Ad appena 100 Km orari, chiaramente, il dispositivo per lo spostamento rapido sopra l’asfalto della pista era “stabile”. Nonostante la posizione più supina del normale, le gambe larghe per far posto all’abnorme corpo centrale del veicolo e gli arti superiori anchilosati, per mantenere fermo il manubrio sproporzionatamente piccolo rispetto al resto, la sensazione di essere al comando sembrava essere relativamente coerente all’instabilità situazionale. Intorno ai 200 Km orari, il paesaggio iniziò a farsi sfocato. La sabbia salina formava un aggressivo nugolo di particelle, inclini a circondare l’uomo al comando per nascondere l’ebbrezza latente. Le complicate sospensioni cominciavano a vibrare, come possedute dallo spirito tremebondo della proverbiale Ubriacatura da Velocità. 300 Km orari e le dita cominciavano a far male. Nel tentativo disperato di restare aggrappati al dorso del delfino (o forse si trattava, più che altro, di uno squalo?) mentre il vento crudele sferzava con enfasi il collo e le spalle, nell’apparente tentativo di portare a termine una decapitazione. 400 e la sensazione di essere umani era ormai soltanto un lontano ricordo, sotto un cielo di azoto liquido e sopra il terreno di lava fusa. E dire che in base alle specifiche del mezzo, tale cifra indicava di essere soltanto a un terzo circa della fase di accelerazione Finale. In più di un singolo, inquietante senso del termine.
Il che costituisce una visione onirica ed è in effetti meramente proporzionata per l’argomento, relativo a quello che costituisce con ogni probabilità il più assurdo, spropositato, improbabile prototipo mai prodotto da una casa automobilistica, con un’assoluta assenza d’intenzione di produrlo in serie e a dire il vero, anche mostrarlo fuori dalle mura protettive di una showroom. Vi presento dunque senza ulteriori indugi, qualora non la conoscesse, l’inimmaginabile Dodge Tomahawk. Il cui nomen omen non vuol esser tanto un riferimento all’iconica ascia da combattimento delle popolazioni di derivazione algonchina, quanto l’omonimo missile con possibile testata nucleare da 1,87 milioni di dollari, usato oggi come nel 2003 dalla Marina e l’Esercito americano. Al cui confronto, addirittura un simile congegno sarebbe apparso relativamente conveniente, con un prezzo teorico inizialmente stimato attorno ai 200.000 dollari, se pure qualcuno fosse stato mai abbastanza folle da comprarlo per farne un impiego personale. Stiamo effettivamente parlando, per attribuire cifre alla follia, di un veicolo d’impostazione motociclistica letteralmente “costruito attorno” al motore V10 da 8,3 litri di un’auto sportiva Viper, per un totale di 500 cavalli di potenza, con soltanto minime concessioni alla necessità di farlo entrare all’interno di un contesto d’utilizzo privo di abitacolo, cofano, sedili, parabrezza ed altre dotazioni relativamente superflue, come una ragionevole attenzione alla sopravvivenza del guidatore. Ma esattamente lo stesso numero di ruote, il che ne avrebbe fatto in senso stretto un quadriciclo, sebbene distribuite in una doppia coppia avanti e dietro la sella, con un complesso sistema di sospensioni capace di mantenerle entrambe a contatto col suolo durante l’inclinazione laterale in curva. Ammesso e non concesso che l’utilizzatore di turno riuscisse effettivamente a mantenere una traiettoria meno che rettilinea per più di qualche attimo, intervenendo sull’assetto di un qualcosa che, molto semplicemente, non sembrava esser stato concepito per l’utilizzo da parte di un essere umano. Se non come ausilio a un tipo estremamente elaborato e dispendioso di suicidio, per di più del tutto indifferente all’altrui sicurezza stradale per il protrarsi di pochi drammatici, frenetici minuti…
ingegneria
L’isola energetica, difficile scommessa sul futuro delle rinnovabili nel Nord Europa
Pesante può essere talvolta l’atmosfera degli ambienti di passaggio, anche detti “liminali” all’interno di determinati ambienti, presso cui la mente suole anticipare i termini dell’obiettivo, lasciando che sia il corpo a compiere il semplice gesto di mettere un piede davanti all’altro. E volendo qui considerare l’elemento storico del territorio europeo, non c’è mai stato un tratto del paesaggio maggiormente liminale che il Dogger Bank, morena di accumulo dei sedimenti situata tra l’Inghilterra e il gruppo dei paesi Scandinavi, lungo cui lo spazio che separa la superficie marittima dall’ambiente di granchi, lumache o vermi dei fondali varia tra i 15 ed i 36 metri al conteggio odierno. Occorsi dall’ancestrale ponte di terra, percorso all’epoca del grande Pleistocene dalle tribù di umani ed animali del selvaggio periodo coévo. Uno spettatore neutrale del grande scorrere del tempo potrebbe tuttavia restare affascinato, dalla maniera in cui al giorno d’oggi si sta parlando di veder riemergere un ambiente percorribile, e persino edificabile, nell’estrema parte occidentale di quella regione, come un’Atlantide rediviva situata ad “appena” 80 Km di distanza dalla costa del paese della Sirenetta e Legoland. Per l’iniziativa chiaramente antropogenica della posa in opera di un’isola artificiale, ma con finalità per questa volta solamente propedeutiche