L’esperienza soggettiva di chi visita le vaste foreste brasiliane può rappresentare un momento piacevole, ma anche il giorno in cui ci s’inoltra nelle più oscure profondità del terrore umano. Il superamento di un confine, più ancestrale che turistico, tra la ragionevolezza di una natura per lo più indifferente alle sue espressioni più ostili e sinistre dell’esistenza su questa pianeta. “Fate attenzione ai caimani” affermano le guide turistiche. “Fate attenzione a non attirare i giaguari.” Oppure: “Fate attenzione agli artigli dell’aquila arpia” e più in generale: “Fate. Sempre. Attenzione.” E poi c’è una nota a margine del testo, inclusa quasi come un ripensamento, che recita grosso modo: “Ricordate sempre di non fare il bagno nel fiume senza indossare un costume o la biancheria intima.” Sottinteso: oppure potreste subire terribili conseguenze. Curioso. Il modo in cui, intendo, di tanti pericoli chiari sia quello meno apparente e definito a colpire maggiormente la fantasia delle persone, lasciando un senso latente di terrore che difficilmente può essere allontanato dalla memoria. Al pesce candirù, presunto invasore dei genitali a quanto pare soprattutto maschili, sono stati dedicati interi episodi di Grey’s Anatomy, River Monsters ed Horror Stories della BBC; esso viene citato, inoltre, in almeno due romanzi come una delle cose peggiori che possano capitarti: Il pasto nudo di William S. Burroughs e Fight Club di Chuck Palahniuk. In ciascuna di queste iterazioni, l’aneddoto è per lo più concorde (benché talvolta, venga dato per scontato.) Un uomo, possibilmente appartenente ai popoli nativi sudamericani, entra nel corso d’acqua per urinare, immergendosi all’incirca fino all’altezza delle sue cosce. Mentre esegue l’operazione, quindi, avverte all’improvviso un dolore lancinante localizzato nella parte frontale pene: a quel punto, è già troppo tardi. Un minuscolo pesce semi-trasparente di circa 3-5 cm ha percepito il calore emesso dal corpo umano, dirigendosi come un missile a ricerca verso l’appendice carnosa. Quindi raggiunto il getto giallo paglierino, in qualche maniera è balzato, imitando un delfino, per centrare con precisione chirurgica il foro dell’uretra, dove si è immediatamente ancorato con apposite spine retroattive. E sarà ormai per l’appunto, soltanto un chirurgo, a poterlo rimuovere in tempo utile, pena l’avanzamento della suddetta creatura nello stretto pertugio, fino ai più profondi recessi dell’apparato riproduttivo. Dove l’ospite indesiderato, continua la tenebrosa leggenda, inizierà inesorabilmente a fagocitare quanto gli capita a tiro, causando terribili emorragie interne e quindi, la morte.
Che la cultura televisiva moderna abbia ripetuto e promosso su scala internazionale questa spaventosa quanto complessa evenienza, arrivando al punto di segnalarla come “rischio noto” ai visitatori della regione, la dice molto lunga sulla maniera in cui funzioni l’appeal di determinati programmi e la radice stessa del loro successo. Il fatto che questa storia, d’altra parte, trovi il suo primo studioso occidentale già nel 1829, nella persona del botanico-esploratore tedesco C. F. P. von Martius, parla di un letterale universo d’incomprensioni linguistiche tra gli europei e gli indios, unito al possibile desiderio da parte di questi ultimi di spaventare lo straniero, onde allontanarlo dal proprio villaggio o potenzialmente, prendersi gioco di lui. Dal punto di vista scientifico, il mostruoso candirù è un membro del genus Vandellia, appartenente alla famiglia dei piccoli pesci gatto noti come Trichomycteridae. Sono state identificate negli anni tre specie che potrebbero, ipoteticamente, corrispondere al nome comune dall’origine incerta, il V. beccarii, il sanguinea e il loro simile più comune, nonché potenziale colpevole, il V. cirrhosa. Prove di seconda mano