Cos’è che non ti aspetteresti assolutamente di vedere, dopo aver camminato per diverse ore lungo la brulla costa del paese più lungo e stretto al mondo, il Cile? Stanco per la pesante cappa di calore, con una temperatura di circa 36 gradi, accecato dalla luce del Sole primaverile, senza un briciolo d’ombra in vista. Soltanto il suono della risacca, molti metri più in basso, che impatta insistentemente contro la sabbiosa scogliera. Quando a un tratto, stagliandosi contro l’azzurro dell’orizzonte, appare sopra il suolo roccioso una piccola sagoma bianca e nera. Che barcollando lievemente, sembra del tutto intenzionata a dirigersi nell’entroterra. Fermandosi momentaneamente, il tozzo non-volatile dirige lo sguardo al tuo indirizzo. Punta il becco verso l’alto, ed emette un suono: “hi-hooooo“. Eppure non è un asino. Da queste parti, lo chiamano patranca. Per tutti gli altri, è il pinguino [della corrente di] Humboldt, che prende il nome da un particolare fenomeno dei mari del sud. Che prende il nome, a sua volta, da un esploratore e polimata prussiano. Il quale fu il primo a trattare, nei suoi scritti, la maniera in cui un fronte dinamico con risalita delle acque profonde, con origine nei luoghi più remoti dei mari del Sud, sembrasse correre in maniera parallela al continente sudamericano. Trasportando assieme a se, letteralmente, un intero pezzo di ecosistema. Nessuno può realmente affermare di conoscere il momento, in cui queste creature così apparentemente rappresentative dell’ambiente pallido del Polo Sud, scelsero di gettarsi nel grande flusso, per approdare a un nuovo continente nei pressi della Terra del Fuoco. Né perché, in effetti, abbiano deciso di farlo. Eppure, quella che si staglia per i suoi rispettabili 70 cm dinnanzi a voi, in buffa posizione eretta, non è davvero una realtà che possa essere negata. In uno dei luoghi più caldi della Terra, ci sono i pinguini.
È una vita, come potreste immaginare, tutt’altro che facile. Nonostante qui sussista una quasi totale mancanza di predatori di terra, requisito niente meno che fondamentale per un uccello che fa il nido in una piccola buca nel guano, e non ha altri strumenti di autodifesa che il suo mimetismo di Thayer, con il ventre chiaro e il dorso scuro al fine di confondersi nei giochi di luce sotto al mare. Ciò detto, il vero nemico di questa graziosa ma non del tutto innocua creatura, che si nutre voracemente di krill, piccoli pesci e cefalopodi, è il clima. Di un luogo le cui giornate raggiungono temperature paragonabili a quelle di qualsiasi altro deserto dell’emisfero meridionale, mentre la notte, molto spesso, si supera il punto di congelamento. Il che non sarebbe particolarmente problematico, per un animale creato dall’evoluzione al fine di resistere a temperature di 40 gradi sotto lo zero, e che può sempre gettarsi nelle fredde acque dell’omonima corrente, per rinfrescare allegramente le sue piume. Se non fosse per un drammatico problema: la riproduzione e il conseguente pegno del proprio amore, l’oggetto sferoide identificato con il nome di uovo. Deposto il quale, i due genitori dovranno fare tutto il possibile per mantenerlo in ombra, spesso rischiando di surriscaldarsi loro stessi, mentre respirano tenendo aperto il becco nella vana speranza di abbassare la temperatura al di sotto di tutto quel grasso che li isola dall’ostilità meteorologica del territorio. Ed c’è un continuo ricambio, tra lui e lei, con la controparte che si reca, ogni tot ore, a farsi un tuffo in mare, per nutrirsi e recuperare almeno in parte le proprie forze fiaccate dal calore. Un momento in cui potremmo dire, senza alcun timore di essere smentiti, che inizia un degli spettacoli più affascinanti della natura. Poiché il nostro pinguino-asino, come è colloquialmente noto, ha questa abitudine probabilmente motivata dall’auto-difesa di stabilirsi in cima a luoghi particolarmente scoscesi. Così che egli dovrà, più volte e per ogni singolo giorno della sua vita, inerpicarsi in mezzo a rocce acuminate, rotolando alla bene e meglio fino al miraggio della sua meta. Per poi attraversare il letterale mare di piume e guano, prodotto dalle centinaia di esemplari che compongono una delle sue colonie, o potenzialmente l’oceano vivente prima della spiaggia, composto da un’assembramento dei loro principali avversari nella catena alimentare, i leoni marini sudamericani (Otaria flavescens/byronia) disturbandole non poco con l’insistente battere dei loro piedini palmati e neri. Ma l’obiettivo, come spesso capita, sembra giustificare il rischio pur sempre latente di essere divorati…
