente statici, in quanto un prodotto ineccepibile dell’immaginazione pensante. Iride, pupille e sclere, per non parlare quindi di quel naso e un gran paio di baffi, sotto cui compare di sottecchi il segno di una bocca che denuncia la migliore e più compromettente delle emozioni. Pura ed inadulterata, folle, immotivata allegria. Poiché se la città avesse un volto, questo è poco ma sicuro, ella ne farebbe uso per interfacciarsi con noialtri, operosi creatori della sua tangibile essenza; mentre di rimando e per il nostro conto, parleremmo a quei palazzi con un tono non dissimile da quello usato per bambini o cani domestici, accarezzandone abbaini e le ringhiere in segno di ringraziamento per il loro contributo al bene della collettività che ne abita le cavità interiori o “stanze”. Per l’acquisizione di un’inclinazione alla reciproca tolleranza più profonda ma che dico, per certi versi, persino migliore.
E c’è un fondamentale ottimismo di contesto nell’opera pregressa, ivi incluso il suo singolo contributo architettonico al centro della Bassa Sassonia di Braunschweig, dell’artista newyorchese James Rizzi, defunto prima del suo tempo nel 2011 all’età di soli 61 anni mentre faceva ciò che amava maggiormente e che costituisce il proprio principale lascito ad una sempiterna collettività con il prezioso incarico d’interpretarlo. Traendone ottimi pensieri, come quelli suscitati dal complesso di uffici oggi noto con il nome di Happy Rizzi House, la più spettacolare divagazione dall’aspetto che tendiamo a dare per scontato in un qualsiasi tipo di edificio, ma anche la realizzazione materiale di un qualcosa che lui aveva lungamente teorizzato in forma grafica, l’immagine specchiante di quel tentativo, universalmente complicato, di sorridere a una vita che sorride in cambio. Siamo tutti, in fin dei conti, acciaiose sfere che rimbalzano tra i ponti e rampe di un immenso flipper amorale e privo di pregiudizi. Tanto vale, a tal fine, che abbia il miglior look immaginabile e ci faccia, di tanto in tanto, l’occhiolino…

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La scarpa intelligente che raddoppia l’efficienza bipede dell’Homo sapiens

La vita nelle grandi metropoli risolve una grande quantità di costanti problematiche sperimentate attraverso i secoli dai plurimi esponenti della civiltà umana. Relativa vicinanza dei servizi, negozi, semplicità negli spostamenti grazie all’esistenza imprescindibile, per quanto naturalmente imperfetta, dei trasporti pubblici costantemente disponibili al momento in cui ci serva di raggiungere un luogo diverso. Il progressivo diffondersi dell’automobile e degli altri mezzi a motore tuttavia, all’inizio del secolo scorso, ha imposto nel disegno della pianta cittadina il rispetto di una serie di presupposti, dettati in modo autoritario delle implicite necessità di un largo carro, per cui l’estendersi delle distanze costituisce un contrattempo relativo e meramente privo di significato. Così il proliferare dei corsi, viali, strade di scorrimento, delle rotatorie e delle grandi piazze, talvolta più simili a uno svincolo delle autostrade della vita che un passaggio necessario nei risvolti quotidiani di quest’ultima, ha reso più difficile l’esplorazione di quel dedalo, che potremmo definire una sorta di trappola nel ripetitivo incedere dei giorni. Perché si, tu PUOI raggiungere casa/scuola/lavoro facendo affidamento unicamente sui tuoi muscoli. Ma sarà meglio che continui ad allenarli, considerando l’esistenza di quel drammatico, indesiderabile ultimo miglio. Un termine usato frequentemente, di questi ultimi tempi, ai margini delle disquisizioni sui molteplici sistemi alternativi di spostamento. Perché nessuno, a quanto sembra, vorrebbe continuare a camminare lungo tratti superiori a qualche dozzina di metri. Nonostante l’efficienza frutto dell’evoluzione che ci rende tra le specie note quella meglio equipaggiata per riuscire a farlo, causa considerazioni di contesto quali tempo necessario, dispendio energetico e spiacevole sensazione di spossatezza. E non parliamo poi della corsa, rischiosa e stancante, oltre a lesiva per l’immagine causa sudorazione e conseguente bagnamento degli abiti indossati fuori dai contesti sportivi. Dal che, l’idea di Xunjie Zhang, precedente capo di un gruppo di studio presso l’Università di Carnegie Mellon passato da qualche tempo, come tanto spesso capita, ad ambizioso capo d’azienda sotto l’etichetta della startup Shift Robotics. E tramite il sistema del finanziamento online, così spesso utilizzato per raggiungere la produzione di un qualcosa che “Tutti avevano sempre voluto, ma nessuno aveva mai pensato di produrre” così frequente in qualità di slogan su portali come il suo elettivo Kick-Starter. Per pregressa mancanza di risorse, tecnologia, tempo… Sebbene approcci alternativi alla faccenda esistano, benché nessuno dello stesso livello per funzionalità e versatilità delle sue Moonwalkers, delle (sotto)scarpe dotate di motore, batteria e ben 8 ruote parzialmente sovrapposte, per poter meglio adattarsi “Ai marciapiedi dissestati in pieno stile rust belt della nostra Pittsburgh” (un riferimento al degrado post-industrialista di questa particolare regione statunitense). Mentre procedono a passo spedito, e noi sopra di esse, verso l’obiettivo sublimato di ciascuna ideale trasferta più o meno dedicata ad uno scopo ben preciso. Con una rapidità stimata di fino al 250% dell’alternativa maggiormente simile, che poi sarebbe fare affidamento unicamente sulla limitata preparazione muscolare degli individui. Certo, si è più inclini a eccellere nel perseguimento dei propri singoli obiettivi. Quando si può superare abbondantemente il centinaio di migliaia di dollari d’incasso ancor prima di aver immesso un singolo prodotto sul mercato internazionale….

