Si tratta di un’invenzione anglosassone e forse anche per questo, espressione di tutto ciò che è intrigante, affascinante o cool secondo la visione tipicamente british della più semplice necessità: il trasporto. Comparve quasi casualmente, forse anche per questo, nel film del 1971 – Una cascata di diamanti, con Sean Connery nel ruolo di James Bond. Dopo tutto, lo chiamavano anche 001, primo esponente della premiata classe Mountbatten, un nome carico di classe e savoir-faire. Eppure, ebbe una lunga e florida carriera, contrariamente a molti dei suoi colleghi: vedi ad esempio l’agente 002, venne colpito a morte dal malefico Scaramanga (l’uomo dalla pistola d’oro) o ancora 003, ucciso in Siberia nell’episodio cinematografico Bersaglio Mobile del 1985. Per non parlare di 006/Alec Trevelyan, interpretato da Sean Bean in Goldeneye e destinato a tradire, dopo aver finto la sua morte, passando dalla parte dei super-cattivi senza un vero perché. Un esponente tanto fortunato del celebre doppio zero, questo qui, forse proprio perché non era una persona, bensì un’imbarcazione. Pardon, un aereo! Anzi no, nessuno dei due, come rispose piccato l’esercito all’indirizzo del suo inventore, che voleva offrirglielo in esclusiva durante il corso degli anni ’50: “E noi che cosa dovremmo farci?” Aggiunsero quindi. E Christopher Cockerell, ingegnere meccanico, decise quindi di trovargli una collocazione sul mercato civile. E che storia sarebbe stata, quella dei magnifici, rapidi, iper-tecnologici hovercraft….
La Saunders Roe esisteva dal 1929, come compagnia di trasporti operativa nel campo degli aerei, degli idrovolanti e delle imbarcazioni ad alta velocità. Nel 1966 andò incontro ad una fusione con la concorrente Vickers Supermarine, ma non prima di aver acquistato, a un prezzo mai rivelato, i diritti della nuova fenomenale invenzione di Cockerell. C’erano state, del resto, valide dimostrazioni della sua efficienza: la cessazione del tentativo di collaborare con i militari, anni prima, aveva permesso infatti a quest’ultimo di farsi costruire un prototipo dalla S.R, soprannominato “il disco volante” che nel 1958 aveva attraversato la Manica in poco più di due ore. La stampa, colpita dalla spettacolarità e l’efficienza del mezzo, si dimostrò pronta a promuoverlo spontaneamente come una dimostrazione del più possibile ed incombente futuro. Così, negli anni a seguire, furono presentati una serie di mezzi dalla dimensione crescente, numeri di serie dall’uno al tre, con caratteristiche e prestazioni sempre superiori. Ma nessuno paragonabile al titanico SR.N4, che sarebbe rimasto fino al 1988 il secondo hovercraft più grande del mondo (e che anche a seguito del varo della classe Zubr sovietica, resta tutt’ora il secondo). Il Princess Margaret, o Mountbaten 001 che dir si voglia, fu dunque costruito presso l’Isola di Wight, all’interno dello stesso hangar in cui l’azienda aveva messo a punto i suoi precedenti modelli. Azienda che nel frattempo, successivamente alla fusione, aveva cambiato il nome in British Hovercraft Corporation (BHC) denominazione destinata ad entrare a pieno titolo nella storia dei trasporti per mare. Completata la struttura principale ed integrati i motori, il veicolo (battello? Velivolo?) Fu ufficialmente presentato ai giornalisti e ai