Nuovi metodi per cuocere la carne: lavico e fluviale

Lava Barbecue

Il terrore semi-liquido che avanza, rosseggiante fuoco della distruzione fin sopra le spiagge delle Hawaii. Nessun turista assisterà ad un simile spettacolo, tranne i più convinti vulcanologi con lo stipendio assicurato; tutti gli altri, dal primo all’ultimo, fuggiranno via per tempo. Elicotteri, barche, aerei con il pieno di benzina. E automobili che corrono fino alla riva dell’Oceano, per lo meno, al fine di osservare da lontano i fumi fetidi della montagna. Lentamente, inesorabilmente si consuma la foresta. Tanti tronchi e foglie rigogliose, mentre gli uccelli gridano alla fine delle loro uova. È una totale evacuazione, senza il minimo risvolto positivo per la collettività. Ma in mezzo a questo panico, ci sarà un uomo. L’eroe degli affamati, un differente tipo di messia: colui che ricevuta l’illuminazione, piuttosto che fuggire. Ritrovandosi sul promontorio, coraggiosamente irto contro l’ansia ed il pericolo, una grande griglia stretta fra le mani. Ed una borsa sulle spalle tutta piena, piena fino all’orlo di bistecche. Vermiglie, già quasi sfrigolanti nell’aspettativa di… Ah, se soltanto la TV internazionale potesse essere lì, per assistere ad un tale gesto! Se i satelliti di Google, lasciata l’orbita geostazionaria, trovassero il modo di puntare l’obiettivo sul suo volto, per un attimo e in obliquo, al fine di conoscerne l’identità. Quel giorno, finalmente, saremmo a conoscenza del Segreto. Senza più doverci accontentare delle inefficienti imitazioni del nirvana del filetto, l’apogeo della cibaria, vedi questo strano e malriuscito esperimento della Syracuse University, proprio nel centro rumoroso di New York. Dove, nonostante le molte trovate dell’apoteosi cinematografica, mai ebbe a palesarsi questo spettro del vulcano, l’orribile bocca infuocata che rigetta verso il cielo. Fino ad ora, fino ad oggi, finché a Bob Wysocki (assistente professore d’arte) e Jeff Karson (cattedratico di scienze della terra) non è venuta l’idea di mettersi a produrre scienza tanto per gradire, e così tanto facilmente, grazie all’uso della lava “fatta in casa” ovvero roccia pura e fusa, alla bisogna, dentro un grande calderone posto (molto) in alto. Con lo scivolo di fronte e poi…Dopo dipende. Sul canale Vimeo del primo dei due, traboccante d’inesorabili devastazioni, è possibile assistere allo spettacolo non-del-tutto-naturale dell’effusione lavica che s’incontra con la sabbia, col cemento, con più vasche piene d’acqua, che non costa e questo è un bene. A tal