La sconfitta del trattore troppo nuovo

Steam Tractor

C’è ancora forza in queste vecchie ossa, sciocco agricoltore. Il potere dei secoli, degli anni e dell’acciaio antico, che si risveglia sotto il duro sole di un’insolita giornata. Fumando a perdifiato, da due pesanti ciminiere, verso il grigio cielo. CHOO, CHOO! Questo sorprendente video, comparso sul canale YouTube di una rivendita di pezzi di ricambio (MillarsTractor) dimostra come le cose di una volta, per quanto meno sofisticate rispetto a ciò che abbiamo adesso, possano talvolta primeggiare, persino nell’ambito imparziale della forza pura. Presentiamo, come prima cosa, i due possenti lottatori: da una parte, con la riconoscibile colorazione gialla e verdolina, il non-plus-ultra delle macchine agricole moderne. Un trattore diesel dell’iconico produttore John Deere, quattro-ruote proveniente dal fertile Illinois. 850 temibili cavalli di potenza, circa due tonnellate, o poco più, di stazza. Dall’altra, il torreggiante mostro. È molto difficile, persino per gli appassionati che ne preservano l’eterno mito, giungere a identificazione di un mezzo come questo. Ciascuno li adeguava al suo bisogno, senza criteri di rappresentanza. In Inghilterra li costruivano, a cavallo dell’anno 1900, e poco dopo pure lì, sulle frontiere d’oltreoceano, riciclando le competenze dei costruttori ferroviari, veri apripista del distante West.
La Rivoluzione Industriale non fu come un fulmine improvviso, in grado di cambiare tutto da un momento all’altro. Le sue molte implicazioni, figlie dell’ingegno, vennero esplorate gradualmente. Sulla spinta galvanizzante dell’inarrestabile vapore. Sostanza energizzante usata dapprima, timidamente, nelle fabbriche o per i telai dei tessitori, poi racchiusa dentro attrezzi ponderosi, su queste forti ruote. Motori portatili, amavano chiamarli, benché richiedessero un tiro completo di cavalli, terreno pianeggiante e un alto grado di pazienza. Li vendevano ai coltivatori, per far battere le motozappe, mettere in funzione pompe, magli spaccapietre; finché, un bel giorno, qualcuno non capì la straordinaria implicazione. Che una simile potenza, in grado di svolgere difficili mansioni, poteva pure muoversi senza l’aiuto delle bestie. Quell’uomo inquisitivo era Thomas Aveling, “L’esperto metallurgico ed ingegnere agricolo” che usava spesso dire: “Usare sei cavalli per trascinare in giro un motore è come trainare una vaporetto con sei barche a vela.” Così, sfruttando la scintilla d’utile anarchismo, andando contro tutto e tutti, lui prese una catena, la fece scorrere dall’albero di trasmissione fino ad un pignone, poi alle ruote. E andò felice, verso l’orizzonte.

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Come stampare sui cerchioni della macchina

HGArtsINC

Da questa vasca, simile ad un fonte battesimale prodigioso, rinascono le vecchie borchie, carene, cruscotti, caschi e parafanghi; immersi cautamente, l’uno dopo l’altro, ne fuoriescono cambiati nell’aspetto, in un tripudio di fibre di carbonio, camuffamenti militari o infinite copie di Hello Kitty e di Sponge Bob… L’unico limite è la voglia di sfidare il comune senso (automobilistico) del pudore. Siamo a Barcellona, presso gli stabilimenti della HGArts, compagnia tra le principali promotrici di una tecnica decorativa davvero versatile, seppur non particolarmente nota: l’hydrographic coating, o stampa cubica ad immersione. Tutto il materiale necessario è disponibile per l’acquisto presso la loro piattaforma di e-commerce. Si effettuano anche corsi su prenotazione, per chi non avesse chiara l’astrusa procedura. Parrebbe, del resto, frutto di una certa misura di magia.
Si sceglie il pezzo da ricolorare, pulendolo dalle varie impurità. Vi si passa sopra un sottile strato di vernice semi-lucida preparatoria, avendo premura di non far sparire i piccoli dettagli della superficie come, ad esempio, eventuali numeri di serie o loghi a rilievo. Quindi, si riempie d’acqua un grosso recipiente e ci si pone l’emblematica domanda: “Vorrei guidare una Citroen degna di far follie tra le conchiglie di Bikini Bottom? Oppure, piuttosto, la mia Smart, ce la vedrei bene con le ruote in pelle di leopardo?” Qui ci sono pellicole per tutti i gusti, come già poteva dirsi nel campo degli adesivi con colla vinilica per le carrozzerie. La differenza, naturalmente, la fa tutta il metodo. Piuttosto che per applicare il proprio pattern su di una superficie liscia e regolare, infatti, la stampa ad immersione trova l’impiego ideale per le forme complesse o sfaccettate. Il foglio con l’immagine, messo a galleggiare dentro l’acqua, in seguito all’aggiunta di un attivatore chimico, perde la sua tenue solidità. Diventa puro liquido, gioiosamente colorato. Tenendo la parte della propria macchina dai bordi, e non importa che questa sia di plastica o di ferro, si ottiene l’immediata imprimitura. L’alchimia si compie in un momento! Neanche il più meticoloso dei pennelli poteva fare tanto. Ogni area vuota, ciascun pertugio di griglie, prese d’aria, buco e forellino riceve la sua patina di novità. Trasmogrificato in mirabile sostanza, il cerchione della ruota diventa suggestione d’automobili da sogno, prototipi degni di un circuito d’elezione. E insieme ad esso, altre strane, guerreggianti cose;

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La foresta dei tatami volanti