dignitari governativi in visita, con una risonanza mediatica da subito eccezionale. Esso misurava, dopo tutto, poco meno di 40 metri di lunghezza, con un peso lordo di 165 tonnellate, potendo trasportare 116 passeggeri e 33 delle loro automobili nella capiente stiva. Alleggerito e in condizioni marittime ideali, si dimostrò inoltre in grado di raggiungere i 65 nodi, ovvero 120 Km/h grazie ai suoi quattro motori Rolls-Royce Proteus, dotati dei propulsori ad elica da aereo più grandi della storia. Per essere chiari, stiamo parlando di una velocità di oltre il triplo rispetto a qualsiasi altro battello, dalle dimensioni e portata paragonabili, che fosse all’epoca operativo nel Canale. Nel 1968, iniziò quindi il servizio attivo, con una percorrenza giornaliera della tratta tra Dover e Boulogne-sur-Mer, in prossimità di Calais. Il successo con il pubblico fu immediato: dopo tutto, non si era mai visto un battello che potesse portarti in Francia, o compiere il tragitto inverso nel giro di soli 35 minuti, ripetendo la traversata per un numero di 6 volte al giorno. Il fatto che l’ambiente di bordo fosse arredato come si trattasse di un aereo, con sedili rivolti nel senso di marcia e ambienti spaziosi ma privi di sprechi, non faceva che accrescere il suo fascino ed il senso di trovarsi proiettati verso uno splendente domani…
oceano
La letale fiocina della conchiglia a cono
Ci sono molti tipi di morte, ad attendere il bagnante sfortunato che decida un giorno di lasciare la prudenza a riva. Squali, grouper, barracuda. Meduse, murene, razze con il rostro penetrante. Oppure perché no, semplicemente la corrente Atlantica, che in un momento di distrazione può decidere di trasportarti in mezzo ai flutti, lontano da un qualsiasi proposito di salvataggio. Ma c’è un solo caso in cui la triste dipartita, come fonte, possa avere la spontanea ricerca e il desiderio di raccogliere qualcosa di bello. Voglio dire, per la maggior parte del tempo, neppure riuscirai a vederla! Essa risiede sotto la sabbia, con soltanto il suo sifone per succhiare l’acqua e trarne ossigeno, mentre medita sulla natura del suo prossimo assassinio col veleno biologico più letale del pianeta Terra. Ma può succedere talvolta, soprattutto sulle spiagge dei diversi mari tropicali (benché non sia inaudito neanche nel Mediterraneo nostrano) che un’improvvisa ondata di marea la prenda e la sollevi, trasportandola gioiosamente fin laggiù, nel bagnasciuga. Ed allora, si trasforma in un pericolo assai reale: poiché l’intera famiglia delle Conidae, più comunemente dette conchiglie a cono, presenta alcuni dei gusci integrati più esteticamente appaganti, geometricamente simmetrici e persino variopinti. Peccato che in determinati ambienti, siano dette le conchiglie [della] sigaretta, in quanto è noto come la puntura del loro seducente aculeo, nascosto all’interno di una pratica proboscide direzionabile sulla parte frontale dell’animale, lasci alla vittima un tempo appena sufficiente per fumarsi l’ultima della propria infelice esistenza. Prima che sopraggiunga la paralisi, causata dall’attacco di oltre un centinaio di diverse tossine a base di peptidi, capaci di annullare totalmente gli impulsi di controllo e comunicazione del sistema nervoso umano, con conseguente arresto cardiaco e/o soffocamento.
