La soluzione accettabile di un paio d’ali montate al contrario

“Assurdo e privo di ogni logica! SAPEVO che non ci saremmo dovuti affidare a uno studio di progettazione privato. Chi siamo noi, gli Stati Uniti?” Questa è la frase che possiamo immaginare pronunciata, con tono petulante, dall’eventuale anziano e decorato generale d’aeronautica, all’uscita dalla sede di Mosca in via Kolokolnikov della KB SAT, acronimo che costituisce l’abbreviazione aziendale di Современные Авиационные Технологии (Tecnologie Aeronautiche Moderne). Ma che potrebbe anche corrispondere, nella Russia contemporanea, al coraggio di un’istituzione relativamente giovane eppur capace di sfidare giganti come la Sukhoi, la Yakovlev e gli altri bureau membri del gruppo OAK, istituito nel 2006 per riunire sotto l’egida governativa tutti i maggiori fornitori dello stato in campo aeronautico, per lo più risalenti all’epoca sovietica e largamente amministrati con partecipazione e indicazioni provenienti direttamente dall’elite di governo. Mostrandosi capace di combattere ad armi pari, si, ma riuscendo effettivamente a trionfare? Visto lo stato attuale dell’approvazione del progetto SR-10 (“Aereo con ali a freccia dall’inclinazione di -10 gradi”) correntemente rimandato a data da destinarsi per mancanza dello stanziamento di fondi previsto entro la fine del 2018, non possiamo che sospendere il giudizio. Eppure, dal punto di vista del valore di quanto proposto in questa sede, non possiamo che ammirarne, quanto meno, l’evidente valore d’innovazione anche di fronte all’intera industria aeronautica mondiale.
Poiché il nuovo velivolo per addestramento militare subsonico SR-10 (o per usare la grafia russa, СР-10) quando riuscì effettivamente a decollare in forma di prototipo presso la base aerea di Oreshkovo in Kaluga nel 2015, avrebbe smentito più di un detrattore nei confronti del suo aspetto a dir poco inusuale. Disegnando figure acrobatiche in cielo grazie a un abile pilota sperimentale, con la sua livrea dipinta di rosso usata per creare un risalto ancor maggiore tra il cielo e una forma decisamente fuori dal comune. Già, perché qui ci troviamo di fronte al più recente esempio, particolarmente raro in ambito militare e senz’altro la più recente dopo un lungo empasse, di un aereo con ali a freccia inversa. Stile capace di sovvertire con estrema agilità, fin dai tempi dei soliti progettisti tedeschi della Luftwaffe bellica, quelle che sono le aspettative lecite ad opera l’intuito dei non iniziati, nei confronti di cosa dovrebbe effettivamente governare la progettazione di un dispositivo adibito al volo. Armonia, dinamismo delle forme, logica fornita dalle leggi di natura? Ma le ali di un falco o di un’aquila partono forse dal loro corpo in una qualsivoglia altra direzione, che quella meramente perpendicolare? La verità è che, una volta che abbiamo deciso di ridurre il carico aerodinamico distribuendo la superficie d’ala in maniera aderente alla fusoliera, ben poco importa ai fini del decollo se ciò avvenga nell’una, oppur l’altra direzione. E con ciò intendo “molto meno di quanto ci saremmo aspettati” perché è d’altra parte facilmente immaginabile una lunga serie d’effetti, tra l’altro inerentemente utili per un aereo da addestramento come questo, entrino a questo punto nell’equazione dell’assetto aerospaziale del caso.
Ciò che l’ignoto addetto al test seduto sul sedile frontale di questo aeromobile a due posti stava sperimentando in quel preciso ed esilarante momento era, se vogliamo, l’apice della manovrabilità più selvaggia, in un apparecchio capace di emulare, sotto più di un punto di vista, l’esatto comportamento di un jet da svariati miliardi di rubli. Vediamo come…

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Drone sorvola il più potente convoglio ferroviario della California