della sua pericolosa propensione tendevano a includere, nei resoconti degli ultimi due secoli, l’osservazione di vari marchingegni o corazze indossate dai nativi per proteggersi i genitali, tra cui l’impiego di un semplice filo allo scopo di chiuderne totalmente il foro d’ingresso. Nel 1891 Paul Le Cointé, naturalista francese, raccontò di aver dovuto trattare una donna che aveva subito l’assalto del pesce nel canale della vagina. Nel suo racconto, sarebbe stato proprio lui ad estrarre la malefica creatura, voltandola con le dita e facendola uscire nel senso contrario alle spine. Questo singolo caso sarebbe rimasto l’unico di un attacco nei confronti di una signora, rincarando l’associazione inscindibile tra un simile essere e una delle più profonde e radicate paure maschili. Ulteriore testimonianza dell’esistenza di un simile pericolo, quindi, sarebbe giunta negli anni ’30 del ‘900, grazie alla testimonianza del Dr. Bach di Parà, il quale raccontava di aver dovuto trattare personalmente alcuni giovani a cui era stato amputato il pene, come rimedio d’emergenza a seguito dell’invasione da parte del famelico candirù, rivelatosi in quel caso resistente alla cura tradizionale del succo dell’albero di jagua (Genipa americana). Ma oggi si ritiene che una causa più probabile della loro condizione fosse stato, semplicemente, un attacco dei ben più familiari piranhas…
fiumi
Che succede se i castori smettono di lavorare
L’esperienza impareggiabile di contemplare la natura: spontanea, intonsa, immutata. A tal punto si è rapiti dalle circostanze, che il pericolo è distante nella nostra mente. Non c’è nulla di precario, niente di potenzialmente lesivo. Tranne ciò che è stato costruito dalla mano umana. Ma qui la linea di confine, a voler essere più attenti, andrebbe attribuita non soltanto all’espressione “dalla mano” ma anche al solo participio passato di quel verbo: costruire, edificare, congegnare. Azione le cui fondamenta, sia metaforiche che materiali, vanno ricercate nella mente di chi ambisce, nel corso della sua esistenza, a possedere un luogo. Esistono creature, appartenenti all’universo animale, che assomigliano a noi altri per capacità d’analisi, pensiero, soluzione dei problemi. Mentre altre, invece, si avvicinano per la maniera in cui costruiscono interfacce. Ovvero punti di raccordo. Ovvero dighe, per fermare il corso di un solenne fiume nel Minnesota. Questo è il video caricato sul canale di Rick Smith, proprietario di un terreno nello stato nordamericano delle marmotte (e non solo!) che dimostra la più assurda conseguenza di un periodo di piogge eccessivo, sopraggiunto all’improvviso nel 2015. Quando il principale corso d’acqua del suo ranch, invece che ingrossarsi, sparì. Esatto, il mondo all’incontrario. Entriamo dentro regno delle inverse circostanze. Sperimentando quello che succede, molto spesso, per il crollo di una diga. Ma che ragione avrebbe mai avuto, il nostro cameraman con drone al seguito, per bloccare il corso naturale delle cose, esponendosi a una tale conseguenza deleteria? La questione è che… I colpevoli, in effetti, avevano operato in assoluta autonomia. “Non ho proprio nulla a che vedere con lo sfratto distruttivo dei castori.” Si preoccupa di aggiungere il diretto interessato nei commenti, prima che qualcuno possa criticarlo a buon ragione. Ben avendo chiaro, nella sua memoria, quello stato d’animo che porta agricoltori e allevatori, tanto spesso, negli Stati Uniti e in Canada, a venire con la ruspa per ripristinare uno stato antecedente e quindi percepito come “migliore”. Mentre lui era lì, incapace di far nulla, ad assistere a quel crollo senza fine. Mesi, e mesi, e mesi d’acqua accumulata, a trascinare sedimenti, piante e pietre fin giù a valle. E neanche una palla di pelo/denti-rossi che tentava febbrilmente di risolvere il problema.
