Il drone rotolante si avventura fuori strada

Outrunner Offroad

Corre freneticamente a 30 Km/h, verso tutto quello che non ha. Il profilo aerodinamico delle penne di un rapace, la pinna caudale dell’agile delfino, il collo articolato di una serpe e la visione d’insieme del camaleonte. Quanto spesso, nel progettare meccanismi semoventi, l’uomo dichiara di essersi ispirato alla natura? Alcuni dei robot migliori di questi ultimi anni, sicuramente i maggiormente scenografici, provengono dalla Boston Dynamics, l’azienda statunitense acquistata in toto dal colosso multinazionale Google. Diversificare il portafoglio, questa la ragione dichiarata. Conquistare il mondo? E chi non ricorda l’incedere gracchiante del bizzarro Big Dog o il galoppo assassino del compatto, terribile Wild Cat… Creature quadrupedi, vagamente riconoscibili, tanto accattivanti proprio perché simili, almeno nelle movenze, agli animali domestici che arricchiscono le nostre vite, cani, topi, pesci e gatti. Poco importava che i loro emuli non avessero nemmeno l’ombra di un ferroso grugno, soltanto solidi rollbar e imbottiture color verde militare. Ci aiutava, certamente, l’empatia.
Visioni discordanti. Il dispositivo radiocomandato della Robotics Unlimited, l’OutRunner, è l’esempio di quanto il progresso tecnologico possa allontanarsi dalla strada più battuta. Raggiunge velocità senza precedenti, nella sua classe, che lo porteranno molto presto, assai probabilmente, tra le pagine del guinness dei primati. Proviene dalla calda Pensacola, nella piacevole penisola di Florida. Per andare a percuotere, con 4, 6, 8 oppure 12 rigidi paletti, brecciolino, erba e morbido sterrato. Dove passa questo arnese, non soltanto si fermano gli skateboard e le automobiline, ma pure i monopattini e le biciclette. Questo perché non ha ruote. Eppure si basa su un sistema semplice, privo di costosi servomeccanismi e zampe articolate: in un certo senso, si potrebbe dire che costituisca l’unica ruota di se stesso. Eppure neanche quello, a conti fatti, è del tutto vero. La seconda invenzione dei cavernicoli dopo il fuoco, per lo meno nell’iconografia umoristica dei nostri tempi, dovrebbe avere un asse rotante e una circonferenza, come la macina di un piccolo mulino. Si tratta di un sistema per spostarsi, a conti fatti, talmente semplice che viene da chiedersi perché l’evoluzione non lo abbia prodotto molto prima di noi. E nei romanzi di fantascienza non è particolarmente raro incontrare alieni dalla forma pseudo-motoristica, che percorrono le distese pianeggianti di un qualche remoto pianeta, senza mai fare sosta al benzinaio. La termodinamica, tuttavia, è una signora cruda e senza compassione. Per superare un particolare ostacolo, qualunque tipo di declivio, occorre un investimento di forza pari e superiore. Molto meglio è scavalcare, balzellare, arrampicarsi, che affrontare le salite come uno stolido mezzo di trasporto degli umani, perennemente aggrappato alle scabrosità del suolo. E infatti nessuno aveva mai presunto di affermare che tale cosa, l’automobile, fosse stata derivata dalle zampe dei predecessori. Fu cosa totalmente nuova, parte di un sistema che traeva il suo inizio dall’urbanistica e l’asfalto. Per finire… Oggi?

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L’incubo dodecaedrico del Dr. Cormier