Sappiate, tanto per mettere le cose in chiaro, che in prossimità della piccola città di San Luis Obispo (CA) i treni vengono considerati una faccenda seria. Come esemplificato dalla stazione storica in stile rivoluzionario spagnolo del 1942, miracolosamente protetta dalla demolizione per la costruzione di un parcheggio. E il locale Museo Ferroviario, custode di numerose insolite vetture risalenti ai primi anni del secolo scorso, veicoli bizzarri ed altre amenità riemerse dalle nebbie della storia. Per non parlare della strada ferrata stessa, che in prossimità di questo territorio ricco di dislivelli, disegna anse spettacolari simili a quelle di un torrente di montagna, fondamentali luoghi di passaggio per carichi dal peso spesso assai significativo. Convogli come quello ripreso, lo scorso marzo, dal pilota di droni StevenMConroy con il suo fido DJI Phantom 4, velivolo abbastanza veloce e dalla portata sufficientemente ampia da poterlo inseguire per un tratto significativo del suo viaggio. Che l’avrebbe riportato a casa dopo un’esercitazione militare a Camp Roberts, con il suo carico di fuoristrada, camion e blindati IAV Stryker per il trasporto truppe, dalla riconoscibile forma a cuneo e gli armamenti puntati a lato.
Quando si tratta di spingere un carico dal peso inusitato lungo uno specifico percorso, e possibilmente in cima ad un qualsiasi dislivello, niente può competere con la potenza dei motori elettrici ferroviari. Ma quando si considera la complessità logistica e la spesa necessaria per installare e mantenere in funzione un sistema di alimentazione a corrente continua, lungo l’intero tragitto di un binario serpeggiante in aree potenzialmente remote, non c’è nulla che possa sostituire l’efficienza di un impianto in grado di alimentare se stesso. Così per lungo tempo, dopo la presunta obsolescenza delle locomotive a vapore, quest’ultime continuarono ad essere impiegate in determinate circostanze o aree del mondo, per la loro autonomia ed estrema versatilità. Finché nel 1888, all’ingegnere inglese William Dent Priestman non venne in mente di adattare all’uso ferroviario il suo cosiddetto “motore ad olio” essenzialmente nient’altro che un antenato dei moderni diesel, lasciando che il vecchio carbone scivolasse ben presto nei recessi dell’obsolescenza. E di certo nessuno avrebbe potuto negarlo: il nuovo approccio era più pulito, meno costoso in termini di carburante, richiedeva revisioni meno frequenti ed aveva un impatto minore sullo stato funzionale dei binari. Ma sarebbero passati altri 37 anni prima che la Baldwin Locomotive Works, utilizzando un motore ibrido costruito in collaborazione con la Westinghouse Electric Company, riuscisse a combinare i punti forti di entrambi i mondi, creando la prima locomotiva diesel-elettrica del mondo. Il cui successo commerciale, con tutta la calma inerziale di un ingente carico, sarebbe giunto verso la metà degli anni ’30, grazie alla prima serie prodotta dalla Electro-Motive Diesel, nuova divisione della General Motors destinata esplicitamente a sviluppare un simile mercato del tutto nuovo. Un impresa attraverso cui ben presto, gli Stati Uniti avrebbero acquisito un altro primato ingegneristico nel panorama dello scorso secolo della tecnologia globale…

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Le molte missioni di un drone militare sottomarino

Su una spiaggia in prossimità del confine, quattro uomini in tenuta da infiltrazione lasciano la presa sulle loro armi d’assalto all’unisono, lasciandole ricadere sulla cinghia che passa al di sopra della spalla destra. Con un movimento fluido, i militari si spostano attorno al contenitore anonimo consegnato tramite il paracadute, protetto da un codice di chiusura segreto. Il capo del gruppo si china sul tastierino e inserisce una serie di numeri all’esaurirsi dei quali, con un lieve sbuffo d’aria causato dall’equalizzazione atmosferica, il coperchio si solleva e scivola di lato. Per mostrare, all’interno, quella che potrebbe sembrare a pieno titolo una semplice imbarcazione giocattolo. Se non fosse del tipico color nero opaco anti-radar, nonché aerodinamica e “cattiva” in ogni aspetto tranne la bulbosa macchina da presa meccanizzata che spicca sulla parte superiore dello scafo, dotata di un doppio obiettivo per catturare un feed da inviare al pilota e illuminare con il laser, allo stesso tempo, potenziali bersagli per il satellite o l’artiglieria. Un addetto alle manovre il quale, si capisce più o meno subito, dovrà necessariamente trovarsi “altrove” o per essere maggiormente specifici, al sicuro all’interno di una base protetta in territorio amico. Perché in quale assurdo altro modo, una persona e in carne ed ossa potrebbe mai trovare posto a bordo di un natante che misura appena 1,10 metri di lunghezza, incluso lo spazio per i motori, i sistemi, l’informatica di bordo e la batteria? Veicolo che in questo preciso momento sta per essere sollevato di peso dalle quattro nerborute teste di cuoio, prima di venire accompagnato di peso oltre i quattordici passi che lo separano dal bagnasciuga e lanciato in maniera corrispondente a quella di un grosso cucciolo di tartaruga.
Questa inusuale caratteristica, della compattezza e un peso assai contenuto (appena 6 Kg) costituisce in effetti il punto cardine delle classi più piccole di Mantas, l’UUV (Unmanned Underwater Vehicle) progettato e prodotto dall’azienda MARTAC – Maritime Tactical Systems di Satellite Beach, Florida, benché la versione più grande e dotata della maggiore autonomia, denominata T-12, giunga a misurare i 3,6 metri per una massa complessiva di ben 95 Kg. Pur sempre un ingombro accettabile, quando si considera cosa possa effettivamente fare, ed a quale esigenze possa rispondere, un rappresentante a pieno titolo di questa innovativa tecnologia.
Potrebbe sembrare probabilmente assai singolare, per non dire del tutto inaspettato, che l’applicazione militare di questo concetto delle operazioni con controllo remoto, ormai largamente accettata per quanto concerne i mezzi d’aria con armamento più o meno pesante, stia trovando un applicazione all’interno dei think tanks dell’Esercito Americano soltanto nell’ultima decade, attraverso una serie di appalti e concessioni nei confronti dei fornitori storici, o piccole ed agili compagnie come la produttrice di quanto mostrato nel video di apertura. Un sommergibile controllato tramite l’impiego di onde radio, capace a seconda delle necessità di effettuare rilevamenti di natanti o strutture sommerse, sorvegliare le coste, consegnare dei materiali, condurre operazioni di sminamento o offrire supporto di vario tipo alle truppe rimaste bloccate dietro le linee nemiche. E benché ciò non abbia ancora trovato un’applicazione pratica nel mondo reale, sarebbe difficile fare a meno d’intravedere nell’immediato futuro degli UUV un qualche tipo d’armamento, potenzialmente utile a sbloccare situazioni di stallo nei conflitti di tipo acquatico tra compagini operative avverse. Il che non potrebbe far altro che avvicinare ulteriormente i dispositivi, con la loro linea idrodinamica e la forma affusolata, allo squalo famelico che li ha ispirati…