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Elettrico Lilium, un pettine volante sull’ali del cambiamento

Non capita certo frequentemente, persino in quest’era iper-tecnologica, che una “semplice” startup riesca a generare un nuovo processo nel mondo dei trasporti aerei, al punto da creare un’intera nuova tecnologia di apparecchio, essenzialmente un concentrato di plurimi elementi relativamente innovativi. Che tutti assieme mostrano quanto possa essere facile, persino invitante, compiere il balzo per l’Empireo scrollandosi di dosso la presunta affinità terrestre della specie umana. Con ali aguzze e frastagliate come il ripetersi di una merlatura medievale, la ripetizione di un modulo del tutto assente dalla cognizione convenzionale di cosa debba essere, e come possa presentarsi esteriormente un aeroplano. Naturalmente, ci sono startup e startup: da una parte quelle che raccolgono su Internet i fondi per creare un qualche tipo di software o videogioco, con capitali paragonabili a quelli di un medio bar di paese. Ed altre come questa compagnia tedesca, ricevente di 250 milioni di dollari l’anno con 290 di liquidità e 75 di credito da parte di personalità del calibro di Elon Musk, che ne ha investito fino ad oggi un gran totale di 35. Nonché 500 preordini confermati di un velivolo, con costo unitario pari o superiore a 4,5 milioni di dollari cadauno. Un affare dalle proporzioni decisamente superiori, dunque, a quello dei numerosi “droni-taxi” a decollo verticale che hanno affascinato nel corso degli ultimi anni le testate mediatiche, come esemplificato dall’obiettivo dichiarato di ottenere entro il 2025 la doppia certificazione della FAA statunitense ed EASA europea per il loro eponimo pupillo. Ovvero in altri termini, la conferma che non soltanto l’atipico marchingegno noto come Lilium nella sua incarnazione definitiva possa volare in tutta sicurezza, ma il suo approccio sia persino adottabile su scale ben maggiori in quanto valida espressione del bisogno assolutamente contemporaneo di collegare due punti geografici attraverso lo spazio normalmente posseduto dagli uccelli e nubi fluttuanti. Finalità tutt’altro che irraggiungibili proprio grazie a quella stessa caratteristica che è poi anche all’origine dello strano aspetto e l’unicità della creazione in oggetto, ovvero la presenza di ben 36 motori elettrici, di cui 12 montate sulle ali anteriori del tutto simili ad un paio di canard con funzioni meramente aerodinamiche e 24 su quelle posteriori o flap, che poi sono anche l’unica parte mobile dell’intero aereo, chiamate per l’appunto con il nome della principale superficie direzionabile diagonalmente o perpendicolarmente alla direzione percorsa dal pilota. Un sistema quanto mai intrigante per modificare l’assetto in volo fino al punto estremo della stasi orizzontale, così come fatto dai comuni elicotteri, ma potendo una volta in quota puntare direttamente all’indietro gli ugelli, per procedere ad una velocità di fino a 300 Km/h. Particolarmente vantaggiosa, tra le tante ragioni, per il modo in cui incrementa la portanza naturalmente acquisita riducendo conseguentemente i consumi, esigenza niente meno che primaria per un mezzo come questo che riesce ad essere completamente alimentato a batteria. Pur vantando, almeno sulla carta, una massima distanza raggiungibile di 250 miglia/300 Km in qualsiasi direzione, proprio grazie ad una serie di accorgimenti tecnologici completamente al di fuori delle convenzioni…

