Nel fervor della battaglia il pilota di F-35 non consulta elenchi, preme tasti, leve o tanto meno condivide il carico umano di gestione dei sistemi a bordo con un eventuale secondo membro dell’equipaggio. Ma punta in modo semplice e istintivo nella direzione del nemico il più avanzato dei sistemi di rilevamento a bordo: la sua testa dotata di occhi, orecchie, naso, cervello… Accelerometro, GPS, giroscopio, processore d’immagini… Ecco, allora, la più infallibile e perfetta integrazione uomo-macchina. E tutto quello che è servito per implementarla: un copricapo. Poiché ognuno è un cyborg potenziale, nelle opportune circostanze ed una volta rifornito dell’attrezzatura adatta allo scopo. E non c’è niente che possa riuscire meglio, all’interno del fantastico mondo della realtà aumentata, che colpire un bersaglio. D’altra parte a ben pensarci, la più diretta forma di realtà aumentata è un mirino stabilmente posto innanzi a un bulbo oculare. Nonché allineato in modo distintivamente preciso ad un qualche tipo di arma o bocca da fuoco. Il che tende a richiedere, nella maggior parte dei casi, robotizzazione o servo-meccanismi, insomma un metodo capace di subordinare il puntamento del primo alla seconda. E non è facile ottenerlo, salvo un caso: che lo strumento di offesa o autodifesa in questione sia stato preventivamente incorporato nello stesso corpo indiviso del sopra menzionato elmetto/cappello. Ma se così fosse allora, dove sono simili strumenti prima dell’epoca dei meccanismi digitali? La risposta è che almeno uno ebbe effettivamente l’opportunità di esistere, allo stato di progetto quanto meno, ed il nome fu semplicemente “Arma Perfezionata” nei termini generici del suo creatore, l’americano Albert Bacon Pratt. Siamo, per esser più precisi, nell’anno 1916 e poco prima che gli Stati Uniti restassero coinvolti nella grande guerra, quando questo abitante alquanto eclettico dello stato del Vermont chiese ed ottenne due brevetti, numero 1.183.492 ed 1.323.609, rispettivamente per una pistola ed il cappello corazzato concepito allo scopo specifico di contenerla. E permetterla al padrone della testa, nel contempo, d’utilizzarla. Basta prendersi un momento per ponderare, o invero leggere il testo della documentazione per comprendere le implicazioni di tale approccio: per la prima volta il soldato o il cacciatore non avrebbero dovuto preoccuparsi di coordinare il pensiero con i movimenti degli arti. Ma piuttosto, voltandosi verso la fonte del pericolo grazie all’istinto di autoconservazione, immediatamente stringere tra i denti un tubicino e soffiarvi dentro (questo il primo e solo passo necessario per fare fuoco). Quale sublime semplificazione dei fattori vigenti! Con qualche minimo problema di contorno, s’intende. Che l’esperto progettista, d’altra parte, affermava di aver risolto al di là di ogni legittimo dubbio residuo…
ingegneria
L’ascensore genovese che oltrepassa il muro della traslazione binaria
La particolare conformazione fisica di Genova, costruita su una serie di colline che s’intersecano andando a scomparire verso il Mediterraneo, comporta nella maggior parte dei casi soluzioni per la viabilità dall’alto grado di adattamento specifico e perizia logistica ingegnerizzata. Anche nel significativo catalogo di strade inclinate, ponti, filobus, viadotti, tram, funicolari e altri approcci alla mobilità civile, d’altronde, vi è un caso che fuoriesce ad un tal punto dalla norma del senso comune, non soltanto italiano ma persino d’impronta globalizzata universale, da essere paradossalmente diventato più famoso (almeno su Internet) dello svettante complesso a cui dovrebbe agevolare l’ingresso. Un aspetto senza dubbio singolare, quando si considera come il sito in questione sia niente meno che il castello neogotico d’Albertis, fatto costruire nel XIX secolo dal facoltoso esploratore e capitano di marina omonimo, oggi ospitante il più notevole museo ligure dedicato alle culture di tutto il mondo. Così chiamato benché dedicato in modo specifico alle popolazioni indigene di America, Africa e Oceani. I cui appartenenti all’epoca mai, e poi mai, avrebbero potuto immaginare di salire a bordo di una tanto eclettica cabina semovente, capace di spostarsi come quella del finale cinematografico de La fabbrica di cioccolato con Gene Wilder “Sopra, sotto, avanti, dietro e di lato.”
