L’abissale fame dell’orrendo verme segmentato

Bobbit Worm

State attenti a un’alga pallida ed immota, con sei propaggini a raggiera. Cresce, tale cabalistica escrescenza, in tutti mari del pianeta. Non attira molto l’attenzione. Può trovarsi ovunque: sia tra le brodose acque all’equatore, che immersa negli abissi gelidi, a ridosso dei distanti poli contrapposti; essa giace, quietamente. E prospera, nel buio e nel silenzio. Per capire da dove provenga la sua forza, basta osservarla per un tempo medio: non è poi così passiva, questa cosa, benché paziente, all’occorrenza. Non è neanche un vegetale a dire il vero, né una lei. Bensì un anellide, o per essere maggiormente specifici, il più lungo polichete al mondo. Un subdolo cacciatore in grado di misurare fino a tre metri, sottilissimo, di cui normalmente appare molto poco. Giusto la testa, oltre a un piccolo segmento degli innumerevoli in cui è suddiviso, caratterizzato dalle antenne multiple e una spaventosa tenaglia. Tanto affilata e perigliosa, da valergli il nome colloquiale di verme di Bobbit (con riferimento alla celebre vicenda americana del 1993, in cui Lorena G. usò un coltello da cucina per troncare il pene di John B.). E ringraziamo, per tale colorita associazione, la pubblicazione Coral Reef Animals of the Indo-Pacific (Terrence M. Gosliner – 1996) nonché la teoria, del tutto errata, secondo cui la femmina di questa graziosa creatura avesse l’abitudine di recidere il pene del compagno, tanto per darlo in pasto ai sui figlioli. Del tutto resa obsoleta dalla scoperta successiva, relativamente sorprendente, dell’assoluta assenza di un tale organo nel maschio strisciante. Il quale piuttosto, come spesso avviene negli habitat marini, feconda le uova successivamente alla deposizione. Sono tra l’altro assai prolifici, questi anellidi. Ed invasivi. Le loro antenne presagiscono la dannazione…
Può dunque capitare, non è affatto raro, di trovarseli davanti durante un’immersione o presso le rive di una spiaggia. Ecco, in tali casi, guai a mettergli la mano innanzi. Il verme infatti, quasi immediatamente, scaturirà dalle dalle sue sabbie con il tenore tipico di un cobra, poco prima di serrarsi su qualunque cosa capiti a suo tiro. Sono tanto affilati, i suoi denti a forma di forbice, da ottenere spesso l’effetto di tagliare a metà l’oggetto dell’agguato. Sia questo con le pinne, oppure l’unghia (la parte migliore). Senza contare la tossina di cui sono ricoperti, in grado di paralizzare prede anche assai più grandi, prima d’ingerirle, laboriosamente, senza neanche masticare. Tale sostanza è in grado di indurre una perdita di sensibilità negli arti umani, anche permanente. In natura mangia pesci, l’onnivoro in questione, crostacei, granchi, paguri e gamberetti. Spezza anche il corallo, poco prima di succhiarne l’ottimo midollo. È paragonabile, per l’aspetto e il modus operandi, alla bestia tipica di un incubo notturno.
Non per niente la sua genia, in gergo italiano, viene fatta risalire ai vermocani, le bestie della mitologia greca che si diceva fossero simili a colossali mastini privi di zampe, pronti a risvegliarsi nelle notti umide di primavera, alla ricerca di una vittima da ghermire e divorare. La specie più comune di questa classe di creature, la Hermodice carunculata, misura appena 30 cm ed è anche denominata verme di fuoco, per le setole urticanti di cui è ricoperta. Ma il vero demone resta soltanto quello con gli unghielli laterali affini alle zampe di un millepiedi, come qui mostrato, l’Eunice aphroditois, famelico e praticamente indistruttibile, parimenti all’Idra di Lerna, che Ercole sconfisse solamente grazie al fuoco. Assai difficile da usare, sott’acqua…

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La notte dei velivoli di fuoco