Pentaminx

“Una palestra per le meningi” Per otto lunghe ore, intrappolato dal fascino mineralogico del plasticoso labirinto, PeteTheGeek196 ha voltato l’oggetto, girato la faccia, puntato il vertice, spinto il perno rotante. Puntato la faccia, girato il vertice rotante, ficcato la benna nel punto finale. Ed invero fu fatta fatale, la gemma tra le sue mani, quanto si è rivelata profonda, la scia fenomenica del suo gesto. Un tale lavoro ininterrotto, qui tanto accuratamente documentato in tempo reale, avrà fatto convergere su di lui l’inappagabile desiderio di molti. Un’invidia, il senso d’anelito intellettuale: tutti vorremmo saperlo… Fare. Non allo scopo di… Farlo, ovviamente. Quello no! Serve la pazienza di un santo, dote di dubbia signorilità, però chi può negarlo: quest’uomo colora la vita. Propria, degli altri e di tutti. Nei secoli degli eoni trascorsi, mai si era vista una simile cosa, il Petaminx (non Penta-mix, ahimé, avrebbe avuto più senso). Un twisty puzzle (rompicapo rotante) ben oltre i limiti della ragionevolezza. Lo stesso Ernő Rubik, architetto e scultore ungherese, sarebbe trasalito dinnanzi a una tale presenza. Spostiamoci ancora più indietro. Leonardo da Vinci l’avrebbe smontato. Aristotele, descritto e discusso. Le proto-scimmie, portato in processione sulla cima di un monte, ne avrebbero fatto l’oggetto di un culto.
Si tratterebbe, ad un’analisi approfondita, della classica partita a scacchi con la morte. La cupa mietitrice, mantello nero e lucida falce, che nell’iconografia post-moderna si manifesta sui capezzali, dei commensali uscenti, a tarda ora nella serata del mondo sensibile. Per l’amara tenzone. Con se, lei porterebbe, secondo credenze diffuse, la scacchiera e i pezzi del gioco, con l’unico scopo di complicarsi il lavoro. Che fare, dunque? Giocare con piglio sicuro, nella speranza di vincere, farla vedere a quel teschio ghignante? Oppure… Perdere tempo… Prolungare gli ultimi attimi su questa Terra… Muovendo l’indice e il pollice, come fossero placche tettoniche alla deriva. Tale dilemma è alla base della teoria di qualsiasi gioco. Perché lasciarsi coinvolgere da una sfida difficile, spostare la mente tra rigide regole, comporta una voglia di evadere dal quotidiano. Tra le valli di arcani combattimenti, gli spiriti nascono e muoiono di continuo. La prima cosa la fanno al principio dei gesti, sempre, inevitabilmente allo stesso modo. La seconda, dipende. Si può dipartire in molti modi, dal regno arbitrario: mancanza di voglia, di tempo, di capacità. Soprattutto, di ripartire da capo. Se una volta appoggiato il Pe(n)tami(n)x, quest’uomo dirà con ferocia: “È stato tremendo, non lo rifarò mai!” Allora chi può dire, chi l’abbia spuntata davvero, tra lui e l’ossuto visitatore.

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Un tempio di cubetti sulle rive del Mar Morto

Cubi di sale

Gli antichi Egizi usavano visitare queste stesse rive, in cerca di una mitica sostanza. Il nero, tiepido bitume, la colla usata per stuccare i molti buchi delle mummie. Un vero nettare dell’immortalità, questo ammasso maleodorante, che riaffiorava da profonde pozzanghere nel suolo. Oggi ci vorrei portar le capre, per analogia con i cavalli troppo golosi. Allo scopo di provare il gusto di un cubetto molto nuovo e niente affatto zuccherino.
Se la vita è il mantenersi operativo di un complesso organismo funzionale, che si nutre, defeca e risveglia ogni mattina anche a molti anni di distanza dalla nascita, allora dipartita vuole dire mutamento. Al-Baḥr al-Mayyit per gli Arabi, Thálatta asphaltĩtēs per i GreciYām ha-Mizraḥî oppure Yām ha-‘Ărāvâ negli antichi testi degli Ebrei: sono tutti nomi del più basso punto non oceanico del nostro pianeta, l’inospitale, unico Mare senza pesci. Il Morto, amava chiamarlo qualche intrepido poeta. C’era sempre un valido perché: fra tutti i laghi ipersalini, nessuno è tanto vasto, così profondo e privo di abitanti pluricellulari. Nonché misterioso nelle sue trasformazioni. Intorno agli anni ’60 dello scorso secolo, per l’effetto di un programma di irrigazioni lungo tutto il corso del fiume di Giordania, che fu fatto partire proprio in concomitanza con un calo significativo delle piogge stagionali, l’antico bacino idrico subì una significativa metamorfosi. Dove non poté arrivare l’inarrestabile geologia, fummo noi, bipedi pensanti ed operosi, a fare il danno senza precedenti. Fin dalle origini delle ancestrali civiltà, il Mar Morto era ben diviso in due strati molto differenti: quello superiore, con una salinità di 342 parti per migliaio e una temperatura che poteva raggiungere anche i 37 gradi centigradi, e la parte inferiore degli abissi semi-tenebrosi al di sotto dei 35  metri, non più caldi di 22 gradi. Qui, nel mezzo di una saturazione assoluta di molecole NaCl (cloruro di sodio) così tanto diffuso che le precipitazioni dalla superficie non potevano aggregarsi ulteriormente all’acqua, finendo sul fondale, si nascondevano alcune timide forme di vita, come l’alga dunaliella e gli halobacteria, micro-organismi che si nutrono di rara luce ultravioletta, la cui membrana cellulare, cosa fuori dal comune, resisteva alle ruvidità di un tale ambiente. Un potere straordinario dato dall’evoluzione. Ma gli ecosistemi rari sono delicati per definizione, e l’improvviso venire a mancare di un apporto tanto ingente di acqua fresca e pura cambiò i rapporti di potenza fra le parti in gioco.
La sostanza della superficie, improvvisamente raffreddata, perse il suo primato di minore densità, cadendo inarrestabile verso il profondo e mescolandosi come l’oceano latteo della mitologia indiana. Si stima che entro il 1978-79, dove prima c’erano due zuppe, ne era rimasta solamente una.

