Lo gnomo Ygor si appoggiò alla radice sporgente dell’albero, mentre saliva l’irto declivio per tornare verso il villaggio segreto. “Un pericolo, un pericolo e non c’è niente da dire” Mugugnò tra se e se, pensando alla concisa profezia del suo vecchio amico, il Loris Lento dello stagno in fondo alla radura gialla: “Un giorno una creatura proveniente dalla Luna ti morderà. E volerai lontano assieme ad essa, lasciando dietro ogni persona a te cara” Ma talvolta, occorre fare il giro delle trappole in orari strani, soprattutto quando si ode rapido il frinire di una cicala. Segno imprescindibile, che un artropode perduto sta aspettando di ricevere la misericordiosa liberazione… E non si può lasciare un insetto nobile, a soffrire dentro il cappio fino alle ore tarde della sera. Calcando giù il cappello consumato, la corta spada segnata d’emolinfa rassicurante al suo fianco, Ygor tese le sue orecchie a punta per meglio capire da dove venissero i suoni poco familiari di una notte d’autunno come questa: il sommesso parlottare della civetta delle palme; il sibilo della vipera dalle labbra bianche; il richiamo insistente del barbagianni delle erbe orientale. Ma soprattutto, un sommesso rumore di passi proveniente dal suo fianco destro, dietro un gruppo di funghi abbarbicati alla corteccia ruvida di un tronco particolarmente antico. Appena il tempo di girarsi, e lei era lì: spietata e terrificante. Alta poco più di lui, 4 cm di appariscente figura coperta da uno spettacolare mantello arancione e nero, la fata lo guardava con occhi desiderosi e la bocca leggermente aperta, canini bianchissimi che s’incontravano sul fondo vermiglio. “Vieni, vieni a me” Sembrava quasi pronunciare, coi movimenti economicamente eleganti delle sue gambe affusolate, tra cui pendeva un’impossibile coda a ventaglio. Ygor, d’un tratto perfettamente immobile, pensò per qualche attimo di tentare la fuga. Ma non è possibile cambiare il tuo destino, non più di quanto si possa resistere al morso di un vampiro, primo capitolo di un cambio d’esistenza radicale. La spada cadde rumorosamente a terra. “Loris mio, ti ringrazio. Tu l’avevi sempre saputo.” Due passi avanti, il secondo un po’ titubante. Prima che fosse lei a farsi avanti, mordace.
Non c’è metamorfosi, non c’è stregoneria, non c’è mistero. Se vogliamo usare termini di paragone razionali, nel discutere la singolare faccenda del Kerivoula picta o pipistrello dipinto, o ancora traducendo in maniera letterale dalla lingua bengalese, il solo ed unico “pipistrello farfalla”. Chiamato anche il singolo mammifero volante più magnifico al mondo, grazie al possesso di una splendida livrea creata in alternanza, formata da tonalità scure contrastanti inframezzate a pelo rosso, giallo, marrone o ogni altra possibile via di mezzo visibile nell’ampio catalogo delle livree animali. Una creatura piccola e divoratrice d’insetti, come ogni altro volatore notturno del genere tassonomico Vespertilionidae, risultando capace d’apportare un contributo indubbiamente positivo per la vita umana nella parte meridionale dell’Asia, notoriamente caratterizzata da una grande quantità di vettori patogeni proveniente da quel mondo di creature che ronzano dopo l’arrivo della sera. Il che, del resto, non è stato sufficiente a preservarne l’esistenza indisturbata nel procedere dei giorni, visto l’usuale carico di problematiche superstizioni fino all’epoca moderna, e successivamente a tutto questo l’esistenza problematica di un animale tenuto in considerazione particolarmente elevata, ma soltanto dopo che è stato ucciso, preservato ed esposto all’interno di una pratica cornice da esposizione. Proprio come una farfalla, una falena, uno scarabeo dalla schiena chitinosa troppo variopinta per poter continuare a vivere indisturbato. E finisce per essere soprattutto quella, la sua condanna…
foresta
Il letale fenomeno che trasforma il tronco da tagliare nel braccio di una catapulta