Nats Visualization

Non diamo nulla per scontato. In un giorno come gli altri dell’agosto dello scorso anno, 2.524 aeroplani trasvolarono l’Atlantico, verso la loro destinazione nei due continenti contrapposti: l’America, l’Europa; centinaia e migliaia di tonnellate di metallo, plastica e vetro, lanciati da una catapulta metafisica, come nell’Empireo di un terrestre firmamento. Le bianche scie, la luce riflessa, il rombo del motore e quel fragore. Poco più di due generazioni prima, regnava il silenzio, assiomatico e indiscusso. Sarebbe bello, in qualche modo, entrare a fare parte di una tale meraviglia.
Mettersi ai comandi, prima di rollare la mattina presto, gradualmente, attentamente, verso l’area di decollo. Chiedere il permesso di procedere alla torre. Per poi aumentare la potenza del motore, rilasciare i freni, puntando il naso verso l’alto e nel corridoio designato, all’altitudine perfettamente definita. Da seguire, doviziosamente, fino ai margini del suolo, verso il vuoto acquatico del grande mare. Delimitato dai confini invisibili di grandi zone di controllo. Nel video, le hanno etichettate OACC, benché il termine più comune sia OCA (Oceanic Control Area). Sarebbero, tali regioni quadratiche del globo, la risultanza di altrettanti radar, posizionati strategicamente ove possibile, lo strumento salvifico per capirci qualche cosa, di un tale intreccio di comete fiammeggianti. Perché sono quelle il culmine della faccenda, i piloti e tutto ciò che ne deriva: bagagli e passeggeri, alettoni e coppie di turbine. Tutto è chiaro, agli occhi dei sapienti. Finché non giungi, verso mezzogiorno…Nella fluida distesa di Nettuno! Oltre la portata degli strumenti di rilevazione, ove regnava, fino a qualche tempo fa, la legge della pura soggettività. La navigazione aerea, in queste remote zone oceaniche, si basa ancora largamente sugli aggiornamenti ricevuti via radio. I controllori coinvolti per ciascun viaggio, siti anche a decine di migliaia di chilometri, non dispongono di alcun occhio elettronico, che possa assisterli nell’arduo compito di avere un quadro generale. Idealmente sarebbero i piloti stessi, o in tempi odierni i loro GPS, a trasmettere la posizione in cui si trovano, ora dopo ora (e questo ben permette di capire come, persino oggi, possano sparire degli aerei).
Questo è l’àmbito di una sublime forma di poesia. Sui flutti di balene colossali o branchi di merluzzi, non si vola tramite l’apporto di comuni linee rette, concepite per unire i radiofari, e le relative piste, come fossero due punti sopra un foglio. Perché come ben sapevano gli albatross, e gli altri uccelli viaggiatori, la Terra è tonda. E tutto, a questo mondo, ha la forma naturale di una curva!

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Il segreto del cetaceo nel dipinto