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Semi-sepolti dalla schiuma che dilaga

SEFS Foam

Pensate ad un deserto, con le sue dune dolci ed ondulate, agevole rifugio dai pensieri troppo prepotenti. Oppure al mare in tempesta, molecole spumose in una danza disinvolta, tripudio della noncuranza elementale. Ciascuno estremo dello spettro che si estende fra: umido e riarso, non presenta bordi aguzzi, né punte frastagliate, o spine penetranti. Siamo noi che amiamo vivere fra rocce, spigoli, ruvide muraglie di vegetazione. Da che Prometeo ci plasmò nel fango, siamo come dei cerini nella tasca del piromane, perennemente pronti a deflagrare. Fra tutte le sostanze della polla primordiale, lo zolfo alberga nei capelli degli umani. Soprattutto per questo ci affascina, la neve. Proprio quando il gelo dell’inverno acuisce la meteopatia, quel soffrire d’atmosferici disagi, è allora che il suo manto cala di soppiatto sulle cose, sulle case. E in un mattino di novembre, d’improvviso, ci svegliamo rinnovati assieme al nostro ambiente; non rimane proprio niente. Sparito l’asfalto delle strade. Dileguato il marciapiede, il brecciolino. Consumato dalla bianca mietitrice è il fosso sdrucciolevole, come il preminente colle, persino lo svettante altorilievo. Tutto è liscio e di un colore, solamente. Che sollievo. Non c’è verso di bruciare, anzi! Pare quasi di librarsi.
Però il giorno-tipo più difficile, probabilmente, è proprio quello: di chi gestisce il vero volo, per mestiere. Piloti che vivono nell’aria, quasi sconosciuti ai propri cari; oculati conduttori, circondati dagli schermi e le incombenze dal tremendo caos dell’apparenza, il traffico a tre dimensioni; hostess premurose, di passeggeri indelicati. L’unico rifugio è l’hangar, l’onirico covacciolo dei draghi col reattore. Qui dormono gli aerei, indisturbati, sotto l’occhio dei guardiani. Gli addetti al rifornimento, alla manutenzione, i co-protagonisti mai narrati di quel mondo poetico e (occasionalmente) un po’ pericoloso. Che ricompaiono nel presente video, registrato presso il Prince George Airport. Siamo nell’omonima città, sita nella British Columbia, vasta regione ad ovest del Canada. Qui avevano recentemente installato, e dunque destinato al primo test, un foam system per proteggersi dal fuoco. Era un CA-FS, anche detto Self Expanding-FS, ovvero il mirabile marchingegno che produce schiuma.
Quanta schiuma serve per riempire un hangar concepito per maestosi aeromobili di linea? Ecco…Fate prima a stabilirlo con i vostri occhi. Lo spettacolo è stupendo, pletorico, o in una duplice espressione: assolutamente soverchiante.

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