La carriera dell’uomo che usò una canna di bambù per salvare la dinastia dei Ming

Settimana dopo settimana, il guerriero completò quotidianamente gli esercizi facenti parte del programma dettato dal suo maestro. 100 colpi di taglio, vibrati dall’alto verso il basso; 100 affondi portati all’altezza della testa; 60 parate improvvise in base alla direzione del vento; 30 stuoie di bambù montate verticalmente, tagliate in tre pezzi prima ancora che il primo segmento potesse cadere a terra grazie alla formidabile efficienza della katana, trionfo della metallurgia nell’Estremo Oriente. Così che dopo un certo periodo, giunse all’assoluta certezza di una cosa, sopra ogni altra: che nessun combattente armato di spada, privo della stessa sua preparazione avrebbe potuto sconfiggerlo in un duello di spada e ciò sarebbe stato vero durante uno scontro chiaramente annunciato, così come nel mezzo della furia imprevedibile della battaglia, soprattutto se coadiuvato da un esercito dei suoi pari. Soltanto molti anni dopo, in un altro tempo e paese distante, egli avrebbe incontrato l’uomo capace di sconfiggerlo: si trattava di un contadino senza nessun tipo di addestramento, privo di altre armi che una canna di bambù prelevata direttamente dalla foresta, appena qualche ora prima. Ancora completa dei suoi rami a raggera, soltanto “lievemente” modificata con l’aggiunta di punte acuminate, possibilmente imbevute nel veleno. Ovvero quello che secondo la tradizione delle arti marziali cinesi prendeva il nome di langxian (狼筅) o pennello del lupo, sostanzialmente una barricata portatile improvvisata, capace di bloccare l’avanzata di chicchessia.
Ciò detto non fu certo il famoso generale Qi Jiguang ad inventare un simile brutale implemento, già noto ai suoi insigni predecessori. Ma fu senz’altro lui a farne l’uso migliore fino a quel momento, impiegandolo nel corso delle sue riuscite campagne contro i Mongoli ed i temibili fuorilegge militarizzati del Mar della Cina, chiamati per antonomasia wokou (倭寇) ovvero “pirati giapponesi” o “pirati nani” a seconda dell’interpretazione dei caratteri utilizzati nel nome, sebbene vantassero nelle proprie fila un generoso apporto di coreani, abitanti del Sud-Est asiatico e persino qualche portoghese. Incapaci di resistere alla sua particolare formazione di battaglia, creata a partire dall’antichissima cognizione dei gruppi di combattimento di cinque persone creati dagli eserciti fin dall’epoca della dinastia Qin, raddoppiati per l’occasione fino a 10+2 unità, con l’aggiunta di un cuoco e l’ufficiale di comando. Portando alla denominazione di tale tattica come formazione dell’anatra mandarina (yuānyāng zhèn – 鴛鴦陣) proprio per l’abitudine di questi variopinti uccelli a restare sempre uniti con la propria compagna, muovendosi a coppie per l’intero corso della propria battagliera esistenza. Un’idea inelegante, per il tipo di strumenti e l’approccio impiegato nei confronti del nemico. Ma un’idea straordinariamente efficace, successivamente descritta nel suo importante testo sull’arte bellica intitolato Jixiao Xinshu (纪效新书) o Nuovo Trattato sull’Efficienza Militare, scritto probabilmente verso il concludersi della sua carriera, attorno al 1560-1580 d.C. Scritto quindi quasi 30 anni dopo gli eventi che avrebbero portato, più di ogni altro, alla nascita di questa figura tenuta in alta considerazione prima dall’Imperatore stesso, quindi accantonata a causa di crudeli intrighi di corte. E soltanto molti anni dopo riconosciuta come un eroe incomparabile, entrando nel ricco repertorio di aneddoti facenti parte del multiforme nazionalismo cinese.