Hamilton Kerr Institute

Chi può dire quale sia lo stato originale delle cose? Riportare le opere d’arte al culmine della loro estetica apparenza, delle volte, può nascondere sorprese. Come quello che si stava profilando innanzi alla giovane Shan Kuang, restauratrice del museo Fitzwilliam laureata presso l’università di Cambridge, verso l’inizio del corrente giugno. Gratta, strofina e pulisci, togli la patina di protettivo trasparente (che bel mestiere) quando ad un certo punto, sulla scena di una spiaggia stranamente affollata, comparve la  misteriosa vela. Una scura forma posta troppo in alto, nella costruzione prospettica della scena, per essere la mera parte superiore di un’imbarcazione d’epoca. Che le acque agitate presso la città dell’Aia, in Olanda, siano particolarmente care a chi pratica sport come il wind surfing o il kiteboarding, d’accordo, è cosa nota. Ma trovare simili testimonianze in un dipinto del 1630, opera dell’artista specializzato in soggetti marittimi Hendrick van Anthonissen, sarebbe stato il più improbabile degli anacronismi. Volendo porre fine quanto prima alle speculazioni, dunque, la ragazza prese nuovamente in mano gli strumenti. Lavorando attorno a quella macchia, rimuovendo uno per uno gli strati aggiunti successivamente, giunse quindi innanzi all’incredibile realtà. C’era stata un tempo una balena morta, che languiva sopra quelle chiare sabbie. E c’era ancora, scura e marcescente, nel dipinto su cui stava lavorando.
Il miraggio provenuto dal profondo, un essere così imponente da sfidare l’immaginazione. Nel XVII secolo, quando ancora certi stravaganti marinai parlavano nelle osterie di serpi gigantesche, piovre titaniche & altre terribili creature degli abissi, la vista di una creatura come questa era qualcosa di tremendamente memorabile; l’esperienza di una vita. I passeggeri in viaggio sugli eleganti velieri di quell’epoca, lungo le acque del canale, verso l’Africa e l’Oriente, riconoscevano quel segno da lontano. Di una pinna, di uno sbuffo plutonico di fluido trasparente: il soffio della bestia che la bibbia definiva Leviatano. Un mostro incomprensibile, portentoso e sibillino. Perché non conosceva neanche il più naturale degli istinti, la propria stessa autoconservazione.
E chi nel pieno della propria gioventù, recatosi presso le spiagge dell’Olanda passeggiare, avesse visto la carcassa di un tale gigante di Nettuno ormai proceduto oltre, avrebbe scelto il modo di trasmettere quell’esperienza. Con la penna, con la stampa o col pennello. C’erano molti modi. Quasi tanti, quanto adesso.

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I due draghi marini della Baja California

Oarfish

Parola di Giobbe: “Fa ribollire come pentola il gorgo, fa del mare come un vaso di unguenti. Nessuno sulla terra è pari a lui, fatto per non aver paura. Lo teme ogni essere più altero; egli è il re su tutte le bestie più superbe.” Che fine ha fatto il signore dei serpenti marini? Al volgere del ciclo dei millenni, la ruota dell’evoluzione batte contro le creature dalle dimensioni troppo grandi. Stridendo annienta i mostri, abrade le altere maestà. Un tale mulino ruota per l’effetto cosmico di venti senza posa, che portano a disperdersi le polveri dei regni decaduti. Guardiamoci intorno, suvvia: non delle poderose proto-scimmie è stata questa Terra, ma degli ominidi che seppero assemblare aratri, frecce o spade. Con mani affusolate, molti neuroni e decisamente meno muscoli o per lo meno: un equilibrio tra le parti. E discendendo ancora in questo abisso di epoche lontane, il tirannosauro venne sorpassato da pidocchi e topolini, giusto mentre il quetzalcoatlus laciava il passo ai passeri di antiche primavere. 100, 1000 per ciascuna impressionante serpe alata. Le moltitudini fameliche, per quanto deboli individualmente, vincono da sempre sui giganti. Questo, ad ogni modo, non  li rende meno spaventosi.
La data è il 7 aprile scorso, il luogo: una non meglio definita località della penisola della Bassa California. Canoe gialle solcano le onde, mentre adulti avventurosi, telecamere alla mano, cercano l’avvistamento più notevole della giornata. Sono i partecipanti a un’escursione naturalistica organizzata dal celebre Shedd Acquarium di Chicago, che li ha portati all’altro capo degli Stati Uniti, insieme a un team di esperti etologi per far da guida. Quella mattina, ancora non sapevano la loro buona sorte. Sull’inizio del video, infatti, la combriccola scorge due ombre sinuose tra le acque basse della costa. Sono lunghe circa cinque metri l’una, hanno una testa affusolata con un vistoso ciuffo rosso, la lunga pinna mobile che gli percorre tutto il dorso. Si tratta di una coppia di rari regalecidae, giunti fino a riva, probabilmente, solamente per morire. Oppure, come da credenza popolare, per l’incipienza di un pesante sisma. Stupida superstizione! Sarà stato solamente un caso, se pochi giorni prima c’era stato il terremoto ad Orange County.

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