oceano
Lo spettro atlantico del mega-tsunami
All’alba del giorno X, lievi tremori sveglieranno tutti i cani delle isole Canarie, per quello che i locali potrebbero interpretare, inizialmente, come l’ennesimo sciame sismico privo di conseguenze. Ma una scossa più forte delle altre, all’improvviso, lascerebbe intuire la verità: la montagna di fuoco che si risveglia, ancora una volta, per scatenare tutta la sua furia repressa sulle teste di coloro che da un tempo lunghissimo, sono vissuti all’ombra della sua svettante presenza. Un poco alla volta, o forse nel giro di un istante, gli sconvolgimenti geologici che seguono puntualmente il fenomeno di un’eruzione, intaccherebbero in profondità la crosta e il mantello, con ondate oblique che andrebbero a manifestarsi, di nuovo, in un particolare punto della montagna del Cumbre Vieja, sull’isola verdeggiante e ospitale de La Palma. E sarà allora che l’evidente crepa sul suo versante, lungamente studiata da geologi ed altri scienziati della Terra a partire dal 1999, raggiungerà un punto critico di non ritorno. Un disastro come questo che avanza, lento e imperterrito, verso il suo espletamento risolutivo, può essere facilmente previsto. Ma ci sono casi in cui neanche l’uomo, l’onnipotente, onnisapiente erede delle scimmie sagge della Preistoria, può industriarsi per risolvere alcunché. Così l’intero versante ovest del monte scivolerà in mare. Potrebbe succedere tra mesi, anni, oppure generazioni. Ciò di cui dovremmo preoccuparci maggiormente, tuttavia, non è l’incertezza cronologica. Bensì la portata, letteralmente globale, delle possibili conseguenze.
Tutti in Italia conoscono, se non ricordano in prima persona, il disastro terribile del Vajont. Quando il nuovo bacino idroelettrico dell’omonimo torrente alpino, costruito senza studi sufficientemente approfonditi della geologia locale, subì le gravissime conseguenze di una frana, verificatasi il 22 marzo 1959, per una quantità complessiva di detriti ammontante a 3 milioni di metri cubi. I quali, precipitando all’interno del lago artificiale, trascinarono con se ossigeno sollevando una quantità persino superiore d’acqua, che tracimando al di fuori dell’invaso, trascinò a valle la spaventosa ondata di fango e pietre che, a partire dalle ore 22:39, causò la totale distruzione di svariati villaggi del fondovalle veneto. Nonché la tragica morte di 1.910 persone. Quello che invece non viene spesso discusso, perché distante geograficamente e fortunatamente privo di conseguenze altrettanto gravi, fu il fenomeno estremamente simile che si era verificato soltanto l’anno prima nella baia di Lituya, non troppo lontano da Anchorage, capitale e principale città dell’Alaska. Quando, per un sommovimento tellurico, le pareti scoscese del golfo si staccarono in maniera improvvisa assieme a una parte del ghiacciaio soprastante, precipitando rovinosamente in mare. 300 milioni di metri cubi stimati, di pietra, terra, neve e detriti, abbastanza per sollevare un’onda apocalittica dall’altezza di 30 metri, che risalì le pareti della baia in data 9 luglio del 1948. Cinque persone, che si trovavano a bordo di due barche di pescatori, persero immediatamente la vita, mentre un sesto equipaggio, composto da marito e moglie, che si trovava all’imboccatura della baia, riuscì a cavalcare con la propria barca la furia della natura sconvolta, per testimoniare l’incredibile evento a beneficio della posterità. Oggi si ritiene che, se questo prototipo del concetto stesso di mega-tsunami si fosse generato in un tratto di mare più aperto, per l’effetto domino delle masse d’acque coinvolte, avrebbe finito per generare la più grande onda anomala della storia, devastando l’intera costa ovest degli Stati Uniti.
