La vastità del parco dove nacquero le scienze botaniche a Rio de Janeiro

L’opportunità di percorrere vasti viali alberati è un’importante caratteristica delle vecchie metropoli, che dimostra la coscienza ecologica ed ambientalista maturata già al principio degli scorsi secoli, quando i progettisti moderni iniziarono a perseguire un qualche tipo d’equilibrio tra gli spazi verdi e il grigio asfalto imposto dal bisogno pressoché continuativo di movimentare grandi quantità di oggetti e persone. Soltanto non è tipico, nel mentre ci si trovi a farlo, di trovarsi nominalmente sul tragitto di un semplice “vicolo” o aleia, terminologia che fa riferimento allo spazio relativamente stretto in proporzione all’altitudine dei relativi arbusti, che raggiungono agevolmente i 38 metri. Trattandosi di magnifici esemplari di Roystonea oleracea, la palma che da queste parti fu storicamente associata al potere assoluto del re portoghese prima, e dell’imperatore successivamente salito al potere, in uno dei periodi politicamente turbolenti della travagliata storia nazionale del Brasile. La cui genesi era soltanto un potenziale, quando il principe reggente Giovanni VI di Braganza nel 1809, da un anno in queste terre per essere fuggito dalle truppe napoleoniche che minacciavano la sua capitale nel Vecchio Mondo, piantò famosamente il primo di questi semi provenienti dal giardino di Pamplemousse, situato nelle distante isole Mauritius della Guyana Francese.
Nello stesso luogo, oggi situato sotto il braccio destro dell’iconica statua del Cristo Redentore e fin quasi alle coste antistanti dell’Oceano Atlantico, dove si estendono i 140 ettari di quello che potrebbe facilmente essere definito come il giardino più biodiverso dell’intero panorama contemporaneo, avendo la fortuna di trovarsi nella tempesta perfetta di una lunga tradizione di studi accademici, con il ruolo d’importante punto di riferimento storico e situato ai margini estremi della terra selvaggia per definizione, l’ultima vera foresta ancestrale rimasta visitabile entro l’atmosfera di un mutevole e sfruttato pianeta Terra. Così come nacque non molto dopo lo sbarco regale, avendo assunto il ruolo niente meno che fondamentale di un sito di acclimatazione, requisito dai terreni del mulino chiamato Lagoa Rodrigo de Freitas, affinché la corte in esilio potesse godere delle migliori spezie provenienti dalle Indie Orientali: cannella, noce moscata e pepe nero. Nel mentre accanto gli veniva costruita un’importante fabbrica di polvere da sparo, finalizzata ad alimentare la guerra in Europa e possibilmente, un giorno, riconquistare gli ancestrali palazzi di Lisbona. Ma le cose, si sa, non vanno sempre come è stato progettato e le piante, soprattutto quando vengono dalle foreste, tendono a crescere rigogliose, in ogni circostanza o luogo in cui ne sussiste l’opportunità latente…

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Le spine uncinate dell’obelisco che fiorisce una volta ogni cento anni