Con finalità molto più attentamente calibrata ed offrendo soluzioni ad un problema di natura estremamente pratica, relativo a semplificare l’accesso dalla Stazione Centrale di Piazza Principe al viale 72 metri più in alto di Via Balbi, che collega piazza della Nunziata alla Basilica del Vastato. Nello stesso modo in cui avveniva già dal remoto 1929, con quello che aveva costituito all’epoca uno dei maggiori impianti costruiti dalle linee del trasporto urbano AMT: la cabina con capienza significativa in grado di elevare fino a una ventina di persone alla volta, a patto che fossero disposte a camminare per circa 300 metri all’interno di un tunnel fino al punto d’ingresso nel cuore della collina, in modo analogo a quanto avveniva per determinate stazioni della metropolitana cittadina. Ma con un significativo punto di forza: un prezzo del biglietto notevolmente minore. Tanto da rendere la tratta un caposaldo beneamato fino alla prima modernizzazione delle cabine nel 1965 e per ulteriori trent’anni destinati a concludersi nel 1995, per una temporanea chiusura ed ulteriori lavori di significativo ammodernamento. Fu a partire da quel momento dunque che, coinvolto l’ingegnere Michele Montanari e l’impresa Maspero Elevatori di Como, si elaborò il progetto di un sistema fondamentalmente migliore, pur non avendo mai trovato applicazione pratica prima di quel momento. Fu l’inizio, in un certo senso, di una leggenda…
Drone dimostra il principio del motore che esploderà quintuplicando la velocità del suono
Come nell’ipotesi sulla vita extraterrestre della foresta oscura, migliaia se non milioni di startup rimangono nell’ombra, in attesa di poter cambiare il mondo tramite realizzazione delle proprie logiche contrarie agli usi ed alle convenzioni del nostro Presente. Allorché occasionalmente, nell’allineamento fortunato di particolari condizioni o linee guida di contesto, l’una o l’altra si colora di una luce altamente visibile, avvicinandosi all’aspetto cosmico di una supernova. Metafora, quest’ultima, in un certo senso adatta a definire l’impresa della scorsa settimana della ditta di Houston Velocity Aerospace, il cui nome viene associato da anni al concetto sempre più discusso dell’aeroplano ipersonico, un tipo di velivolo idealmente in grado di raggiungere qualsiasi punto della Terra nel giro di una singola ora. Distanze in altri termini come Roma-Sydney o San Francisco-Tokyo, trasformate nel dispendio cronologico di una trasferta quotidiana verso il luogo di lavoro, sebbene con dispendi certamente superiori di carburante, manutenzione, materiali di supporto. E una visione lungamente paventata, quanto immateriale negli aspetti pratici, di come il futuro appare progressivamente migliore del modo in cui tende a materializzarsi il susseguirsi delle generazioni. Possibile, dunque, che stavolta le cose possano essere diverse? Osservate e giudicate con i vostri stessi occhi, questo breve ma importante video promozionale, in cui viene mostrato l’effettivo funzionamento di un oggetto volante a decollo assistito mediante l’impiego di un vecchio aereo da addestramento Aero Vodochody L-29C Delfin, che potremmo descrivere come un tubo lungo due metri e mezzo, dal peso di 130 Kg. Dotato in altri termini dell’aspetto di un missile, ma l’esclusivo e indiscutibile funzionamento di qualcosa di concettualmente diverso. Ovvero l’apparecchio in grado di volare senza nessun tipo di pilota e in modo almeno parzialmente indipendente, nel modo che va sempre più spesso incontro alla definizione ad ombrello di “drone”. Il che non inizia d’altra parte neanche in modo vago a caratterizzare quello che costituisce, in modo principale, il nesso maggiormente notevole dell’impresa. Che ha visto tale arnese, proiettato a poco meno del Mach 1 per non causare problemi nello spazio aereo statunitense deputato al test, raggiungere tale velocità attraverso l’utilizzo di un impianto tanto inusuale, così strettamente associato al mondo di un fantastico e infinito potenziale, da essere stato relegato per decadi al regno della pura ed intangibile teoria. Salvo rare eccezioni, s’intende. Sto parlando del motore a rotazione detonante (RDE) il cui stesso funzionamento fu scoperto in modo ragionevolmente catastrofico, proprio a causa di un significativo incidente…