alla conservazione ambientale. Ovvero vantaggiose, per riuscire ad allontanare l’entropia incessante che conduce la moderna società all’autodistruzione. Uno stadio della nostra storia non soltanto agevolato dal mutamento climatico, ma in tempi possibilmente ancor più rapidi avvicinato per l’esaurimento delle riserve economicamente proficue dei preziosi carburanti fossili, di cui esiste in modo imprescindibile una quantità finita all’interno del sottosuolo martoriato di questo pianeta. E che presto sarà “finita” anche nel senso alternativo di tale problematico aggettivo. Da qui l’idea di accelerare, per quanto possibile, la costruzione di siti per l’accumulo e lo sfruttamento di fonti d’energia alternative, preferibilmente derivanti dai processi impliciti e le attività climatiche di tale mondo, primo tra tutti lo spostamento ed il ricircolo dell’aria causa l’accumulo di fronti di bassa ed alta pressione. Ovvero il vento, se vogliamo usare una parola semplice, che notoriamente corre via in maniera particolarmente libera e copiosa ove nessun ostacolo ne ostruisce il cammino: in mare. L’ambiente ideale per la costruzione di centrali offshore costituite da ordinate schiere delle amate-odiate pale eoliche, strumenti che producono energia previa compromissione non del tutto trascurabile dell’aspetto naturale dell’orizzonte. Il problema, a tal proposito, è la necessità di posizionare simili elementi non distanti dalla costa, per poi collegarli in modo parallelo al trasformatore o centrale di scambio, da cui verrà veicolata l’energia elettrica verso i destinatari finali. E se ci fosse, invece, un metodo migliore? Se fosse possibile disporre un qualcosa di simile lontano dagli occhi e dal cuore ma non distante, parimenti, dai nostri frigoriferi, forni a microonde e televisori? Il Ministero del Clima, l’Energia e i Servizi della Danimarca, assieme ai partiti politici in un modo o nell’altro al governo a partire dal 2016, offrono una risposta piuttosto ingegnosa in materia. Si tratta del progetto più ambizioso nella storia della loro intera nazione…
Cercando la sublime perla di saggezza che si trova nell’intercapedine tra i diamanti
Così ordinato, così perfettamente regolare ed apprezzabile nella sua semplicità multicolore: difficile non essere colpiti dall’eccezionale precisione dell’elegante modello grafico, utilizzato nella tipica rappresentazione da sussidiario della stratigrafia terrestre. In primo luogo, la crosta: due centimetri appena, simile per lo spessore ad una buccia d’arancia. Subito seguita dal mantello, corposo strato suddiviso in due parti: superiore ed inferiore. Così come ancora sussistono i due sapori del gradiente per il nucleo “esterno” liquido contrapposto a quello “interno” metallico, sebbene sia un modello giudicato ormai obsoleto in diversi ambienti. Il che è costituisce concessione d’altra parte molto meno significativa, rispetto a quella della stessa compartimentazione di ciascun segmento. Non vi è mai sembrato, d’altra parte, bizzarro? Che la natura della mineralogia, così sfumata e imprevedibile, potesse in un modello su scala maggiore rispettare le apparenti direttive di un demiurgo fondamentale dell’Esistenza… Piuttosto che lasciar fluire la materia da uno stato all’altro, in un ciclo continuo d’interscambio simile a quello delle acque o l’aria di superficie! Poiché l’albero che cade produce lo stesso un rumore. Anche se nessuno può riuscire ad osservare il flusso quantico delle sue microparticelle… Direttamente. In questo tende a palesarsi, dunque, l’intrigante utilità del metodo scientifico, che desume l’instaurarsi dei processi di causa ed effetto sulla base di elementi trasferiti nello spazio dello scibile a portata, per così dire, di mano. O come in questo caso, all’interno di uno strumento che può entrare in quello stesso palmo al centro delle cinque dita a raggera. Chiamatelo e chiamiamolo per questo, come fanno tutti gli altri fin da quando fu inventato negli anni ’50, DAC (Diamond Anvil Cell o Cella-Incudine a Diamante) per la mera ed apprezzabile composizione dei sue due elementi primari. Due gemme appartenenti, per l’appunto, al vasto catalogo delle forme allotropiche del carbonio, del tutto arbitrariamente e globalmente considerate tra le più preziose che possano far parte di un gioiello dei nostri giorni. Per un’idea di fondo largamente comprovata e funzionale allo scopo, poiché esistono due modi per riprodurre, ovvero simulare, l’incommensurabile pressione vigente nelle viscere della Terra: una grande forza, oppure una notevole concentrazione. Della spinta in un settore non più grande di 100-250 micron, situato nell’incontro tra i due culet o fondi piatti di altrettante pietre con un taglio cuneiforme. Fatte premere l’una sull’altra con una vasta varietà di modi possibili, tra leve pneumatiche, sistemi idraulici o viti girevoli all’interno di un meccanismo. Affinché una pressione di appena 5-6 Mbar possa ritrovarsi moltiplicata, nel diabolico implemento, fino a 550 gigapascal, grossomodo corrispondente al doppio di quella presente nelle profondità del nucleo terrestre. Ed una porzione alquanto significativa dell’energia idrostatica nelle profondità di Giove!