Tameshigiri

Non puoi intrecciare la paglia di riso in un agglomerato a forma di parallelepipedo, poi prendere quel blocco e ripulirlo dalle impurità, riscaldarlo al calor rosso. Un tale ammasso di materia vegetale andrebbe molto presto a fuoco. Neanche puoi, del resto, forgiarlo e piegarlo 100, 1000 volte, ricercando l’ottenimento di un tutt’uno solido, flessibile allo stesso tempo, celebrato nei testi dei guerrieri per più di 900 anni. E neppure, questo ipotetico mucchio di sterpaglie, puoi raffreddarlo lentamente, tramite l’uso di argille particolari, allo scopo di favorirne la tempra più solida e tagliente. Certi materiali sono complessi, nobili, naturalmente poderosi. Altri, come il tatami, basta bagnarli e arrotolarli, perché diano… Il massimo. Cosa che, alquanto stranamente, può bastare a vincere più d’una battaglia, tra quelle all’ordine del giorno.
A guardare, in effetti, un video come questo, ritraente una moderna sessione d’allenamento nelle arti marziali, i prosaici tappetini parrebbero piuttosto fatti d’invulnerabile titanio, di metallo-boruro, di cristallo-quarzite, d’unobtanio/anti-materia, per quanto resistono al filo tagliente di un alto numero d’inefficienti staffilate, da parte di questi giovani adepti della spada giapponese. Molto bene lo sapevano, gli artigiani pavimentisti giapponesi. Che passando per le risaie, raccoglievano questi presunti scarti, la parte non commestibile delle piante semi-sommerse, li spianavano, intrecciandoli, quindi li legavano tra loro, attraverso l’uso di una corda. Suolo delle case dei potenti, sarebbero idealmente diventati, simbolo di status e di ricchezza. Oppure questo: vittime del colpo di una spada, durante la messa in pratica del tameshigiri, o il taglio della prova. Cambiano i valori, le regole del sostrato e del contesto. Però la natura umana resta una costante, al punto che ci sono, adesso come allora, persone con congrue risorse da investire nella qualità.
Il signore del feudo, governatore di un intero clan, pretendeva di possedere una spada ben diversa dalle altre; in grado di tagliare meglio, uccidere di più. Per questo, sopra l’elsa, prima di pagare il fabbro-monaco “depositario di una tradizione millenaria” (il quale, di sicuro, non lavorava a buon mercato) controllava, sopra l’elsa (nakago), che ci fosse una scritta come questa: codesta lama ha tagliato cinque, sei, sette corpi umani. Sincerandosi accuratamente, tramite l’accertamento di tale dicitura, che l’arma non fosse vergine, ma già bagnata. Del sangue dei morti, o dei viventi.

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Il vero cane nascosto dietro a Doge

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“Wow!” Disse il can-e: “Tutto scorre, che fluidità”. Le orecchie a punta, gli occhi a mandorla, il pelo vaporoso di un giallino fluorescente. Sullo schermo posto innanzi a lui,  la familiare cascata verticale di caratteri verdi, paralleli, dal significato chiaramente arcano; “Quale… (Magnifica) traslazione semantica!” Non c’era pace, sull’hovercraft volante Nabucodonosor, né distensione. Inseguiti dagli agenti tentacolari del mondo delle macchine, gli ultimi rappresentanti di questa palpitante razza umana, gli orfici protagonisti del film Matrix, oscillavano di continuo fra realtà e ingannevole simulazione, materia del sensibile o del digitale. E nonostante tutta la tecnologia fantastica fuoriuscita dalla mente degli sceneggiatori, fra cavetteria neurale o spinotti corticali, c’era sempre una costante d’interfaccia, fra loro e l’altro mondo: l’immancabile grafema, portatore di un significato semantico ulteriore. Quel Codice, che cadeva verso il basso, componente di molti cupi ambienti scenografici, tutti perennemente in viaggio, per necessità di trama. “A forza di guardarlo, non vedi più le cifre. Ma bistecche, belle donne o patatine fritte” Diceva un certo personaggio, “Wow…” Aggiungeva forse poco dopo, sotto voce.
Però a forza di studiarla, questa sequenza velatamente incomprensibile, capivi pure qualcos’altro. Che si trattava di caratteri giapponesi katakana, invertiti e ruotati di 180 gradi. Trasformati in glifi misteriosi, oltre che per il metodo di un simile artificio grafico, anche grazie al mutamento del contesto di fruizione: “Quanti fra il pubblico..” Avranno pensato, “…Riconosceranno questa scrittura, tutt’altro che internazionale?” Nel contempo, secondo certe teorie, la scelta di regia voleva essere un (comodo) omaggio ad altre creazioni cyberpunk, fatte d’anime fantasmagoriche nel guscio, diciamolo, relativamente: per i pochi eletti capaci di capire. Così, privo del suo senso nipponico di partenza, quell’alfabeto fonetico, normalmente usato per i termini stranieri, era diventato…Qualcos’altro. D’insensato, eppure così tremendamente significativo.
Passano 14 anni di monitor misteriosi, fra screen saver, video parodie ed animazioni in flash. La cascata del codice scorre tutt’ora, sebbene meno in evidenza, relegata a qualche sito di aspiranti anarchici ed hacker digitali. Ma fra le pieghe dell’approssimazione più simile a quel paventato mondo d’illusione, la variegata Grande Rete, spunta pure un cane, gigantesco, con il muso a Tokyo e la coda riccioluta, oh, addirittura! Fra i canali di Venezia. E altre Repubbliche marinare. Un logo imperscrutabile, l’icona per eccellenza, senza l’ombra di una lettera d’accompagnamento. Il supremo, l’onnipresente Doge. Che prima di essere anche lui canonizzato, trasformato in puri pixel trascendenti, era un vero cane. Di sesso femminile, pensa un po’. “Wow!”

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