Ma persino tutto questo non è praticamente nulla, in confronto a quanto potrebbe verificarsi, secondo uno studio scientifico pubblicato da Simon Day, Steven Neal Ward et al, relativo a quello che ci aspetta nel momento in cui il fianco ovest della seconda vetta più alta delle Canarie dovesse spaccarsi letteralmente in due, lasciando precipitare in mare la quantità stimata di un milione e mezzo di metri cubi di terra e pietra. I quali, accelerando in fase discendente, andrebbero a generare il più grande flusso di detriti della storia registrata, come un sasso gettato al centro di un lago, grande quanto la metà dell’intero pianeta Terra. A quel punto, a patto che il crollo si verifichi in maniera improvvisa e non graduale, ciò che andrebbe a crearsi è un’onda concettualmente non dissimile da quella del Vajont o della baia di Lituya, ma molto più grande ed ampia. La quale si propagherebbe, in maniera minore, verso il Nord Africa, il Portogallo e la parte meridionale dell’Inghilterra. Ma sarebbe sopratutto una direzione, ad accogliere tutta la sua furia: l’estremo Occidente, verso le coste inconsapevoli dei remoti Stati Uniti.
La potenza di una nave che non può essere affondata
Le storie degli antichi cavalieri giungono talvolta all’apice in questa maniera: il nostro eroe, circondato dai nemici del regno getta da una parte l’elmo ormai ammaccato e tira fuori dal suo fodero, finalmente, l’arma troppo forte che aveva giurato di non usare mai più. Perché protetta da uno spirito, o da un santo, e per questo costruita con acciaio meteoritico. Entrambi margini davvero significativi di miglioramento. Una spada che non può spezzarsi è sotto molti punti di vista, l’implemento bellico definitivo. Essa potrà penetrare oltre le piastre di un armatura come se fosse fatta di burro. Sarà in grado di deviare il colpo di mazze, alabarde o altre armi molto più pesanti, nonché meno maneggevoli di lei. In duello, devierà il colpo del nemico piegandosi per assorbirlo, per poi riprendere la forma pronta per il colpo successivo, come se non fosse successo alcunché. La ricerca di attrezzi equivalenti nella guerra moderna, storicamente, è stata spesso fatta oggetto di approfondite analisi scientifiche e tecnologiche. Nello scontro tra gli eserciti in divisa mimetica, dove il concetto dell’onore è ormai un lontano ricordo, sarebbero ben pochi a volersi privare di un simile vantaggio in battaglia: sommergibili che non possono essere individuati, aerei troppo rapidi per qualsivoglia intercettore, carri armati impossibili da penetrare tramite l’impiego di munizioni convenzionali. Un’ideale trasformabile, in base alle diverse circostanze d’ingaggio. Che potrebbe aver raggiunto l’apice, in campo navale, nell’epoca remota del 1909. Stiamo parlando di Fort Drum, la pseudo-imbarcazione più resistente che sia mai stata impiegata dall’esercito degli Stati Uniti ed in effetti, il mondo intero.