F7U Cutlass, il caccia che sembrava odiare il suo stesso pilota
Nel luglio del 1954 il pilota della marina Floyd Nugent si trovava in volo sopra l’isola del Nord di San Diego quando il suo aereo sperimentale della Vought smise, improvvisamente, di rispondere ai comandi. Sospettando un guasto al sistema idraulico, eventualità tutt’altro che improbabile, l’uomo decise di seguire alla lettera il manuale delle procedure, lanciandosi con il paracadute. Ma contrariamente a quanto sarebbe stato lecito aspettarsi, il velivolo a questo punto non precipitò affatto. Entrando in un circuito dalla forma ovale, girò piuttosto attorno all’edificio di un hotel pieno di gente per ben tre volte. Quindi con la massima leggiadria possibile, puntò dritto verso la spiaggia. Per toccare terra e fermarsi conseguentemente avendo subito danni di natura, tutto sommato, trascurabile. 16 mesi dopo, a bordo di una versione migliorata dello stesso strano apparecchio, il tenete George Milliard stava effettuando un atterraggio sulla portaerei USS Hancock, una tipica classe Essex di quei giorni priva di ponte d’atterraggio angolare. Il che comportava la necessità, per i piloti, di agganciare la più grande quantità possibile dei 12 cavi d’arresto prima di andare a sbattere contro la barriera di sicurezza finale. Qualcosa tuttavia, in quel caso, non sembrò funzionare con il sistema di arresto del carrello ed una volta raggiunta l’ultima fermata l’F7U Cutlass fece ciò che notoriamente gli riusciva meglio: cadde bruscamente in avanti, dopo che la sua altissima ruota frontale si era letteralmente staccata dal pilone di sostegno. Così che quest’ultimo, penetrando dal basso nella cabina di comando, fece scattare il meccanismo di eiezione, catapultando Milliard per 60 metri in avanti. Appena sufficienti, purtroppo, per finire contro la coda di un Douglas A-1 sul ponte della nave, morendo in seguito per via delle ferite riportate. Un epilogo terribile purtroppo non dissimile da quello vissuto dai molti piloti coinvolti in uno dei progetti maggiormente scellerati dell’intera storia ingegneristica statunitense, nonostante le ottime premesse ed il funzionamento, sulla carta, del tutto privo di difetti.
Chi avrebbe mai potuto dubitare d’altra parte, in quegli anni, della competenza della Chance Vought? Compagnia con quasi mezzo secolo d’esperienza, essendo nata circa una decade dopo l’invenzione dei fratelli Wright a cui uno dei fondatori aveva lavorato, nonché creatrice del rinomato F4U Corsair, tra gli aerei più formidabili della seconda guerra mondiale. Non sembrò esserci dunque nulla di sbagliato quando sul finire del conflitto la commissione incaricata di selezionare i primi jet a reazione al servizio delle forze armate americane, tra cui uno che potesse essere imbarcato raggiungendo i 970 Km/h e un’altitudine di 12.000 metri , optò per la proposta della compagnia texana. Che si era presentata per l’appalto con qualcosa di decisamente accattivante, per lo meno in teoria: un caccia multiruolo con enormi ali a freccia ma privo di alcun tipo coda, con due motori ed altrettanti impennaggi per il timone, condotto mediante l’utilizzo delle superfici di volo sulle ali note come elevoni, alquanto avveniristiche per la sua epoca di appartenenza. Ma l’ambizione tecnologica, secondo alcune fonti basate sui progetti dell’Arado Flugzeugwerke tedesca catturata assieme al resto del gotha ingegneristico nazista, non si fermava certamente al solo aspetto estetico. Con un sistema di pilotaggio antesignano dell’odierno fly-by-wire, in cui l’operatore immetteva i comandi attraverso il fluido idraulico mantenuto ad elevata pressione, ricevendo in cambio un feedback di ritorno totalmente simulato capace d’informarlo sul comportamento dell’aereo. Così avanzato che quando sviluppava una perdita o si guastava in altro modo, erano richiesti fino a 11 secondi perché entrasse in funzione un meccanismo di controllo manuale. E qualche volta, sfortunatamente, non succedeva affatto…