Ed è profondamente diabolico, questo mollusco, perché sembra sapere di possedere la più vasta selezione di veleni dell’ambiente subacqueo, e li miscela attentamente in base alla specifica specie di appartenenza, al bersaglio della sua furia e il vezzo del momento, affinché ci sia del tutto impossibile elaborare un possibile siero. Sostanzialmente, nel tentativo di soccorrere qualcuno colpito dalla sua arma formidabile e letale, tutto quello che resta da fare è tenerlo sollevato, liberargli le vie aeree e sperare che la crisi passi prima del sopraggiungere dell’ultimo respiro. Esistono almeno 30 casi documentati di decessi dovuti alla puntura di una di queste conchiglie, quasi tutti connessi a una specie in particolare: il Conus geographus dell’Oceano Pacifico (geografico perché la sua livrea assomiglia ad una mappa del mondo) piuttosto diffuso sulle assolate coste delle Filippine e dell’Australia. Lungo in media 15 cm, esso costituisce una delle conchiglie a cono più relativamente grandi all’interno della loro categoria, come del resto le altre che mangiano pesce e sono in grado di nuocere gravemente all’uomo. Esiste nel frattempo una seconda varietà, anch’essa carnivora ma evolutasi principalmente per nutrirsi di molluschi e vermi dei fondali, la cui puntura non è generalmente più grave di quella di una vespa. Ed è proprio questo bisogno biologico di nutrirsi di carne, per un animale particolarmente statico come un mollusco dotato di conchiglia, ad aver portato nel tempo allo sviluppo di un’arma tanto micidiale. Nient’altro che, in effetti, una versione modificata della radula, il tipico dente usato dalle lumache di mare per raschiare le alghe dagli scogli, però qui spostato tra possenti muscoli all’interno di un vero e proprio tubo, che potrebbe costituire in senso lato la sua lingua estraibile usata per colpire, e quindi trarre a se la preda. Poiché il dente in questione assomiglia, a tutti gli effetti, all’arpione di una fiocina umana, con tanto di barbiglio ad uncino al fine di restare infisso sotto le scaglie o la pelle del bersaglio di volta in volta selezionato. Ma è pure completamente cavo, e prodotto all’interno di un bulbo velenifero dotato di possente struttura muscolare, la quale una volta individuata la preda (o il predatore) lo proietta innanzi a una velocità di oltre 100 metri al secondo. A questo punto il dente non è più connesso fisicamente al mollusco, ma soltanto tenuto stretto per la sua parte lunga e piatta dalla struttura della proboscide, che ritornando ordinatamente all’interno della bocca, permetterà a quest’ultima di spalancarsi ed iniziare la delicata procedura d’inglobazione.
La creatura gelatinosa del laghetto di Stanley Park
Nel robot da combattimento Megabryoz, ogni elemento costituente ha il suo ruolo e la sua funzione. Tigrid, il grande felino che si trasforma nella gamba destra, identifica il nemico e manovra il sistema di volo durante le trasferte lunari. Rhingo il rinoceronte/gamba sinistra, è in grado di correre sulle ruote o lanciare missili dal suo ginocchio. Il falco e il gufo che formano le braccia, Apex e Zenith, sono combattenti all’arma bianca dalle competenze straordinariamente varie, in grado d’impugnare spade, lance, alabarde. Mentre Justin la grande tartaruga, ritirando la testa, diventa un torso del tutto impervio a qualsiasi attacco del nemico. Basta però che uno solo dei veicoli costituenti sia assente nel momento della mega-trasformazione, affinché essa diventi letteralmente impossibile da portare a termine. Se uno degli eterogenei e inaffidabili piloti dovesse un giorno ubriacarsi, svegliarsi per il verso sbagliato, innamorarsi o vincere al SuperEnalotto, il male avrebbe vita straordinariamente facile per un’intera settimana. Quindi al minimo, il pianeta sarebbe invaso da pericolose creature aliene. Un po’ come avviene nel nostro organismo, nel caso di disfunzioni ad un organo come fegato, polmoni, pancreas o cuore. Si, sapete quale sarebbe la soluzione? Non avere componenti specializzati tra le proprie cellule costituenti, bensì piccoli granuli indipendenti. Talmente adattabili che se un giorno, qualcuno dovesse tagliarci a metà, ben presto potremmo rigenerarci. Ed allora, d’un tratto, esisterebbero due di noi. Storia impossibile per gli umani. Tutt’altro che impensabile per una creatura principalmente costituita da gelatina e…
