Spazio: ultima frontiera. Nelle sale di vascelli stellari lanciati verso l’infinito, come pure tra le mura della nostra casa. Purché il tavolo, luogo dell’incontro conviviale, non si riveli troppo piccolino.
Purtroppo, c’è un limite all’ingombro consono per la mobilia. Pensiamo all’USS Enterprise, l’astronave che fu data in concessione, non senza rammarico, dal capitano Kirk al capo calvo degli X-Men. Porte a scomparsa, corridoi ariosi, un ponte di comando scarno, con qualche comoda poltrona e giusto un paio di pannelli luminosi. Persino gli ufficiali, in un’alta percentuale di puntate, finivano per stare in piedi. Davvero il futuro dell’esplorazione cosmica, nell’immaginario collettivo, si rivelava minimalista e razionale. Anche a pranzo, specie in questi giorni, quello Spazio diventa una risorsa ricca di opportunità. “Cosa? 10, 15 invitati dentro a casa mia? E dove li metto?” Se avessi tanti posti a tavola, non mi resterebbe dove cucinare, pensa l’anfitrione. Ben sapendo che ci sono soluzioni temporanee. Può ad esempio prendersi dei cavalletti; traballanti trespoli e treppiedi; tirare dentro qualche tavolino da esterni, magari mezzo arrugginito, da coprire attentamente, con l’intonsa e candida tovaglia. Troppo facile!
Questa è la fondamentale differenza, fra gli uomini terricoli e i fieri capitani di un’imbarcazione: poter contare sui rifornimenti nell’attimo cruciale di una grande cena. Non puoi far legna in mezzo al mare, allo scopo di erigere più lunghe tavolate. Quindi, durante un viaggio transoceanico, sperduti fra le onde burrascose, potreste un giorno ritrovarvi a ringraziare questo progettista inglese, David Fletcher, il fondatore della Fletcher Burwell-Taylor, ltd. La sua splendida creazione, che periodicamente riesce a fare il giro di mille/duemila siti web, è un tavolo da yacht, che si allarga all’occorrenza. IL tavolo. Si tratta di un oggetto che comunque, per sua stessa natura, può adattarsi ad ogni ambiente di ridotta metratura. Possibilmente circolare. La particolarità più significativa, come per un’automobile di lusso, non è l’aspetto (assolutamente notevole) ma il meccanismo che lo muove. E quello che può fare.
Inghilterra
La sconfitta del trattore troppo nuovo
C’è ancora forza in queste vecchie ossa, sciocco agricoltore. Il potere dei secoli, degli anni e dell’acciaio antico, che si risveglia sotto il duro sole di un’insolita giornata. Fumando a perdifiato, da due pesanti ciminiere, verso il grigio cielo. CHOO, CHOO! Questo sorprendente video, comparso sul canale YouTube di una rivendita di pezzi di ricambio (MillarsTractor) dimostra come le cose di una volta, per quanto meno sofisticate rispetto a ciò che abbiamo adesso, possano talvolta primeggiare, persino nell’ambito imparziale della forza pura. Presentiamo, come prima cosa, i due possenti lottatori: da una parte, con la riconoscibile colorazione gialla e verdolina, il non-plus-ultra delle macchine agricole moderne. Un trattore diesel dell’iconico produttore John Deere, quattro-ruote proveniente dal fertile Illinois. 850 temibili cavalli di potenza, circa due tonnellate, o poco più, di stazza. Dall’altra, il torreggiante mostro. È molto difficile, persino per gli appassionati che ne preservano l’eterno mito, giungere a identificazione di un mezzo come questo. Ciascuno li adeguava al suo bisogno, senza criteri di rappresentanza. In Inghilterra li costruivano, a cavallo dell’anno 1900, e poco dopo pure lì, sulle frontiere d’oltreoceano, riciclando le competenze dei costruttori ferroviari, veri apripista del distante West.
La Rivoluzione Industriale non fu come un fulmine improvviso, in grado di cambiare tutto da un momento all’altro. Le sue molte implicazioni, figlie dell’ingegno, vennero esplorate gradualmente. Sulla spinta galvanizzante dell’inarrestabile vapore. Sostanza energizzante usata dapprima, timidamente, nelle fabbriche o per i telai dei tessitori, poi racchiusa dentro attrezzi ponderosi, su queste forti ruote. Motori portatili, amavano chiamarli, benché richiedessero un tiro completo di cavalli, terreno pianeggiante e un alto grado di pazienza. Li vendevano ai coltivatori, per far battere le motozappe, mettere in funzione pompe, magli spaccapietre; finché, un bel giorno, qualcuno non capì la straordinaria implicazione. Che una simile potenza, in grado di svolgere difficili mansioni, poteva pure muoversi senza l’aiuto delle bestie. Quell’uomo inquisitivo era Thomas Aveling, “L’esperto metallurgico ed ingegnere agricolo” che usava spesso dire: “Usare sei cavalli per trascinare in giro un motore è come trainare una vaporetto con sei barche a vela.” Così, sfruttando la scintilla d’utile anarchismo, andando contro tutto e tutti, lui prese una catena, la fece scorrere dall’albero di trasmissione fino ad un pignone, poi alle ruote. E andò felice, verso l’orizzonte.