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L’ingombro di un Hummer mentre si rifornisce l’elicottero in volo

Sospese nel cielo di Yuma sopra il campo aereo degli US Marines, le tre macchine da guerra mantenevano il delicato equilibrio di un’insolita geometria celeste: al vertice più avanzato del triangolo, un C-130 Hercules, la temibile “cannoniera volante” delle forze armate più multidisciplinari al mondo, in questo caso priva dei suoi armamenti sostituiti per l’occasione da serbatoi ausiliari, nel perseguire un tipo di missione maggiormente altruistico e collaborativo. A seguire nella sua possente scia, la forma riconoscibile del CH-53E Super Stallion, l’ormai attempato erede di una delle più lunghe e rinomate dinastie di elicotteri statunitensi, il cui antenato nacque con lo specifico obiettivo di sollevare letteralmente da terra i velivoli colpiti da fuoco terra-aria in Vietnam, per riportarli al sicuro entro i confini delle più inespugnabili basi al fronte. E al di sotto di esso, nel solo ed unico cateto perpendicolare al suolo, una forma oscillante squadrata e ponderosa, con quattro ruote al momento utili quanto le pinne di una trota sulla cima del K-2. Tanto che, se non fosse stato praticamente impossibile, qualcuno avrebbe potuto giurare che si trattasse di un Humvee, la versione militare di uno dei più ingombranti veicoli fuoristrada che siano mai stati immessi nel mercato della viabilità stradale. Impossibile perché, con un buon binocolo puntato verso una tale scena quel 19 settembre del 2018, un osservatore attento avrebbe immediatamente notato il lungo tubo che si estendeva dall’aereo verso la sua controparte rotante, esattamente del tipo impiegato per il rifornimento di carburante, al fine di risparmiare il tempo e le risorse logistiche necessarie a farlo atterrare in terra, possiamo soltanto presumerlo, straniera. Il che risulterebbe già abbastanza insolito visto e considerato come si tratti di un’impresa normalmente associata a dei jet che richiedono ben altre piste di atterraggio, anche senza il carico oscillante di oltre tre tonnellate appeso svariati metri sotto la sua vasta carlinga, ad oscillare nel vento e le turbolenze generate dalla complessità evidente di una simile operazione. Ma caso vuole che questo tipo di elicottero, e le abilità che si richiedono a chi ha scelto di onorarlo col suo doveroso servizio, richiede un particolare tipo di orgoglio e di abilità strettamente connesse al suo soprannome di “Fabbrica d’Uragani”, ragionevole metafora fatta derivare dai 4.380 cavalli generati dai suoi tre motori a turbina attraverso il più impressionante sistema di 7 pale principali e ulteriori quattro all’estremità della coda, individualmente capaci, quest’ultime, di generare il tipo di spinta normalmente associato all’interezza di un comune elicottero civile.
Per parafrasare dunque un modo di dire spesso ripetuto nelle forze armate, non c’è niente di semplice, delicato, ragionevole o dimesso nel Super Stallion, uno dei principali contributi della rinomata azienda Sikorsky, assieme al celebre UH-60 Black Hawk, nei confronti della dotazione veicolare dello Zio Sam. Una questione apparente fin dai primi, cronologicamente remoti, capitoli della sua lunga e complicata storia.

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