Quello che si scopre immediatamente andando in cerca d’informazioni sui princìpi pratici della selvicoltura, con particolare attenzione al taglio d’ingombranti alberi per le ragioni più diverse, è un impressionante quantità d’esperti pronti a commentare l’uno o l’altro metodo d’intervento, al punto dal lasciar sorgere un serpeggiante sospetto. Che non proprio tutti, tra coloro che sembrano avere qualcosa da dire, parlino effettivamente col criterio che deriva dall’esperienza, a causa puro e semplice funzionamento della mente umana: poiché a tutti piace risparmiare sui costi non propriamente trascurabili di affidarsi a una compagnia specializzata, per non parlare di quel senso di soddisfazione, più o meno motivato, che scaturisce dal risolvere un significativo problema contando unicamente sulle proprie forze. Inoltre, grazie alla grande distribuzione e gli acquisti online, il costo di una motosega continua progressivamente ad abbassarsi… “Insomma, quanto può essere difficile, alla fine?” Ciò potrebbe anche pensato, come molti altri, l’autore di questo video Jeremy Cadotte, nell’approcciarsi ad un abete del Colorado che sembrerebbe proprio aver visto tempi migliori, tanto da giustificare la sua rimozione prima che potesse creare dei problemi seri. Un albero già morto, e derelitto, con uno spazio cavo alla base tale da costituire una silenziosa minaccia immediatamente percepibile da qualsivoglia boscaiolo esperto. Ed in effetti non sappiamo cosa può essere passato nella mente di quest’uomo, né dire di conoscere la sua esperienza pregressa in materia. Ma alcuni dei commenti alla sequenza sembrerebbero aver correttamente individuato un certo numero di scelte operative non propriamente ideali, potenzialmente dovute alla mancanza di macchinari o strumenti più sicuri. Fino al preciso momento in cui l’albero in questione, raggiunto il punto critico in cui risulterebbe opportuno gridare preventivamente “Cade!”, prende letteralmente una piega inaspettata, iniziando a spezzarsi lungo l’asse verticale. Ed in questo modo un terzo del pericoloso vegetale si solleva, dal basso verso l’alto e indirizzandosi di lato, mentre l’altra parte si spezza e cade verso in direzione diametralmente opposta. Mentre il taglialegna terrorizzato, rialzandosi frettolosamente dalla posizione seduta, lascia la sega elettrica e tenta disperatamente di mettersi in salvo correndo via a perdifiato. Esattamente come viene consigliato fare (meno l’inciampo a terra) in tutti quei casi in cui si verifica la situazione chiamata in gergo barber-chairing, ovvero della “sedia da barbiere”.
La metafora è piuttosto intuitiva, per quanto del tutto inaspettata. Costituendo un diretto riferimento al tipo d’implemento tradizionalmente utilizzato dai tagliacapelli, con schienale ribaltabile al fine di posizionare meglio il proprio cliente, con un’azione simile a quella naturalmente realizzata dal pezzo di tronco che dovesse iniziare a spezzarsi in siffatta maniera. Un’eventualità niente meno che diabolica, perché tende a svilupparsi proprio nella direzione opposta all’indentatura triangolare a forma di “V” (il cosiddetto notch) effettuata dal boscaiolo per favorire la caduta dell’albero in una particolare direzione, un po’ come il calcio di un equino recalcitrante nei confronti del suo addestratore. Immaginate dunque l’effetto di svariati quintali di legno che agiscono come una leva, indirizzando l’altra estremità dell’oggetto oblungo verso la testa di una persona che si era posizionata nel punto normalmente più sicuro da cui osservare l’esito dell’impresa.. Le opportunità d’incidenti gravi di sicuro non mancano, e non vi sorprenderà scoprire proprio questo fenomeno come uno di quelli alla base delle statistiche che ritrovano ogni anno la professione del taglio d’alberi come una delle più pericolose al mondo. Un rischio così eccezionalmente comune ed imprescindibile, da far suggerire l’impiego di grandi macchinari ogni qualvolta se ne riconoscono i segni preventivi, sebbene ciò non possa risultare sempre egualmente praticabile sulla base della situazione di contesto. Specie quando si considera come talvolta, la causa scatenante sia proprio l’apparente piegatura di un tronco nella direzione in cui si desidera farlo cadere. Una letterale trappola invitante, che può in realtà far prendere una piega nefasta allo sviluppo degli eventi futuri…
L’enorme farfalla che combatte per il territorio con gli uccelli della Nuova Guinea