Il racconto della vicenda personale del generale Qi Jiquang, nato nel 1528 nella regione nord-orientale dello Shandong, viene fatto generalmente iniziare dalla sua infanzia, durante cui si dice amasse giocare soltanto con armi, soldatini ed inscenare battaglie con i suoi coetanei. Per l’orgoglio imprescindibile di suo padre Qi Jingtong, la cui discendenza aveva ricevuto la mansione di organizzare e gestire la comanderia di Dengzhou, a seguito dell’importante servizio reso dalla famiglia al fondatore della dinastia Ming, l’Imperatore Hongwu, oltre un secolo prima. Ereditato quindi il complesso compito all’età di soli 17 anni, per la morte prematura del genitore, il giovane dalle grandi aspirazioni si recò nel 1555 a Pechino per sostenere l’esame di stato, requisito essenziale per intraprendere una carriera militare nel complesso sistema dell’amministrazione Ming. Ed è proprio nel corso di tale circostanza che la sua vicenda inizia a farsi leggenda, con l’attacco improvviso di un’armata di predoni mongoli mentre lui e gli altri giovani aspiranti si trovavano in prossimità delle mura cittadine. Guerrieri assetati di sangue che, con una serie di atti di eroismo più volte narrati nei romanzi, al teatro e al cinema, furono respinti grazie alla prontezza dei cittadini stessi, guidati dagli stessi futuri comandanti dell’esercito imperiale…

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Il cane d’acqua creato per il salvataggio che mordeva le persone invece di riportarle a riva

Sembra strano affermarlo per una creatura chiaramente creata dall’uomo, eppure nessuno conosce esattamente l’origine del cane terranova, potenziale discendente delle razze ancestrali trasportate dagli esploratori Vichinghi nel Nuovo Mondo. Forte protettore dall’indole gentile, capace di tuffarsi tra le onde per tentare di trarre in salvo uno sconosciuto, anche senza nessun tipo d’addestramento preventivo. Tutti conoscono, d’altronde, il luogo e l’epoca di provenienza del cosiddetto sommozzatore moscovita (московский водолаз – moskovskiy vodolaz.) Ovvero la razza nata, assieme ad altre, dall’urgenza russa di disporre di una nuova generazione di cani da lavoro, dopo che la quasi interezza di tali animali erano morti a seguito della grande guerra, alias il primo conflitto mondiale. Così vennero istituiti per decreto del governo centrale, in diversi luoghi del paese, i nuovi canili Stella Rossa (Красная Звезда – Krasnaya Zvezda) tra cui il principale nel villaggio di Knyazhevo, non troppo lontano da Mosca, dove gli esemplari ancora disponibili di pastore del Caucaso e pastore dell’Europa Orientale vennero incrociati con le razze delle zone limitrofe e regioni facenti parte del nascente impero Sovietico. Creando molte varietà potenzialmente utili… Ed alcune assolutamente problematiche, per non dire addirittura impossibili da gestire.