Scarno, brullo e largamente disabitato, il paesaggio al di sopra di una certa quota della Ande boliviane e peruviane ha molto in comune con un pianeta decisamente meno ospitale di quello terrestre. Eppure nonostante questo, creature delicate come i colibrì lo sorvolano fino alla quota di 3.000-4.000 metri, potendo contare sul proprio metabolismo accelerato nello sfruttamento efficiente dell’ossigeno rarefatto che vi sussiste. Andando in cerca, per riuscire ad alimentarsi, delle poche piante fiorite non più alte in genere di una trentina di centimetri, piccole stazioni di sosta sull’autostrada della loro esistenza. Benché vi siano luoghi dove, una volta ogni tanto, tali abitatori degli spazi celesti si ritrovano al cospetto della vera abbondanza; in questo caso personificata da un’impressionante colonna, svettante grattacielo delle circostanze. Fino ai 15 metri di un palazzo letteralmente ricoperto da svariate migliaia di fiori, così creato dall’ingegno naturale al fine di lanciare verso l’infinito la propria prole. Non che la titanca, Puya raimondii o “regina delle Ande” come viene talvolta chiamata, rappresenti una vista particolarmente diffusa né comune. Benché la presenza e sussistenza dei cosiddetti bosques (foreste) disseminate per l’estendersi di un tale territorio ne dimostri la ragionevole efficienza nel preservare loro stesse, spesso a discapito di un’umanità largamente ostile. Il che potrebbe anche sorprendere, di fronte alla bellezza estetica di un tale arbusto, finché non si scorge qualcosa di assolutamente insolito ed alquanto impressionante: le letterali dozzine di uccelli morti per ciascuna pianta, rimasti intrappolati mentre tentavano di costruire il nido a più livelli di questo invitante condominio. Stolido ed indifferente al tipo di sofferenza che tende a causare, incidentalmente, anche a creature dalle dimensioni decisamente maggiore. Vedi il caso delle pecore ed altri animali da fattoria, che notoriamente tendono a restare intrappolati nella parte inferiore del maestoso vegetale, dalla forma di uno sferoide asteriscale non dissimile da quella di una yucca o pianta di aloe. Con la fondamentale, spietata differenza, di essere sostanzialmente ricoperta di un fitto strato di spine ricurve simili ad uncini, che invitano e permettono all’erbivoro di avvicinarsi. Per poi afferrarne il pelo impedendogli sostanzialmente di tornare indietro, il che lo porta, agitandosi, a incastrarsi sempre più all’interno ed in alto nel crudele roveto. Al che fa seguito l’idea, largamente ingiustificata, che tra tutte le appartenenti al genere Puya questa sia l’ultima a vantare le caratteristiche di una pianta proto-carnivora, con alcune limitate capacità di digerire la propria “preda”. Laddove la sua tecnica di autodifesa trae l’origine, piuttosto, di proteggere qualcosa di estremamente raro ed insostituibile: il fugace momento della propria spettacolare fioritura…

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Riconsiderando la complessa relazione tra il bradipo preistorico e il frutto dell’avocado

Non succede particolarmente spesso che un producer di video divulgativi su YouTube sollevi una questione biologica oggettivamente del tutto nuova per il pubblico, e benché ampiamente nota in determinati circoli accademici purtroppo mai discussa, di fronte all’opinione pubblica, per lo meno con l’ampia considerazione che avrebbe meritato. Per l’oggettivo spunto di riflessione che ci può fornire, in merito all’evoluzione, l’ambiente preistorico, gli alterni sentieri e metodi della natura. Così Adam Crume, ambasciatore scientifico del canale SciShow è comparso lo scorso 19 dicembre online con un titolo esplicitamente provocativo: “Tutti si sono sempre sbagliati sull’avocado. Inclusi noi.” E una breve, quanto pregna trattazione di una di quelle percezioni generalmente diffuse, in forza di una serie di circostanze pregresse, fino al punto di essere diventate delle vere e proprie roccaforti. Ovvero la seguente concatenazione di cause ed effetti: l’albero tropicale mesoamericano di Persea americana, per come lo conosciamo, è un vero e proprio anacronismo. Questo per la dimensione del suo seme, sproporzionatamente enorme ed in funzione di ciò praticamente impossibile, per qualsiasi creatura attualmente esistente, da trangugiare tutto intero. Ciò anche senza considerare il suo contenuto di tossine, sufficientemente elevato da poter venire tritato, ad esempio, per la produzione di un veleno per topi tradizionale. Quale appartenente al mondo animale, dunque, aveva la capacità e propensione di provvedere alla diffusione di tale pianta? Soltanto due famiglie, appartenenti alla categoria della megafauna di quel mondo, con origini rispettivamente nelle epoche del tardo Oligocene (25 mya) e del Pliocene (5,2-2,3 mya) avrebbero potuto vantare la capacità di farlo. Sto parlando dei gomfoteriidi, pachidermi proboscidati vagamente simili a degli elefanti con quattro zanne, e dei megateri, colossali bradipi di terra che potevano anche raggiungere i 6 metri in determinate specie. Creature primariamente erbivore (nel secondo caso, non solo) la cui dieta per quanto ci è stato possibile desumere conteneva effettivamente le foglie di piante ad alto fusto e potenzialmente, anche i loro frutti e semi dal variabile grado di tossicità, che avrebbero potuto metabolizzare possedendo stomaci di ferro analoghi a quello dell’odierno rinoceronte. Così venne teorizzato, per la prima volta nel da Wolstenholme and Wiley nel 1999, riallacciandosi a uno studio di 17 anni prima di Janzen and Martin, che l’avocado in questione potesse avere una stretta relazione simbiotica con queste creature, riuscendo nonostante questo a sopravvivere successivamente alla loro estensione. Un’ipotesi ulteriormente sostenuta nel famoso saggio del 2002 della studiosa Connie Barlow “I fantasmi dell’evoluzione” il quale avrebbe ulteriormente cementato questa percezione ritenuta effettivamente utile ad avvicinarsi all’inspiegabile realtà dei fatti. Almeno finché a qualcuno, da qualche parte, non fosse venuto in mente di porsi le domande adeguate…