Le popolazioni native della seconda isola più grande del mondo possiedono un metodo tradizionale per catturare gli imponenti e variopinti lepidotteri della loro terra, perfezionato attraverso gli ultimi due secoli al fine di preservarne l’integrità e poterle conservare con finalità turistiche e commerciali. Il ricercatore, naturalista e collezionista di uccelli Albert Stewart Meek, inviato presso tale territorio nel 1906 grazie ai finanziamenti ricevuti dal miliardario Lionel Walter Rothschild, non aveva il tempo, né la pazienza, di costruire una leggera rete fatta di rametti e fili di ragnatela, accuratamente raccolti nel sottobosco. Soprattutto dopo aver inseguito per settimane la leggenda di una farfalla “grande come un colombo della frutta”, senza scorgerne neppure l’ombra in mezzo ai rami del fitto sottobosco australe. Così quando vide qualcosa che poteva corrispondere alla descrizione, senza neppure mettersi a pensare alle conseguenze, impugnò il suo piccolo fucile da caccia a canna liscia, prese la mira e… Questa è la storia, tutt’altro che inusitata, di come mai l’olotipo di uno degli insetti più grandi e notevoli al mondo, oggi custodito presso il Museo di Storia Naturale di Londra, presenti alcuni fori da parte a parte nella vasta superficie delle sue ali. 27 cm di apertura, con una caratteristica forma angolare ed un’interessante livrea in alternanza tra marrone e giallo. Il che la identifica, senza necessità di ulteriori approfondimenti, come un’esemplare femmina della specie, vista la maniera in cui i maschi siano tendenzialmente più piccoli, e di un colore tendente al verde acqua con sfumature nere. Non ci mise perciò molto, il naturalista d’assalto, a comprendere di aver trovato quanto aveva sognato fin dall’origine della sua carriera, facendo quello che molti suoi colleghi avevano contribuito a definire come il comportamento standard in questo tipo di circostanze: usare come ispirazione il nome della regina. Che per quanto riguardava l’Inghilterra in quegli anni era niente meno che Alessandra di Danimarca, moglie di Edoardo VII e nuora della regina Vittoria. Ed è più o meno questa la storia di come la dinastia degli Schleswig-Holstein-Sonderburg-Glücksburg si sarebbe trovata a contenere, dall’inizio del XX secolo, una vera e propria creatura fantastica, degna di essere fuoriuscita direttamente dalle pagine dello scrittore speculativo H. G. Wells. Niente viaggi nel tempo o all’interno di misteriose valli perdute, tuttavia, bensì una semplice applicazione dei princìpi recentemente scoperti dell’evoluzione, ovvero nella fattispecie in quella naturale tendenza verso il gigantismo isolano, quando in assenza di pressione da parte dei predatori nativi le creature tendono a diventare sempre più grosse e longeve, fino agli estremi resi possibili dalle loro rispettive categorie d’appartenenza. E sotto questo punto di vista la Ornithoptera alexandrae, della famiglia delle papillionidi e il genus Ornithoptera (anche detto Birdwing– Ali d’uccello) rappresenta una vera e propria Matusalemme viste le tempistiche capaci di raggiungere i quattro mesi dalla fuoriuscita dell’uovo fino alla trasformazione nella forma adulta, ed ulteriori tre trascorsi a svolazzare da un lato all’altro della foresta, in cerca di una valida compagna per procreare. Un periodo durante il quale la farfalla si trasforma in una vera e propria tiranna all’interno del suo territorio elettivo, attaccando con ferocia ogni possibile rivale in amore ma anche altre creature volatili come i piccoli uccelli locali, che molto spesso non possono far altro che battere in ritirata dinnanzi alla sua massiccia imponenza. In una letterale battaglia combattuta strenuamente, fino all’esecuzione di un notevole rituale di corteggiamento in cui la femmina vola bassa mentre il suo partner compie evoluzioni a qualche metro d’altezza da terra, assumendo l’ineccepibile guisa di un vero e proprio acrobata nei cieli dell’eterna primavera papuana. Come unica via d’accesso possibile alla deposizione di una quantità variabile di circa 200 uova nel corso della vita di ciascuna lady, ovvero non pochissime ma neanche pari alle vette raggiunte da altri esponenti di questo vasto e diffuse ordine di artropodi. Ma soprattutto non abbastanza, per riuscire a sopportare la pressione ecologica di un territorio sempre più ristretto, causa eventi indotti dagli umani ma anche un notevole disastro naturale: l’emersione, all’inizio degli anni ’50 dello scorso secolo, dell’imponente monte Lamington, un vulcano la cui eruzione avrebbe causato un gran totale di 3.000 vittime umane. Nonché la distruzione di svariati ettari di foresta, nella preziosa ed irrecuperabile regione di Oro…