Il cane d’acqua Moscovita nasce dunque come progetto poco dopo il 1924, anno d’istituzione del sopracitato allevamento statale e soprattutto l’occasione in cui A. Mazorev riportò dalla Germania un certo numero di terranova puri al 100%, che avrebbero finito per fornire il principale stock genetico di questa discendenza oggi estinta, esteriormente certo non dissimile dal più rappresentativo cane del settentrione canadese. E la ragione di tutto ciò è presto detta, quando si considera il resoconto dei risultati raggiunti a partire dalla presentazione ufficiale del magnifico animale (esteriormente per nulla dissimile dalle sue radici) soltanto nel 1955, durante la 19° mostra canina di Mosca, come risultato perfettamente riuscito degli obiettivi statali, in qualità di un animale forte, affidabile, fedele. Ma le prime prova pratiche nella preparazione degli esemplari inviati per l’addestramento da parte della marina, ben presto, rivelarono una storia diametralmente all’opposto: in ogni singolo caso in cui un vodolaz veniva sguinzagliato in mare all’indirizzo di una persona che fingeva di essere prossima all’annegamento, questo si lanciava coraggiosamente per raggiungerla in pochi minuti. La guardava bene fissa negli occhi e dopo solo un attimo per prendere bene le misure, l’aggrediva ferocemente, alla maniera di un lupo selvatico delle innevate steppe settentrionali. La vicenda del cane d’acqua rappresenta in effetti la perfetta parabola del concetto secondo cui talvolta, tentare di modificare un qualcosa che ha già raggiunto l’assoluta perfezione in un contesto culturale e situazionale distante, non possa far altro che generare un’ampia serie di problemi inaspettati. O uno solo, ma abbastanza significativo da inficiare il pieno raggiungimento del programma iniziale. Considerate, d’altra parte, come stiamo qui parlando di un tipo di razza creata, fin da principio, in qualità di cane militare che potesse assistere i suoi addestratori anche in battaglia, ragion per cui la mansuetudine non fu mai estensivamente ricercata nella scelta dei tratti caratteriali da trasmettere alle successive generazioni. Se non che attraverso un simile processo, fu anche trascurata quella dote assolutamente fondamentale dell’empatia o capacità di considerare il proprio padrone come un membro della famiglia, portando alla nascita di un essere che era si perfettamente capace di assolvere fisicamente alle mansioni più risolutive. Ma non aveva alcuna propensione mentale a farlo. E i risultati non avevano tardato a rivelarsi tragicamente chiari…

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Nessun soccorso: ecco un aereo gonfiabile per sfuggire alla cattura in territorio nemico

Puoi atterrare in via precauzionale in un campo; puoi planare sulla spiaggia, toccare terra senza mai tentare d’impiegare un carrello semi-distrutto; puoi tentare di abbassare i flap, calibrando il rollio di un bombardiere dalle superfici di controllo gravemente danneggiate. Puoi semplicemente paracadutarti, quando ormai non resta più alcunché da fare, sperando di passare inosservato per quanto concerne l’artiglieria anti-aerea nemica. Molte sono le maniere tramite cui transitare, pressoché istantaneamente, da uno stato di spostamento motorizzato al di sopra delle nubi, a quello di ritorno graduale alla quiete, nell’assenza sospirata di alcun tipo di pista d’atterraggio, base alleata o altri simili strumenti assistenziali di contesto. E molti di questi, ancor più che in precedenza, furono sperimentati durante il periodo della seconda guerra mondiale, quando la cessazione dello stato di grazia tendeva a palesarsi molto di frequente, causa l’effetto problematico di attacchi o intercettazione nemiche. La classica visione del “Noi o loro” che poi tendeva a diventare, tanto spesso “Noi soltanto” in tutti quei casi, meno rari di quanto si potrebbe pensare, in cui il pilota sopravviveva, dovendo preoccuparsi di tornare vivo e vegeto alla civiltà. Considerate quindi che stiamo parlando, per tutti gli anni ’40 ed almeno fino al concludersi della decade successiva, di un’epoca largamente antecedente allo sdoganamento dell’elicottero in qualità apparecchio utile a più di un volo sperimentale di pochi minuti, rendendo l’effettivo salvataggio per via aerea una strada difficile, se non del tutto impossibile da portare fino al suo felice coronamento. Il che pose in essere una situazione statistica paradossale in cui, nonostante le migliori intenzioni, i piloti abbattuti che potevano ricevere un qualche tipo di assistenza immediata da parte dei loro commilitoni (soprattutto se caduti dietro le linee nemiche) risultavano in quantità inferiore al 10% delle casistiche registrate. Il che aprì a posteriori il dibattito su cosa, esattamente, potesse farsi per permettergli di sopravvivere continuando a servire il suo paese.