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Imprenditrice immagina un futuro in cui le strade di Nairobi saranno ricoperte di plastica riciclata

In una memorabile puntata del cartoon fantascientifico Futurama, veniva mostrata una possibile modalità del tutto priva di difetti per riuscire a smaltire la spazzatura: una gigantesca sfera, che qualcuno potrebbe chiamare katamari, spinta oltre l’atmosfera terrestre mediante l’utilizzo di un razzo, nella rotta attentamente calibrata per andare a schiantarsi, ed essere del tutto obliterata, sull’incandescente superficie dell’astro solare. Soluzione drastica, anche senza considerare il dispendio in termini di tecnologia e carburante, che in contesti maggiormente razionali avrebbe dovuto essere subordinata ad un approccio maggiormente reversibile. Poiché ogni cosa di cui dovessimo in futuro liberarci in modo definitivo, andrà effettivamente a sparire dal carnet di possibili risorse un giorno adatte allo sfruttamento. Poiché tutta la materia, in qualche maniera, può pur sempre essere riutilizzata previa l’accettazione di un giusto numero di compromessi. Assunto in qualche forma sostenuto, e indubbiamente divulgato, grazie all’opera continuativa di Nzambi Matee, fondatrice e titolare dell’azienda kenyota Gjenje Makers, diventata celebre negli ultimi anni per una tecnica proprietaria di trasformazione dei rifiuti in materiale da costruzione, particolarmente solidi mattoni da impiegare per costruire delle strade e forse, un giorno, anche interi e svettanti edifici. Plastica, per esser maggiormente specifici, veementemente raccolta e selezionata dalle circa 500 tonnellate giornaliere prodotte dalla sua natìa capitale, Nairobi, e comunemente destinate unicamente a discariche come quella di Dandora, la letterale “città nella città” gradualmente espansa fino all’attuale misura di 30 acri, utili a diffondere in ogni direzione le sue malattie e i suoi veleni. Portati ad ad accrescere l’ammasso da camion della spazzatura costretti a circolare frequentemente lungo strade sterrate, ed è forse questa, in ultima analisi, l’idea di partenza dell’ingegnosa procedura di riciclo messa in atto nell’officina dell’ormai ben conosciuta azienda. Poiché la processazione dei materiali al termine della propria vita utile comporta sempre dei costi, e non c’è slogan migliore agli occhi degli investitori di quello pronunciato dall’autrice della mission e vision aziendale di “Let’s turn trash, into cash” (Trasformiamo la spazzatura, in denaro!) Ben più che una semplice vuota promessa, per quanto possiamo apprezzare nei materiali a supporto dell’ingegnosa venture in cui si parla delle caratteristiche strutturali dei suoi mattoni. Fino al doppio di resistenza alla compressione, per non parlare di quella molte volte superiore in tensione, dei comuni mattoni per pavimentazioni di cemento, ad un costo significativamente inferiore: circa 7 euro al metro quadro, contro gli almeno 20 delle soluzioni prodotte mediante metodologie tradizionali. Un’offerta possibile grazie ad una filiera di fornitura delle materie prime risultata capace di produrre posti di lavoro per 110 persone in modo diretto ed indiretto nel corso degli ultimi due anni, ovvero da quando Matee è stata nominata dal Programma per l’Ambiente delle Nazioni Unite (UNEP) “giovane eroina del pianeta”, massimizzando la sua capacità di trovare imprenditori localmente e grazie ad Internet da ogni altra possibile parte del mondo. Un riconoscimento certamente meritato, come potrete desumere prendendo atto delle sue esternazioni attuali e precedenti…

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