Già, purtroppo viene anche il momento in cui le prospettive si restringono, e tutto quello che gli resta da fare è mettersi da parte, per attendere la risultanza della furia degli elementi. Persino il Castor canadensis, più famosa e laboriosa tra le due specie attualmente esistenti, non può contrastare la marcia inesorabile del Fato. Soltanto fare il possibile, dopo il disastro, per calcolare i danni da un luogo sicuro tra i cespugli, in attesa che ritorni il suo momento. Lui, che agisce con il solo scopo di stare sicuro, dalla ferocia del lupo, del coyote, del puma e dell’orso, costruendo la più formidabile tana dell’intero ecosistema d’appartenenza. E di certo il topo, il coniglio, la volpe, sarebbero ben pronti a criticarlo: “Davvero tu vuoi vivere in un luogo che presenta una singola via di fuga?” Al che, il castoro: “Non c’è bisogno di lasciare casa in tutta fretta, se gli unici capaci di raggiungerlo siete tu, la tua famiglia e qualche lontra fluviale non più grande, o più pericolosa di te.” Fatta eccezione, chiaramente, per noialtri Sapiens. La questione è in realtà piuttosto semplice nel suo funzionamento, trovando pieno riscontro nel metodo e lo stile di vita di quell’altro, il Castor fiber del continente eurasiatico, che si trova in Svizzera, nel Regno Unito, in Scandinavia e in Russia, benché la caccia continua che ne è stata fatta dai fabbricanti di mercanti e i cercatori di quell’olio magico impermeabilizzante, il castorum, ne abbiano ridotto sensibilmente l’areale. Disporre di un ingresso pari a quello di una fortezza, poiché si trova, a tutti gli effetti, sott’acqua. Un luogo che quasi nessun predatore naturale di questa famiglia, indipendentemente dal contesto geografica di appartenenza, si sognerebbe mai e poi ma di esplorare. E per il resto, le dighe dei castori sono… Un problema? Un fastidio? Un ostacolo alla bellezza spontanea di un luogo? Non proprio. O forse sarebbe meglio dire, che dipende dai punti di vista…
Colombia: strane apparizioni sotto la diga che sta per crollare
C’è una sottile linea tra realtà e immaginazione, che con l’aumentare delle ore di lavoro tende a diventare completamente invisibile, influenzando la capacità umana d’identificare i confini dei suoi incubi più remoti. Ed è allora, generalmente, che l’impossibile tende a realizzarsi, sotto gli occhi semichiusi di chi era lì, nonostante tutto, nella speranza di fare il suo dovere. Una situazione di crisi. L’ultimo sforzo, condotto con profonda dedizione, nella speranza di salvare le case di 9.000 persone, potenzialmente l’incolumità di molti e con assoluta certezza, l’economia già sofferente della propria nazione: sto parlando di una situazione corrente di cui, purtroppo, non ci hanno parlato i telegiornali. Certo, la crisi politica italiana è importante. I fatti di Windsor hanno stimolato la nostra fantasia. Le Hawaii bruciano per l’effetto del loro vulcano. Ma che dire del più grande fallimento a memoria d’uomo, di un progetto pubblico costato l’equivalente di 3,8 miliardi di dollari, in un paese che sta tentando di risalire la china dopo decenni di violenza, disordini civili e predominio assoluto dei trafficanti di droga? Sta succedendo… Esattamente adesso. Il 17 maggio, tra l’incredulità generale, il messaggio è comparso su Twitter, televisione, radio ed è stato fatto rimbalzare tra gli altoparlanti usati per comunicare fatti urgenti alla popolazione: “Si prega di evacuare immediatamente l’area corrispondente alle rive del fiume Cauca, al di sotto del villaggio di Ituango e la sua diga. Si verificheranno aumenti di flusso e potenziali indondazioni. Tutti gli abitanti devono recarsi ai centri di recupero e accoglienza allestiti nelle seguenti zone sicure…” Questo perché, a causa di un periodo di piogge particolarmente ingenti delle ultime settimane, due dei tre tunnel usati per deviare il corso del fiume durante la costruzione si sono intasati di detriti, causando un riempimento eccessivo del bacino idroelettrico prima che l’intera struttura potesse venire consolidata. Ma sono certo che il pensiero dei coraggiosi lavoranti, che proprio in queste ore stanno lavorando 24 su 24, giorno e notte nella speranza di completare in tempo la diga e rendere operativi i canali di scolo d’emergenza a cielo aperto prima della catastrofe, nei drammatici momenti rappresentati nel video non stavano pensando soltanto ai viventi. Bensì alle innumerevoli tombe dei desaparecidos, i cimiteri comuni allestiti lungo il corso del principale fiume colombiano, potenzialmente destinate ad essere ricoperte da un fiume di detriti, fango e zolle in viaggio con tutta la veemenza di una mandria di bufali inferociti. Del resto, non capita tanto spesso di vedere un fantasma.