Siamo nel cuore verde di un’intera città, la vasta riserva naturale di 405 ettari che costituisce, al tempo stesso, l’orgoglio e la principale attrattiva turistica della città di Vancouver. Un intero habitat, con foreste, colline, radure abitate da letterali dozzine di animali diversi, molti dei quali appartenenti a specie protette o facenti parte di assi migratori importanti. Coronato, nella sua parte centro-orientale, da un corposo bacino chiamato la Laguna Perduta. Non perché sia inesplorato (stiamo parlando, dopo tutto, di una città da oltre 600.000 abitanti) bensì per una vezzo della celebre scrittrice del XIX secolo, E. Pauline Johnson, che si lamentò poeticamente della maniera in cui la sua riva preferita tendesse a scomparire, per l’effetto del clima e delle maree. Già perché all’epoca, in effetti, questo luogo non era un lago, bensì la riva dell’Oceano Pacifico, finché nel 1916, non senza critiche da parte dei cittadini per la spesa tutt’altro che trascurabile, l’amministrazione non decise di costruirvi attorno una strada rialzata. Ed a quel punto, la sua esistenza diventò fissa ed indipendente per tutta l’eternità. O almeno così si pensava, finché l’estate particolarmente secca del 2017 non portò ad un calo sensibile del livello dell’acqua, con conseguente istituzione di un BioBlitz d’emergenza della Stanley Park Ecology Society, un ente affiliato al Dipartimento Parchi della città. Stiamo parlando, per essere più precisi, di un insolito evento giornaliero in cui scienziati, naturalisti ed esperti di tassonomia incontrano la gente comune, per istituire gruppi di ricerca temporanei finalizzati a riconoscere, e possibilmente catalogare, il maggior numero di specie animali presenti all’interno dei confini urbani. Procedura in grado di condurre, in questo specifico caso, ad almeno una scoperta estremamente degna di nota: la presenza di numerosi esemplari di Pectinatella magnifica, per la prima volta avvistati ad ovest del fiume Missouri.
Qualcosa di non tanto splendido quanto il suo nome farebbe pensare… Anzi, qualcuno potrebbe addirittura definirlo orribile, nella sua appartenenza estremamente rappresentativa al phylum dei briozoi. Dei letterali ammassi marroni dalla forma non definita, che alcuni hanno ben pensato di definire animali-muschio, per l’impossibilità sostanziali d’inserirli all’interno di categorie biologiche esistenti. Se osserviamo dunque l’albero della vita, li troveremo lungo la diramazione dei protostomi, ovvero gli animali che hanno una sola apertura per fungere da bocca ed ano, in un singolo ramo del tutto privo di ulteriori suddivisioni. Qualcuno ipotizza una vaga parentela con determinati vermi marini, ma ciò resta una teoria per lo più priva di fondamento. Dunque per quanto ne sappiamo essi semplicemente esistono, fin dagli albori dei tempi, risultando il prodotto di un sentiero evolutivo tra i più diretti e sicuri, mirante al raggiungimento della più perfetta collaborazione tra esseri potenzialmente distinti. Esattamente: ciascuno di questi “piccolini” (che possono in realtà raggiungere la dimensione di un pallone da basket sgonfio) nasce come una singola larva o zooide, dalle dimensioni inferiori al millimetro, che quindi clona se stessa infinite volte, fino alla costituzione dell’ammasso informe che stiamo per andare a descrivere più nei dettagli.