Capitan Uncino dei fringuelli ricomparso all’improvviso dallo stomaco del coccodrillo
“Loro non riescono a capire, davvero. L’importanza di essere, la difficoltà di resistere, l’immane responsabilità del mio lavoro” Pensò il piccolo Kiwikiu, il cui nome significava Becco Ricurvo e Vento Fresco, due elementi rispettivamente riferiti al suo aspetto esteriore, le caratteristiche ambientali della foresta mesica, unico habitat adatto alla sua sopravvivenza con metodi naturali. Ove saltellando lievemente da un ramo all’altro dell’onnipresente ʻōhiʻa lehua, l’albero simile ad un mirto ricoperta d’appariscenti fiori rossi, scrutava attentamente la superficie ruvida della corteccia, alla ricerca di un qualcosa che soltanto lui avrebbe potuto individuare. “In sette eravamo, tre anni fa, all’interno delle gabbie del Dipartimento della Terra e delle Risorse Naturali (DLNR) prima che avvenisse il grande cambiamento…” Elaborò il malinconico pennuto, mentre continuava, imperterrito, il suo giro. Ma il morbo della malaria, senza falla, aveva colpito ancora una volta al centro esatto della piccola e prosperosa comunità di pennuti. Portando alla rapida, quanto inevitabile, dipartita di almeno cinque di loro! E una precauzionale separazione della coppia restante. “Il che non mi esonera dal compiere l’impresa quotidiana.” Pronunciò sommessamente il piccolo Kiwikiu, in un tripudio di gorgheggi, immobilizzandosi improvvisamente nella densa giungla dell’isola di Maui proprio nel mezzo del suo canto. “Ci siamo, ci siamo, ecco il mio premio.” E con un colpo rapido quanto preciso, portò il proprio becco uncinato a perforare la spugnosa scorza esterna della pianta. Quindi, con un rapido movimento rotativo, fece perno, rimuovendo quella copertura non più ritenuta necessaria. Sotto di essa, freneticamente brulicante, candida ed appariscente, la sua amata ed opulenta larva di carabide, che d’altronde non avrebbe mai raggiunto l’età adulta. Dardeggiante sciabola dell’alba, lama opportuna per gentile concessione di parecchi secoli d’evoluzione, l’uccello colpì, ghermì ed infine trangugiò il suo pasto. Molti splendidi richiami, avrebbe dovuto continuare a emettere prima dell’arrivo della sera. Molti altri umani, da evitare.
Naturalmente schivi per definizione ed alti appena 14 cm, gli Pseudonestor xanthophrys anche detti “becco a pappagallo [dell’isola] di Maui”, possono beneficiare in merito alla propria fama riservata per un semplice quanto problematico aspetto: il fatto che ne siano rimasti liberi e viventi, all’interno del proprio intero areale, un numero massimo stimato di appena 200-250 esemplari stimati sulla base di un’analisi statistica degli avvistamenti. Tutti rigorosamente concentrati, allo stato dei fatti attuale, in una piccola parte dell’intero areale originariamente occupato dalle loro piume, fatta eccezione per l’occasionale iniziativa di reintroduzione conservativa messa in atto dai diversi enti ed associazioni preposte, tra cui quella condotta nell’ormai remoto ottobre 2019 all’interno di una riserva naturale non meglio definita (per ovvie ragioni) e finita per quanto fu possibile apprezzare in totale quanto irrimediabile tragedia. Visto il ritrovamento in breve tempo di ben cinque degli esemplari coinvolti ormai del tutto esanimi sul suolo del sottobosco, avendo contratto la malattia che in larga parte aveva già in precedenza decimato la loro antica popolazione. Trasmessa da zanzare non native, contro cui non avevano alcun tipo di difesa immunitaria apparente. Almeno, fino ad ora. Poiché risale giusto all’ultima settimana di questo luglio 2021, una notizia che potremmo definire al minimo eccezionalmente lieta: l’improvviso avvistamento, ad opera del ranger locale Zach Pezzillo, di uno dei due uccelli rimanenti e giudicati in precedenza “perduti”, dopo il trascorrere di un tempo complessivo di oltre 600 giorni. Che cosa aveva condotto, esattamente, a questo evidente compiersi di un vero e proprio miracolo della natura?