Teddy Roosevelt, che odiava questo soprannome, fu per molti versi il prototipico eroe americano: grande cacciatore, esploratore, naturalista e soldato, fino al giorno, nel 1901, in cui diventò il 26° presidente del suo grande paese. Ma prima di riuscirci, come molti dei suoi predecessori, avrebbe combattuto strenuamente, mettendo a rischio la sua sopravvivenza in guerra. Quella, nella fattispecie, ispano-americana, combattuta in merito a un tema ritenuto niente meno che fondamentale all’inizio del secolo scorso: l’indipendenza dell’isola di Cuba. Fu così che, in quello che Teddy avrebbe definito “il suo giorno più grande”, lo storico repubblicano guidò all’assalto la carica dei Rough Riders, l’anti-convenzionale e largamente autofinanziato reggimento dalla composizione estremamente eterogenea, lungo il ripido versante della collina di San Juan, 2 Km ad Est di Santiago di Cuba. Egli avrebbe raccontato con orgoglio questa storia nella sua autobiografia, descrivendola come la nemesi di un qualsiasi condottiero europeo: “Qualunque teorico l’avrebbe ritenuto impossibile. Attaccare il nemico ancora in possesso del suo morale e in posizione elevata, dietro formidabili fortificazioni. C’era solamente un modo in cui avrei potuto condurre quegli uomini alla vittoria. E quel modo era mettermi davanti e correre su per la [dannata] collina.” Storia più volte raccontata, ed elogiata nelle classi liceali, mentre comparabilmente molto meno ripetuta è la vicenda personale del suo successore nella carica suprema, quel William Taft che si era formato come politico in un campo totalmente differente. Avvocato, poi giudice, quindi membro di spicco dello stesso partito repubblicano che aveva mantenuto il controllo del paese a seguito dell’assassinio di William McKinley, 25° presidente, da parte di un anarchico al termine del conflitto ispanico-cubano. La prima cosa davvero importante che Taft fece per il suo paese, d’altra parte, avrebbe lasciato un segno estremamente duraturo nella storia dei protettorati d’Oriente: nominato da Roosevelt stesso come capo della Commissione per le Fortificazioni, fu inviato nel 1905 nelle Filippine, dove lo Squadrone Asiatico delle navi da combattimento americane aveva dovuto subire nel corso del conflitto la pressione congiunta delle flotte spagnola e tedesca, vincendo solamente dopo aver fatto fronte a significativi problematiche logistiche e mancanza di rifornimenti. “Mai più” giurò quindi l’allievo del formidabile Teddy, elaborando un piano del tutto privo di precedenti: la costruzione di una serie di forti costieri, armati fino ai denti, che nessun cannone nemico avrebbe potuto facilmente ridurre ai più miti consigli. Tra i quali, quello più formidabile sarebbe stato posizionato proprio sull’isolotto di El Fraille, nella parte meridionale della baia di Manila, non lontano da Corregidor. I tecnici nominati da Taft scelsero quindi, per il caso specifico, una soluzione resuscitata letteralmente dalle pagine della storia militare. Fatta saltare con la dinamite l’intera parte superiore di quel pezzo affiorante di barriera corallina, lo ricoprirono di cemento armato e piastre d’acciaio, creando il guscio più solido che fosse immaginabile da un uomo di marina. Per caso, o del tutto volutamente, il profilo risultante prese un aspetto idrodinamico e marcatamente navale, quasi volesse prendere il largo da un momento all’altro. L’unione tra installazione militare ed isola era ad un tal punto totalizzante, che in effetti non si capiva più dove finiva la natura, ed iniziava l’opera imprendibile dell’uomo.