La scena ripresa con il cellulare si svolge all’interno di uno dei tunnel di raccordo, costruiti al di sotto del terrapieno alto 225 metri che era stato destinato a produrre 2.456 megawatt di energia entro il novembre di quest’anno, rispondendo da solo al 17% dell’interno fabbisogno elettrico del paese. Dove gli addetti, spostandosi con senso d’urgenza per intervenire presso le zone d’intasamento, si ritrovano d’improvviso a dover frenare il proprio veicolo, mentre dinnanzi a loro si dipana l’evento più surreale immaginabile in quel contesto: una sorta di nube di vapore, che si forma velocissima a partire dalle pareti e il suolo del passaggio di transito, per poi sparire come se niente fosse. Salvo che, qualche decina di metri più avanti, il fenomeno si verifica nuovamente, come se l’entità misteriosa avesse impiegato la tecnica del teletrasporto. E lo facesse ancora e ancora a intervalli regolari, fin quasi a investire l’autoveicolo in sosta con il suo carico di passeggeri increduli e paralizzati dal terrore. Quindi, proprio mentre sembra che i testimoni stiano per essere investiti da questa manifestazione tangibile del mostro di fumo del telefilm Lost, le riprese si interrompono, lasciandoci soli con la domanda su cosa, esattamente, ci è capitato di vedere. Nella continuativa assenza di comunicazioni internazionali, o testimonianze dirette di chi questa drammatica situazione la sta vivendo sulla propria pelle, Internet come sempre si è lanciata nelle sue ipotesi contrastanti. Alcune compaiono nei commenti stessi al video, sia in lingua spagnola che inglese. Altre sui gruppi di discussione più disparati, da dove una sorta di consenso para-scientifico, un poco alla volta, sembra essere emerso dalle nebbie del complottismo generico e le battute su cinema e videogames…
La strada sospesa tra il baratro e la cascata
L’apporto tecnologico delle dashcam non può essere sottovalutato, come finestra aperta verso le molteplici esperienze del mondo stradale. Motori ruggenti, manovre improbabili, errori umani che conducono molto spesso all’incidente. E dalle carrozzerie ammaccate, il fumo che esce da sotto il cofano, il popolo di Internet viene talvolta indotto a trarre una lezione di vita, sulla falsariga di “presta maggiore attenzione quando ti metti al volante.” Non credo però che l’avviso sarebbe realmente necessario, per molti di noi, nel caso in cui ci trovassimo in un giorno improbabile a ripercorrere i passi qui documentati dallo youtuber Partha, viaggiatore in territorio Nepalese, mentre si trovava lungo il tragitto della recente quanto fondamentale via di collegamento carrabile tra la cittadina di Bersahar e Chame, sola ed unica capitale del distretto di Manang. Uno di quei luoghi, strettamente e ragionevolmente associati al cosiddetto “tetto del mondo”, in cui lo spazio tra le ruote è assolutamente fondamentale, per il semplice fatto che potrebbe eventualmente superare quello a disposizione tra il fianco della montagna ed il grande vuoto, rapidissima via d’accesso verso la valle sottostante. Il quale presenta, tuttavia, un ulteriore ed ancor più significativo grado di terrore. All’inizio dei circa due minuti di video, che stanno in questi giorni comparendo su un ampio ventaglio di quotidiani e siti di notizie online, si vede quello che sembrerebbe essere a tutti gli effetti un comune piccolo fiume o torrente montano, che si getta a strapiombo tra le rocce, non fosse per la presenza di un’inspiegabile recinzione, del tutto simile a un rudimentale guard rail. Ed è proprio mentre siamo qui ad interrogarci sull’origine e la funzione di quest’ultimo, che la verità viene, d’un tratto, rivelata: con il cofano della macchina a fare da cornice, l’azione si sposta a bordo dell’auto occupata dall’autore; sopra c’è l’acqua che cade, sotto c’è il fiume che scorre. A lato quella che possiamo immediatamente riconoscere, grazie alla falce ricurva, come nostra oscura signora, la Morte.
Che cosa porta delle persone del tutto sane di mente, almeno all’apparenza, a mettere a rischio la propria esistenza in un siffatto modo? Per quale ragione, qualche ora in più per girare attorno alla montagna non è migliore, dal punto di vista e le preferenze di alcuni degli autisti più spericolati del mondo? La ragione da ricercare principalmente, ritengo, va estratta dalle caratteristiche topografiche di una tale regione. Non credo che noi italiani, pur con le irte Alpi e i passi che percorrono gli Appennini, possiamo istintivamente comprendere che cosa significhi spostarsi attraverso un paese in cui l’elevazione media supera i tre chilometri sul livello del mare, e persino una trasferta di 60 chilometri può trasformarsi in una giornata o due di viaggio. Fonti locali narrano anzi come fino a poco tempo fa ce ne volessero ben tre (o quattro, a seconda della stagione) per raggiungere da Bersahar il resto della civiltà, con conseguente abbattimento del potenziale turismo e drastico aumento del costo della vita. Mentre dal 2012, anno di completamento della vertiginosa mulattiera, le guide hanno iniziato ad includere nei loro itinerario questo luogo pittoresco, in grado di offrire antichi templi e una splendida vista sul paesaggio montano circostante. A patto, ovviamente, di avere il coraggio di affrontare il tragitto in macchina fin quassù. Ora naturalmente, la strada non si presenta sempre percorsa dalle acque di un fiume, nella fattispecie il Marshyangdi, che scorre lungo le pendici montane sopra i villaggi di Ghermu e Jagat. Anche perché altrimenti, sarebbe stato impossibile costruirla. Così che l’eventualità dimostrata nel video, in effetti, è la drammatica conseguenza di un periodo di piogge piuttosto intense, in grado di sfumare sensibilmente i confini tra l’acqua e l’asfalto…