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Il ramoso e velenoso groviglio della cosa vivente più vecchia d’Europa

Il glorioso assalto della cavalleria francese era, in genere, tutto ciò che serviva per porre fine ad una battaglia. E non c’era una particolare ragione per pensare che quel giorno, ad Agincourt, le cose sarebbero andate diversamente. Tanto più che l’armata di Enrico V d’Inghilterra, sviata con tattiche di guerriglia a Piccardia, si trovava ora in condizione di marcata inferiorità numerica, con circa 6.000 soldati contro 14-15.000 uomini armati di tutto punto. Ma era il 25 ottobre 1416 ed il paradigma stesso della guerra, in un singolo sanguinoso pomeriggio, stava per cambiare radicalmente. Così con la carica in un lungo corridoio tra i boschi, i fieri soldati al comando di Carlo I d’Albret dovettero rallentare aggirando la palizzata appuntita approntata dai difensori, mentre questi ultimi facevano piovere su di loro una letterale grandinata di frecce. Il che era del tutto previsto e non avrebbe dovuto costituire, nell’opinione dei comandanti francesi, alcun tipo di problema: in quell’epoca era in effetti risaputo che una freccia non poteva penetrare il tipo di armatura a piastre utilizzata dagli uomini d’arme in grado di permettersi anche un cavallo, che restando ferito ed imbizzarrendosi poteva costituire, piuttosto, il principale pericolo in questo tipo di circostanze. Tanto che, ormai da secoli, non era più comune neanche dotarsi di alcun tipo di scudo. Ma le solide piastre metalliche ribattute su testa, petto ed arti quel giorno avrebbero potuto essere fatte di carta. E gli assaltatori morivano a destra e a manca, così come sarebbe successo, qualche ora dopo, alla fanteria pesante. Questo perché gli arcieri britannici, in buona parte popolani al comando di Thomas Erpingham, si erano lungamente addestrati nell’utilizzo di un particolare tipo di arco lungo. La cui caratteristica principale era quella di essere stato realizzato con il legno del Taxus baccata o in altri termini, l’albero maledetto del Mondo.
Tranquilla era la vita rurale nella campagna inglese e scandita da abitudini ripetitive. Gli abitanti dei villaggi coltivavano i campi, trascorrevano ore di svago in famiglia ed una volta alla settimana, si recavano a messa presso la chiesa della comunità. Passando davanti al cimitero e prestando saluto, com’era l’usanza, al suo torreggiante guardiano, di cui ogni singola parte costituiva l’anticamera della fine. Non a caso questo tipo di arbusto fu sempre associato, nella cultura poetica e letteraria, al concetto implacabile della morte, fin da quando Cativolcus, il capo dei celti Eburoni, scelse di usarlo per suicidarsi prima di doversi arrendere e mettere al servizio dei Romani. Il tasso costituisce, in effetti, un veleno capace di agire sulla funzionalità cardiaca di umani ed animali in ogni sua singola parte, dalle radici alla corteccia, ai rami, alle foglie lanceolate quasi-aghiformi ed al seme particolarmente letale, pur essendo racchiuso nell’unica parte dolce e commestibile della pianta, il piccolo frutto rosso noto come l’arillo (benché gli uccelli possano comunque mangiarlo, a causa dei loro succhi gastrici troppo deboli da poter erodere l’abito esterno del suddetto seme). Inoltre il suo polline fortemente allergenico può provocare difficoltà respiratorie ed altri significativi malanni. Eppure nessun insediamento nel regno finalmente unito sotto una singola bandiera poteva, in quell’epoca, esimersi dal coltivarlo e molti altri alberi erano stati importati e trapiantati, per evidente necessità belliche, dall’Europa continentale. Questo perché il temibile e nodoso vegetale dell’altezza massima di 20 metri, ma un diametro del tronco capace di raggiungerne anche 4, poteva beneficiare di un legno dalle capacità straordinarie, flessibile ed elastico, pur risultando al tempo stesso dotato di resistenza eccellente. E continuava imperterrito a crescere, anche dopo che era stato tagliato a pezzi. La soluzione ideale, per la costruzione del temibile arco lungo inglese…

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