punto era insaziabile la sete di nuove bizzarre sperimentazioni di ciascuna delle altre eminenze coinvolte in ciò che sarebbe stato definito a posteriori il Lava Project, che ciascuno gridava a gran voce la sua idea, in un caustico bailamme di presunte dilapidazioni. Un po’ come un ragazzo troppo cresciuto con un fuoco d’artificio, che non sa se metterlo dentro un mucchio di foglie, un recipiente di sabbia, un secchio della spazzatura…Oppure: “Proviamo con il ghiaccio, heh, heh, heh.” Si, dai, mettiamoci la LAVA e così… È stato. Una scena orribilmente affascinante, andata in onda nel corso di una puntata della terza stagione del programma Outrageous Acts of Science durante la quale il flusso squagliato è stato fatto scendere sopra un lastrone congelato, al motto e la domanda di “Cosa mai succederà?” Un’esplosione (probabilmente ci speravano) o magari l’immediato squagliarsi della superficie, troppo liscia e delicata per fermar l’effetto gravitazionale sulla pietra fusa (e vabbé) oppure, oppure…La realtà, come tanto spesso capita, riuscì a superare l’immaginazione: il flusso incandescente, raggiunto quello specchio d’acqua congelato, iniziò a vaporizzarlo, ebbene si. Da uno stato all’altro della materia, saltando quello che ci stava in mezzo. Letteralmente ma con un significativo corollario: le particelle umide, lanciate verso il cielo, che si ritrovano a sbarrargli la strada un generoso strato, guarda caso, di LAVA. Il risultato fu la formazione di uno straordinario susseguirsi di bolle nerastre, sovrapposte nella furia e nel bisogno di scappare via. Ma riassunte, facilmente, nella poetica espressione: “A voi non sembra un po’ una pizza?”
E così, a costoro venne fame. E quando hai a disposizione le risorse monetarie di un gruppo di ricerca universitario statunitense, poco ma sicuro, non puoi certo accontentarti di uno snack. Basaltica fu l’occasione. Piroclastica, la gioia delle gente. Insomma tanto è stato, han fatto ed è successo, che alla fine loro, gli studenti assieme a chi altro di dovere (o gusto personale) si son ritrovati con un carico di splendide bistecche, corposi doni della mucca al mondo, e poi salsicce, un trancio di salmone. Che ottimo pretesto per far festa. Ma l’impazienza è una cattiva consigliera, ed il bisogno di far conoscere al mondo il proprio lavoro, a volte, porta a strani eccessi. Così posizionato lo scivolo pietroso sotto la fornace ribaltabile, vi hanno piazzato sopra il tipico sostegno di metallo. Per fare del convivio un’altra scena offerta in sacrificio al grande nume della scienza.