Uno dei primi tentativi formalmente approcciati in tal senso giunse, dunque, a partire dal 1956 quando l’Aviazione degli Stati Uniti, disponendo finalmente di un budget spendibile in tal senso, scelse di contattare l’azienda fornitrice di pneumatici della Goodyear con sede centrale ad Akron, Ohio, per costruire la prima versione pienamente pilotabile di quella che potremmo giungere a definire come scialuppa di salvataggio volante. Ma perché scegliere, a tal fine, una compagnia specializzata nella produzione d’implementi veicolari rotanti? La ragione è presto detta e risulta facilmente individuabile nel modo, esattamente, in cui i sovrintendenti al progetto avevano pensato di poter inserire un intero aereo all’interno di un altro velivolo, aspirando al tipo di compressione durante il non utilizzo che può caratterizzare soltanto un qualcosa la cui struttura fondamentale sfrutta il principale rinforzo strutturale dell’aria stessa. In altri termini, il dispositivo in questione avrebbe dovuto costituire la realizzazione improbabile di un aereo gonfiabile, come un gommone. Qualcosa di naturalmente più problematico da gestire, sebbene alquanto incredibilmente, alcuni tentativi fossero stati effettuati in precedenza. A partire da quello ragionevolmente riuscito dell’aviatore veterano della grande guerra Taylor McDaniel, che avendo assistito in prima persona allo schianto e conseguente dipartita di un suo amico sopra le giungle inaccessibili del Brasile, aveva iniziato a chiedersi se un sistema migliore non potesse esistere a questo mondo. Portando alla costruzione sperimentale nel 1931 di un vero e proprio aliante costruito unicamente con la gomma, capace d’impattare contro il suolo piegandosi per assorbire buona parte del colpo, una capacità che ebbe l’occasione di dimostrare alla stampa quando poche settimane dopo il suo pilota sperimentale Joseph Bergling perse il controllo e si schiantò verticalmente a terra, riportando soltanto alcune lesioni non gravi contro la morte certa a cui sarebbe andato incontro all’interno di un aereo convenzionale. Questo obiettivo di rendere le cose alate “indistruttibili” tuttavia non fu mai al centro del resuscitato progetto della Goodyear, pensato per entrare in gioco più che altro DOPO che l’aereo era già precipitato a terra. Previo un breve corso per l’assemblaggio non propriamente intuitivo, sebbene potesse giungere a compimento nel giro di appena 5-10 minuti in condizioni ideali. Abbastanza per sfuggire, auspicabilmente, alla pattuglia di terra già diretta verso la posizione del pilota rimasto senza un velivolo, nella speranza di portarlo presto ed ancora una volta lassù, da dove era recentemente precipitato…

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Le ingegnose armi da fuoco subacquee delle forze speciali russe

I meriti strategici di un attacco portuale subacqueo furono ampiamente dimostrati a partire dal settembre del 1941, quando otto sommozzatori addestrati nella Decima Flottiglia MAS della Regia Marina Italiana riuscirono a infiltrarsi con successo nel porto di Gibilterra, per affondare tre navi da trasporto inglesi mediante l’impiego di cariche esplosive magnetiche fatte aderire alla parte inferiore dello scafo. Tre mesi dopo, ad Alessandria, un’applicazione ancor più riuscita dello stesso metodo porto a termine l’affondamento della corazzate HMS Queen Elizabeth ed HMS Valiant, assieme ad un cacciatorpediniere ed una nave di rifornimento del carburante. Quando infine gli autori del secondo raid furono catturati, prima che potessero fuggire grazie ai loro siluri a propulsione subacquea i soldati britannici restarono colpiti a tal punto dalla tuta Gamma (o più semplicemente “tuta di gomma”) prodotta dalla Pirelli con le grandi pinne, e l’insolito stile di nuoto che essa consentiva, da decidere di soprannominarli “frogmen” ovvero, letteralmente, gli uomini rana. Appena tattiche simili iniziavano ad essere sfruttate anche dagli altri schieramenti della seconda guerra mondiale, cercando per quanto possibile di perfezionarle, lo spropositato conflitto che aveva coinvolto il mondo terminò repentinamente, lasciando un vuoto significativo in questa nuova e insolita declinazione dell’aggressività militare umana. Mentre lo scenario di due gruppi contrapposti s’incontrassero, l’uno incaricato di assaltare e l’altro di difendere un’obiettivo costiero, appariva sempre più probabile, fu dolorosamente chiaro infatti come i loro armamenti potessero consistere al più di coltelli ed altri implementi ravvicinati, oltre alle limitate fiocine ad aria compressa impiegate durante la pesca sportiva d’immersione. Un sistema migliore doveva esistere in qualche misura ed i primi a trovarlo furono, come in tanti altri casi precedenti, quei veri maestri dei sistemi d’armamento non convenzionali: gli ingegneri al servizio della macchina militare sovietica, verso l’inizio degli anni ’60.