L’intelligenza artificiale del drone anti-squalo
Immaginate uno scenario in cui qualcuno è stato incaricato di premere un pulsante. Non a intervalli regolari, come nel bunker del telefilm Lost, bensì con uno scopo e metodologia precisa: ogniqualvolta il pulsante viene premuto, una vita umana sarà salvata dall’assoluto baratro della dannazione. Questa persona, coperta di una simile assurda responsabilità, dovrà osservare la specifica comparsa di uno spettro affusolato nel mare. E soltanto al riconoscimento di tale diabolica essenza, intervenire. Per le prime settimane o mesi, volendo presumere di trovarci di fronte ad un individuo dall’alto tenore professionale ed equilibrato, tutto procederebbe speditamente. Ma dopo il primo inevitabile errore, costato la vita ad un innocente, il guardiaspiaggia inizierebbe ad irrigidirsi; il giorno a seguire, inizierebbe a premere il pulsante anche in momenti erronei, con conseguente dispendio d’interventi superflui di salvataggio; e dopo la prima serie di errori, inizierebbe a mancare la trascurare segni evidenti dello spettro, causando ulteriori incidenti. La sua vita, ancor più di quella delle vittime, diventerebbe un inferno. Qualcosa di simile è stato scoperto negli ultimi due anni dall’amministrazione regionale del NSW (Nuovo Galles del Sud, Australia) secondo luogo al mondo per vittime degli squali dopo la Florida, capitale mondiale dei bagnanti assaggiati “erroneamente” dal pesce carnivoro per assoluta eccellenza. Da quando, nel 2015, dando il via libera ad un progetto per ridurre simili casi nel luogo che ne ha visti ben 295 a partire dal 1990, di cui 122 fatali, il governo di Sydney ha stanziato i fondi per attivare il più sofisticato sistema multi-canale nella storia dei sette mari. Con reti a ridosso delle spiagge, boe di rilevamento, esche avvelenate, una app per le notifiche sul cellulare e droni, dozzine di droni, prodotti in parte dalla compagnia Little Ripper, con sede a Belrose, non più di 25 Km a nord della grande città di Sydney . La quale, avendo creato anche una scuola per l’addestramento e la preparazione sul campo degli addetti al pilotaggio e rilevamento, ha avuto modo di rilevare come l’accuratezza delle vedette a distanza fosse sorprendentemente bassa, nell’ordine del 20-30% di squali avvistati correttamente, senza fare confusione con delfini, balene o grossi pesci di vario tipo. Il che ha portato, negli ultimi tempi, alla ricerca di una soluzione alternativa: e se fossero i computer ad occuparsi di questa mansione?
Fa il suo ingresso in scena, a questo punto della tragedia, il team di ricerca del Prof. Michael Blumenstein, direttore della scuola di software nel dipartimento di scienze informatiche dell’Università Tecnologica di Sydney. Figura attiva nel campo dell’intelligenza artificiale, ma sopratutto, nell’ultima nuova branca di questo ambito, le reti neurali. Coadiuvato tra gli altri da un’altro ricercatore di origini indiane, il Dr. Dr Nabin Sharma, già produttore di algoritmi simili per il riconoscimento delle grafie orientali. Fino a poco tempo fa, eravamo abituati a considerare lo strumento delle entità frutto della programmazione umana come ottimo per gestire i numeri, mediano con le parole, e pessimo per quanto concerneva l’interpretazione delle vere e proprie immagini, attività totalmente ingestibile senza possedere la preziosa fiamma del ragionamento autonomo, puro appannaggio del regno animale. Questa situazione, con gli ultimi progressi nella rapidità di calcolo e lo spazio d’immagazzinamento dati, è stata negli ultimi tempi notevolmente mitigata. E questo soprattutto grazie alla metodologia dell’apprendimento profondo, codificata nella prima volta nel 2006, ad opera degli scienziati Hinton e Salakhutdinov, che hanno scoperto come l’intelligenza artificiale potesse essere suddivisa in strati, e ciascuno di essi addestrato come una macchina stocastica di Boltzmann priva di supervisione. Il che significava, in parole povere, sottoporgli come possibile scenario di utilizzo una quantità spropositata di interpretazioni dello stesso soggetto, concetto o immagine, finché il computer non diventasse in grado di riconoscerlo ed interpretarlo in totale autonomi. In quello che si potrebbe definire, non senza un certo timore reverenziale, la vera scintilla della vita creata in laboratorio. Macchine che possono salvarci oppure distruggerci, dunque, come profetizza più di qualcuno, ma che soprattutto nel frattempo, possono agire per semplificarci notevolmente la vita. Ed in qualche caso risparmiarci l’incontro con belve feroci del più mordente tipo…