Il rischio di distrarsi sulle spiagge oregoniane
Il più grande amico dell’umanità, il mare. Il maggior nemico degli umani. È tutta una questione di circostanze e condizioni climatiche, un convergere delle più fluide circostanze, l’emergere di basse pressioni, la loro interazione con l’atmosfera, il conseguente generarsi di cicloni ed uragani che distruggono le coste, le navi, le città. Ci sono poi quei casi, purtroppo assai frequenti, in cui un sommovimento di natura tellurica causa spostamenti di un’ingente massa d’acqua, che una volta giunta a riva si trasforma in maremoto. Qualche volta basta un’eruzione. In altri casi basta… Il nulla. Soltanto un altro modo di uccidere, per il più crudele e ipocrita degli elementi. Sapete ogni anno, quante persone muoiono per il fenomeno chiamato in lingua inglese delle sneaker waves? (Onde subdole) dai nove agli undici individui. Eppure, ancora oggi, se ne parla molto poco. Facendo piuttosto rientrare l’intera questione nel catalogo della sapienza popolare, quella serie di avvisi, quasi mai ascoltati, che le nonne ci ripetono ogni volta che se ne presenta l’occasione. Una noncuranza di certo giustificata, nella nostra terra che si affaccia su di un mare interno, il Mar Mediterraneo, dove i cavalloni non hanno molto spazio per correre, ingrandendosi prima di fare il grande balzo verso l’entroterra. Ma ci sono luoghi, all’altro capo del globo, dove le regole del gioco sono differenti. E persino una piacevole passeggiata con il cane sulla spiaggia, in una giornata apparentemente tranquilla, può trasformarsi nell’ultima scena della nostra vita.
C’è un detto in Oregon, in realtà diffuso nell’intera zona Nord-Ovest degli Stati Uniti: “Non importa cosa facciate, non distogliete mai lo sguardo dall’Oceano”. Un consiglio ed uno stile di vita, che viene inculcato nelle nuove generazioni fin dalla tenera età, affinché si elimini almeno in parte il pericolo dell’annegamento e il conseguente oblio. E questo è stato certamente una fortuna, nel contesto della scena ripresa da Steve Raplee, il proprietario dell’High Tide Cafè presso la località di Coos Bay, situata nella parte meridionale dello stato stato, a circa 250 Km dalla città di Portland, nel quale un bambino si aggirava tranquillamente sulla sabbia, apparentemente protetta da una barriera frangiflutti di scogli artificiali. Intendiamoci, non è che il mare fosse propriamente calmo. Ma neanche, secondo gli standard locali, particolarmente agitato. Ma sopratutto, le condizioni apparivano perfettamente regolari. È questa la natura “subdola” dell’onda in merito alla quale siamo stati messi in guardia: non il prodotto culmine di un progressivo inasprirsi delle condizioni vigenti. Ma il verificarsi, improvviso e immotivato, di un accrescimento momentaneo, subito seguìto da un ritorno, per lo meno apparente, all’assoluto stato di normalità. È così che l’impeto del mare, all’improvviso si ritrova a scavalcare la patetica barriera, minacciando di portarsi via bambino, e cane.
Ogni studio che possa dirsi relativo al fenomeno delle onde anomale è in realtà piuttosto recente, nello schema generale delle cose, facendo esso parte di un campo nato formalmente nel 1995, dopo aver deriso per molti secoli le “storie senza senso dei marinai”. La ragione è presto detta: ogni qualvolta che qualcuno incontrava, in alto mare, simili castelli d’acqua alti oltre i 20 metri, soltanto molto raramente gli riusciva poi di tornare sulla terra ferma, per aggiungere la propria testimonianza al paniere. Finché esattamente il primo gennaio di quell’anno, nel Mare del Nord a largo della punta sud della Norvegia, non si verificò il fenomeno che avrebbe cambiato tutto quanto. Presso la Draupner E, una piattaforma petrolifera della Statoil, che essendo assicurata al fondale con un sistema a secchio interrato, piuttosto che galleggiante ed assicurata con delle ancore, era stata anche dotata di un sistema laser per la misurazione di altezza, forma e pressione esercitata dalle onde. Fu così, proprio quel giorno, che la sofisticata apparecchiatura ebbe modo di essere messa duramente alla prova, trovandosi a misurare un qualcosa che la comunità scientifica riteneva possibile soltanto una volta ogni 10.000 anni: un’onda misurante 25,9 metri. La piattaforma, per la fortuna dell’equipaggio a bordo, non si capovolse e non affondò. Così ben presto, nella comunità scientifica, prese il via la solita corrente all’interno della quale ognuno avrebbe voluto dire la sua….