Nella grande guerra del Pacifico, l’incredibile progetto di un aereo da 500 tonnellate
Ci sono innegabili vantaggi nel combattere assieme ad un gruppo che ricorda lo stesso addestramento, ha condiviso ogni esperienza fino all’attimo saliente del confronto col nemico in un contesto davvero rilevante. Fino a 900 uomini, un intero battaglione, che conoscono le rispettive debolezze e punti di forza, capaci di riconoscersi dalle specifiche caratteristiche delle proprie uniformi. Questo è il concetto, a ben pensarci, dei corpi di spedizione o d’avanguardia, come quelli utilizzati durante il drammatico 6 giugno del 1944 in Europa, per la liberazione della Normandia e tutto quello che sarebbe venuto a seguire. Eppure ripensando a quell’operazione, ed alla maniera in cui molti dei soldati finirono separati dalle proprie unità, per la complessità logistica di organizzare questo tipo di operazione, verrebbe anche da chiedersi: possibile che ci fosse un modo migliore? Chiedetelo ai giapponesi, nella travagliata progressione dei tre anni antecedenti di guerra, e potreste aver trovato una risposta inaspettata. Da parte di una macchina bellica come quella dell’Impero del Sol Levante, più volte soggetta a difficoltà significative nel trasferimento delle proprie truppe o risorse tra le isole distanti dell’Oceano, ove giacevano in paziente attesa i temuti sommergibili americani. Vi sono effettivamente varie teorie sul perché storicamente, un popolo capace di produrre tale tipo di vascelli fallì più volte nel riuscire a contrastarli adeguatamente: secondo alcuni la dottrina navale del paese, di concezione eccessivamente recente, non sapeva comprendere le regole della moderna guerra multi-livello. Altri hanno affermato che il codice stesso dei guerrieri del distante Oriente, il famoso Bushido, non concepisse il gesto di tendere agguati a navi disarmate da rifornimento o trasporto. O è ancora possibile che semplicemente l’ammiraglio Yamamoto, supremo comandante del conflitto, fosse incline a spendere le sue risorse altrove, trascurando il pericolo maggiore affrontato dai suoi uomini ancor prima di trovarsi in battaglia. Fatto sta che già nelle prime fasi della guerra la Dai-Nippon Teikoku Kaigun (Marina Imperiale del Grande Giappone) poteva contare sull’impiego di numerosi ed imponenti idrovolanti, utilizzati per spostare cargo particolarmente preziosi, evitando totalmente il rischio di finire a tiro dei siluri nemici. Aerei come il Tipo 97 e il Tipo 2, con un equipaggio rispettivo di 9 e 13 persone, pesantemente armati e capaci di decollare ed atterrare pressoché ovunque. Tanto che verso la metà del 1943, in base a informazioni raccolte successivamente, si decise di contattare la compagnia produttrice Kawanishi della prefettura di Hyogo affinché creasse un nuovo tipo di velivolo, capace di eliminare completamente la necessità di affidarsi ai convogli. In assenza di un soprannome effettivo, tuttavia, il semplice numero di serie KX-3 non permetteva in linea di principio di presumere la portata rivoluzionaria di una simile idea: un’alta coda, una monumentale carlinga. Due ali ampie 180 metri, ovvero pari alla lunghezza di un incrociatore da battaglia di quel paese e la capacità del tutto senza precedenti di portare un carico di 500 tonnellate. Abbastanza da cambiare ed invero definire, per quanto possibile, il destino di un’intera battaglia…