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Perdersi vagando dentro al manicomio abbandonato

Project Senium

Le alte mura del possibile non hanno limiti contestuali di alcun tipo: questo cancello arrugginito fu varcato, nel giro di un secolo più dieci anni, da Napoleone, Re Artù, Giulio Cesare, il feldmaresciallo Rommel, Buddha e  Mosè. Ma sapete qual’è la cosa più incredibile? Ciascuno di loro, come del resto ciascun singolo dei loro innumerevoli coabitanti, era sinceramente convinto, nel profondo del suo animo, di essere normale. Che poi nemmeno esiste un simile aggettivo, se non all’interno di determinati campi dello scibile. Tra cui certamente quello medico! Fra tutti gli altri sovrapposti. Perché la convenzione, in quel preciso caso della scienza, indica che tutto sta volgendo per il meglio: il cuore pompa, i polmoni filtrano, lo stomaco riesce a digerire. Come una macchina, questo complesso e strano corpo che in sostanza serve unicamente a sostenere…Il flusso e il corso del pensiero. Tu, sei perfetto. Sempre. Il tuo ego immisurabile, persino quando sottoposto a sollecitazioni inaspettate, altro non produce che espressioni di per se coerenti della tua individualità. Eppure? Da che la psicoanalisi ebbe a gettare luce su cosa fosse la personalità degli umani, aiutarci a comprendere in che modo separiamo l’Io dal resto della civilizzazione, si è entrati in un meccanismo intellettuale per cui la deviazione dal consueto non è necessariamente problematica, in se e per se. Ciò che viene criticato, semmai, sono i colpi dati con la testa contro il portone di casa verso le 2:30 di notte, mentre con un coltello si minacciano le prostitute di passaggio. La tolleranza è un velo, dietro il quale alberga l’intervento con finalità bonarie, eppure tanto spesso mal gestito.
Ne parlano brevemente gli esploratori, registi e fotografi del Project Senium, attraverso la voce narrante di questa sequenza registrata all’interno dei misteriosi edifici di un luogo che loro definiscono, semplicemente, l’ospedale. E non poteva essere diversamente, a ben pensarci, visto il modo in cui l’intenzione di realizzare quest’opera pseudo-documentaristica fosse già stata annunciata da parecchi mesi, attraverso un blog e classici canali di raccolta fondi digitali. Come, altrettanto naturalmente, non potevano passare più di quindici minuti, prima che qualcuno contribuisse dando un nome a tali e tanti poligoni da sempre sulle mappe di New York: si tratta del Kings Park Psychiatric Center di Long Island, un esteso gruppo d’edifici iniziato a costuire 1885 che ebbe a diventare molto dopo, verso gli anni successivi alla seconda guerra mondiale, uno dei manicomi più grandi del mondo. Si parla di oltre 9.300 persone condannate a faticosa guarigione, o eterna prigionia, senza contare i numerosi medici, infermieri e lavoranti a margine di un simile complesso sterminato. Ai vecchi tempi, quando l’agglomerato grigio-cemento della metropoli ancora non raggiungeva i margini di questi 523 acri, prima di proprietà dell’ecclesiastico William Augustus Muhlenberg (1795-1877) e poi venduti allo stato, il manicomio poteva giovarsi di un intero braccio periferico della ferrovie locali, costruito appositamente per muovere l’enorme massa vivente dei suoi abitanti occasionali. Sarebbe a dire, tutti coloro che erano liberi di uscire dalla soglia, varcare il valico e tornare nella vera società civile.
E guarda adesso, cosa ne è rimasto! Non è del tutto chiara la ragione per cui nel 1996, d’un tratto, la giganteggiante istituzione venne chiusa, provvedendo al trasferimento di una parte dei suoi pazienti nel quasi confinante Pilgrim Psychiatric Center, fondato sugli stessi metodi ed approcci procedurali. Muhlenberg, che era un pastore protestante aderente al primo movimento dei Social Gospel e noto educatore, preferiva guarire con il metodo del guanto di velluto. Così, negli anni immediatamente successivi alla sua morte, il grande ospedale fu sempre mantenuto all’interno di una zona verde, affinché i suoi ospiti potessero trovare la serenità nell’isolamento dalle pressioni esterne, coltivando la terra e praticando vari tipi di mestieri. Ma è difficile, per noi europei, comprendere a fondo la reale situazione di un’agglomerato in cui già vivevano diversi milioni di persone, tra le quali, come da prassi matematica, la quantità dei folli e derelitti era in costante crescita vertiginosa. Così, verso la fine degli anni ’30, venne costruito l’edificio 93, principale soggetto delle riprese iniziali dei project Senium, 13 piani in stile neoclassico (sembra quasi la casa degli Addams) progettati dall’architetto William E. Haugaard e finanziati dall’amministrazione statale, ove ospitare i pazienti più problematici. E da un certo punto in poi, sottoporli alle spietate terapie che al secolo venivano considerate maggiormente, orribilmente efficaci.

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Anni ‘30: l’italiano che precorse il parkour