L’argenteo pennuto metallico d’Inghilterra
Passa il tempo, si compiono i gesti, ripetitivi. Mangiando, dormendo, tutti gli esseri sembrano uguali. Le stagioni corrono, inesorabili, come lancette di un orologio. Meccanismi del mondo animale, pennuti. L’identità è nei dettagli: di uccelli che cantano, volano? Ne abbiamo milioni. Splendidi e variopinti, qualche migliaio. D’argento e d’oro, bé, se ne vedono pochi. Come questi, nessuno. Il cigno d’argento del museo di Bowes vive, per così dire, dentro un alto castello. Vi giunse, attraverso le alterne vie aeree del fato, nel 1872. Al suo nido, giorno dopo giorno, accorrono centinaia di esseri umani, per trarne un ricordo, una foto, il video di un incredibile evento. Lui, con eleganza, flette il suo collo. Si risistema le penne. Mangia un pesce. Sempre lo stesso! Vanesio, magnifico cigno. Sei soltanto un automa, non potrai digerirlo…
Nel 1869, John Bowes, figlio del decimo Earl di Strathmore, e sua moglie, la contessa di Montalbo, misero in atto un enorme progetto. La costruzione di un museo delle meraviglie, con gallerie d’arte, sculture, vasti giardini e luoghi di ristoro. Investirono, secondo una stima, più di 100.000 sterline, con l’obiettivo dichiarato di far comparire magicamente, nella campagna inglese della contea di Durham, l’anacronismo di una reggia francese del Primo Impero. Tra quelle mura, progettate dall’architetto Jules Pellechet, avrebbero posto tesori di ogni tipo, dipinti e gioielli. Le manifestazioni fisiche dell’ineffabile mondo dell’arte. Questa, avevano deciso, sarebbe stata la loro eredità al mondo: un’enorme finestra sull’infinito. Come spesso capita, non mancarono le critiche. Nell’orgogliosa Inghilterra vittoriana, si pensava che l’edificio fosse inappropriato, mancasse di una giusta identità nazionale. Persino dalla lontana Germania, Nikolaus Bernhard, studioso d’arte coévo, lo definì: “Sproporzionato, più simile al municipio di un paesino della Provenza”. I tempi si allungarono, al punto che 20 anni dopo, purtroppo, la costruzione risultava ancora incompleta, chiusa al suo auspicato pubblico. I due mecenati, ormai anziani, passarono oltre. Non prima, tuttavia, di aver disseminato le vaste sale di oltre 800 dipinti, varie cose e…Almeno un uccello. Il cigno d’argento di James Cox. Ancora oggi, alle 14:00 di ogni giorno, risuona il suo canto. E quel singolo, dannato pesce nuota in un fiume di vetro, inespugnato.
Fuga dal dedalo di Gottlob Leidenfrost
Restava una porta, mancava l’uscita. E ogni giorno sparivano i topi. 10 ce n’erano, poi ne rimasero nove. L’eterno dilemma dei camici bianchi: non si può mettere la bestia in un labirinto, aspettandosi che ogni volta ritrovi la via. Sinistra, sinistra, destra, sinistra, destra e dopo? Sono imperfetti, gli esseri viventi, cedono e smettono di affannarsi, troppo stanchi per cercare il formaggio… Oppure: succede qualcosa. Persino i gladiatori del Colosseo, un bel giorno potevano guadagnarsi la libertà. E dopo 1.000 volte, se i Pianeti si allineano, quando risplendono Stelle diverse, il topo può diventare. Acqua, che corre veloce, verso. Fuori! La scienza, come diceva il chimico più famoso della città di Albuquerque (che tutti, per presunte ragioni di privacy, usavano chiamare Heisenberg) è lo studio del cambiamento. Quindi, se vari l’ordine degli addendi, purché rimanga il conflitto, tutto tende a allo stato di quiete. Quando Gandalf evocò gli acquosi cavalli del fiume di Granburrone, turbinante Rombirivo, questi erano nove, tanti quanti le belve cavalcate dai malvagi, spettrali aggressori. Ad ogni azione, corrisponde una reazione uguale e contraria. Così potrebbe esser nato, fantasia permettendo, questo dedalo enorme, l’occulto Labirinto di Leidenfrost, basato sull’omonimo, imprescindibile principio della dinamica dei fluidi, che a comando si scatena, previo riscaldamento di un’adeguata superficie d’appoggio. Stiamo parlando, come da video allegato, di un esperimento realmente messo in pratica da Carmen Cheng e Matthew Guy, studenti dell’Università di Bath. Che va visto, per essere creduto. 1,2,3…9… Gocce, una per ciascun topo, gettate sul primo pannello, invitate, anzi no, costrette, a correre verso l’uscita. Eccome, se andavano! Più sicure, veloci che mai. Altro non sarebbe, questo prodigio, che l’applicazione di un fenomeno facilmente osservabile anche da noi, uomini della strada. Quello secondo cui, quando si riversa un liquido sopra un solido MOLTO al di sopra della sua temperatura di ebollizione, questo non evapora completamente, bensì solo in parte. E il gas che ne deriva, intrappolato sotto la goccia residua, gli fa da cuscinetto protettivo, rendendola, per così dire, sguisciante. Fu confermato, come principio, tramite gli esperimenti del fisico tedesco Johann Gottlob Leidenfrost. Da quel giorno, ci assilla. L’avrete probabilmente notato, facendo bollire un uovo, nel formarsi di piccole perle bizzose, goccioline d’acqua che scivolano, libere, per tutta la vostra padella. Però, qui si fa scienza: a noi, solo questo non ci sarebbe bastato.