I russi avevano a quel punto già sperimentato ampiamente, come difesa contro i sommozzatori, lo schieramento di membri del gruppo Specnaz armati di un fucile di superficie della serie AK, che sarebbe stato protetto all’interno di una custodia a tenuta stagna fino al momento di utilizzarlo, nel momento in cui il nemico avesse messo la testa fuori dall’acqua. Ciò detto, neanche la straordinaria affidabilità e versatilità dell’Avtomat Kalašnikov poteva violare le fondamentali leggi della fisica, che decretavano come all’ingresso in acqua di un proiettile portasse all’immediata deviazione della traiettoria e di lì a poco, alla sua del tutto inoffensiva frammentazione. Un sistema migliore doveva per forza esistere ed il primo a concepirlo, per quanto ci è dato sapere, sarebbe stato proprio Vladimir Vasil’evich Simonov, ingegnere di ruolo nell’importante fabbrica di armi della città di Tula, nell’omonimo oblast. Il suo approccio si sarebbe rivelato quindi estremamente funzionale, grazie all’iniziativa di sfruttare non più munizioni di tipo convenzionale bensì quelle che venivano chiamate in gergo internazionale delle fléchette. Sostanzialmente, nient’altro che acuminate frecce metalliche scagliate verso il bersaglio dal meccanismo di fuoco, dotato per l’occasione di un otturatore scorrevole capace di espellere l’acqua in eccesso dalla camera di sparo. Un ulteriore aspetto, in tale originale visualizzazione del problema, finalizzato ad aggirare la fondamentale incomprimibilità dell’acqua, un fluido che poteva d’altra parte essere penetrato con successo da un qualcosa che mostrasse una parte frontale maggiormente stretta, ed idrodinamica, della tipica pallottola sparata dalla canna di un fucile. Effetto collaterale potenzialmente indesiderato, l’assenza di una rigatura del cilindro stesso, causando un calo sensibile di precisione quando si faceva fuoco fuori dall’acqua. Simonov, lavorando a pieno regime sulla sua idea, riuscì quindi a declinarla in due particolari sistemi d’arma, la pistola compatta SPP-1 ed il fucile d’assalto APS (Avtomat Podvodny Spetsialnyy) perfettamente in grado di sparare colpi singoli, o vere e proprie raffiche, mentre si trovava completamente immerso al di sotto di una superficie marittima, fluviale o lacustre. Tale arma innovativa, riconoscibile dal grande caricatore a sezione discoidale, si sarebbe rivelata quindi assolutamente letale nei teorici (o comunque, mai confermati per ovvie ragioni) contesti d’ingaggio tra uomini rana messi in campo tra le avverse superpotenze, con la capacità di penetrare agevolmente qualsiasi corazza personale subacquea, per non parlare dei vetri trasparenti di piccoli sommergibili o altri implementi d’infiltrazione impiegati in quell’ambiente. Ma la relativa poca maneggevolezza dovuta al peso e la forma, unita alla tendenza dell’APS a guastarsi dopo un limitato numero di spari fuori dall’acqua, portò ben presto gli utilizzatori a preferire la meno potente pistola, ed i loro ingegneri di supporto alla laboriosa ricerca di un possibile margine di miglioramento…

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