John Ciampa

Prima che inventassero le vertigini, quando i palazzi ancora non avevano antenne paraboliche, inferriate automatiche, videocamere di sorveglianza. Ma guarda: gli stessi muri che campeggiano ancor oggi, immobili e immutati, tranquillamente in attesa di colui che fosse tanto folle, o coraggioso, da scalarli fin sopra le nubi con l’unico scopo di poter gridare: “Sono io, sono il re.” Si, però di cosa? Della giungla? Di un mondo in bilico tra le due guerre, da princìpio e ancora prima di poter dirsi famoso, guadagnandosi nomignoli come “Il Tarzan di Brooklyn”, “La mosca umana” o “Il fantasma volante”. E ci sarebbero voluti ancora molti anni, occupati da una scintillante carriera tra i tendoni viaggianti e un carico di tigri ed elefanti, perché il circo di Larry Sunbrock potesse vantare sui suoi manifesti la presenza di un pezzo davvero da 90: “Ciampa, la scimmia che oscilla [a parecchi metri da terra]”. E non fu certo un caso, se fu proprio quello il nome scelto all’apice del suo successo. Per tutte le macchine che abbiamo costruito, sotto i tetti e sopra i ponti dei propositi e dei corsi delle circostanze, ciò che ci caratterizza resta soprattutto quello: due mani, due gambe e quattro estremità, variabilmente prensili, di cui almeno un paio funzionali all’apertura di una splendida banana. E quelle assieme alle altre, assieme valide ad arrampicarsi. Come l’italo-americano nato nel ’22 facente di nome John. L’uomo, il primate. Il profeta di quella disciplina che sarebbe stata codificata, soltanto nella Francia di molti anni dopo, con il termine de L’art du déplacement (l’arte dello spostamento).
Pensa. Un creativo di fama prende un limone e lo mette sopra un piedistallo ornato, affermando: “Questa è una metafora della complessa condizione umana.” E ciò genera, tra i circoli dei critici del suo settore, fiumi di parole ed ambiziose discussioni, corroborate da un supporto filosofico di alta accademia. La società degli individui di cultura, o almeno chi tra loro segua simili questioni, ne esce corroborata ed in un qualche modo più ricca, più consapevole del suo contesto dei momenti successivi. Di chi è davvero, il merito di un simile successo? I piedistalli esistono da secoli, così come gli agrumi. Dunque non è stato certo il primo caso di un simile incontro tra le parti gialla e verticale, tanto pregnamente giustapposte da costui. Così dovrebbe dirsi del parkour, il rutilante, sobbalzante insieme di movenze, tecniche ed approcci al pericolo, che oggi sorregge una valida serie di valori del mondo moderno, esemplificati attraverso letteratura, cinema, fumetti e videogiochi (non si può, non mi riesce d’ignorare l’ultima categoria) la cui nascita è soavemente difficile da collocare. Che fu inventato, forse, in ambito militare, dall’insegnante di educazione fisica Georges Hébert (1875-1957) che credeva nella preparazione dell’individuo ad essere utile in qualsiasi situazione d’emergenza, grazie all’impegno quotidiano lungo un susseguirsi degli ostacoli in sequenza, quelli che sarebbero poi diventati le tipiche palestre all’aria aperta dei moderni parchi cittadini. Oppure nacque, in netta contrapposizione, dalle gesta spontanee di Raymond Belle, figlio di un dottore francese ed una donna vietnamita, separato dalla sua famiglia a causa della prima guerra indocinese (1946) che per imparare a sopravvivere tra le strade di Da Lat s’introduceva abusivamente nelle basi militari, usando in gran segreto quei circuiti di pioli, pneumatici e filo spinato. Perché non c’è parkour, senza un certo grado di ribellione e spirito contrario alle comuni norme della società civile. Ma bando al romanticismo: in quel regimento dei sapeurs-pompiers dell’esercito di stanza in Vietnam, lui quindi s’arruolò, diventando celebre come campione di scalate nelle dimostrazioni pubbliche di abilità.
Il parkour come pura arte, ovvero fine a se stesso o all’elevazione filosofica dei suoi fruitori (osservatori, presunti emulatori) arrivò soltanto con il figlio di quest’ultimo, quel David Belle nato nel 1973 a Fécamp in Francia, il fondatore e mente del famoso gruppo Yamakasi (dalla dicitura congolese ya makási, la “forza dell’individuo”) Che creò la serie di regole e precetti comportamentali che oggi formano la prassi operativa della disciplina. Ma se il filo conduttore ufficiale è questo qui narrato, che dire di tutti quegli altri, coraggiosi, scriteriati, folli scalatori delle mura certamente pre-esistenti? Accidentali scopritori, semplici scavezzacollo…Beh, a giudicare delle imprese su pellicola di quel John Ciampa, direi proprio di no.

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Che fatica! Dal Messico al Canada in una sola camminata

Pacific Coast Trail

Probabilmente l’aspetto più incredibile del Pacific Crest Trail, o Sentiero delle creste del Pacifico, resta la sua semplice esistenza. Ovvero il fatto che non singoli visionari scriteriati, né pochi coraggiosi, ma un’intera sottocultura di avventurieri scelga di percorrerlo ogni anno per l’intera estensione dei suoi 4286 Km, lungo valli, deserti e ripide salite, in un susseguirsi praticamente ininterrotto di magnifici paesaggi e incalcolabile dispendio di acquisita civilizzazione. Si stima che ogni anno un numero variabile tra i 250 e i 300 individui si faccia trasportare fino al punto di partenza ufficiale, presso il confine tra la California e il Messico, per attraversare quindi in rigida sequenza le molte catene montuose di quello stato (Laguna, Santa Rosa, Tehachapi, Sierra Nevada…) E poi imboccare la più significativa parte emersa del cosiddetto Anello di Fuoco del Pacifico, lungo l’intera estensione dell’interminabile Cascade Range, le cui vette dall’origine vulcanica rientrano tra le più celebrate risorse paesaggistiche degli interi Stati Uniti. Attraversando, tra una scalata e l’altra, 25 foreste e 7 parchi nazionali, con un tempo limite perfettamente definito: guai, a percorrere meno di 20 miglia giornaliere di media! Il sopraggiungere della candida neve basterà ad apporre la parola fine sulla spedizione. Non mancano naturalmente gli anti-conformisti, che per aggirare quella problematica scelgono invece di partire in estate dal Parco Manning in Canada, presso il Boundary Monument 78, facendosi strada fino ai deserti erbosi del profondo sud. In entrambi i casi: un’esperienza comparabile, e invero addirittura superiore, a quella della Compagnia dell’Anello tolkeniana, che stando alle stime degli appassionati avrebbe camminato per “appena” 2990 Km, per di più ricorrendo occasionalmente, quando possibile, a cavalli, barche o mistiche aquile senzienti. Ma la motivazione è tutto: tutti quegli hobbit, elfi e nani erano spinti innanzi dal bisogno di fermare il ritorno di un antico male. Mentre invece, cos’è che induce tanti uomini e donne, relativamente conformi ai loro amici e parenti, a lasciare un giorno tutto indietro, per allontanarsi per un tempo approssimativo di 5-6 mesi in mezzo agli orsi e ai puma di montagna? Non è questa una domanda a cui rispondere da un mezzo Oceano di distanza.
Anzi, probabilmente gli unici a cui porla sarebbero loro, linfa vivente in scarpe da trekking del PCT, per cui l’acronimo è un passaggio necessario, come del resto per la maggior parte dei concetti americani: brevità=efficienza, il massimo della convenienza. Tranne che in un caso tipologico, il bisogno di una vera e propria trasformazione, che trascenda la semplice apparenza. Vedi, a supporto dell’idea, questo video-racconto di Mac il Mago, titolare del canale e blog di viaggi Halfway Anywhere, che nel 2013 decise non soltanto d’entrare nel club esclusivo di coloro che possono fregiarsi dell’ideale coccarda frutto di questa epica missione individuale, ma di farlo in modo ben documentato per la collettività, tramite la realizzazione di esattamente tre secondi di riprese per ciascuna giornata di cammino, scelti accuratamente o per il vezzo del momento ed il suo intuito cinematico. Il risultato sono questi sette minuti in cui ci è dato d’osservare il modo in cui varia, dal profondo sud al gelido e remoto settentrione, l’aspetto naturale di questo confine occidentale di uno dei paesi più grandi al mondo, in cui il peso della storia non si avverte tanto nel catalogo di luoghi e eventi appartenenti alla sfera degli umani, quanto piuttosto nel susseguirsi epocale di mutamenti geologici, crescita naturalistica e il contrappeso irrefutabile dell’erosione entropica del mondo. Un semplice click, l’attesa breve per conoscere a sommi capi l’esperienza forse più indimenticabile di un’intera vita, per di più incline a muoversi e spostarsi tra i diversi luoghi significativi della Terra. E comprendere, almeno in parte, la ragione e il nesso della camminata verso…

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