L’esperienza di tagliare un albero gigante

Tree Wizard

Sembra quasi di essere lassù con lui. Di nuovo in Australia, ancora una volta per raccontare un capitolo dell’eterna storia complicata, la convivenza tra l’uomo, le sue cose, i suoi edifici e l’avanzata inarrestabile della natura, che tanto vulnerabile e arrendevole ci pare in certi casi, quanto virulenta, pervasiva, inesorabile o insistente. Consideriamo, per esempio, questo grande albero di eucalipto, vegetativa avanguardia della foresta di Sandy Bay, presso la cittadina di Hobard, in Tasmania meridionale. Che non soltanto ha avuto la superbia di raggiungere i 30 metri abbondanti d’altezza, ma l’ha pure fatto presso la singola cosa che, fra tutte, peggio si sposa con il tocco lieve delle foglie, magari spesso umide per qualche lacrima di pioggia: i cavi dell’alta tensione, tesi ad altitudine fra pali sufficientemente elevati, affinché né koala, né vombato, né il roditore bandicoot possano giungere ad arroventarsi sopra simili scintille, pronte a palesarsi quando disturbate. Ma con “l’albero” cosa puoi fare? Con l’arbusto, non puoi ragionare. L’alta pianta a fusto è ardua da spostare. L’unica scelta, in una simile situazione dal significativo potenziale di corto circuiti, è chiamare LUI, o in alternativa, qualcuno come LUI, Tree Wizard (stregone barbuto e dai capelli rasta) l’ottimo rappresentante di un’intera categoria professionale che piuttosto raramente, soprattutto presso noialtri della vecchia Europa, viene fatta oggetto della pubblica considerazione. Il termina arborista, in effetti, può indicare molte cose. Un botanico specializzato nello studio di questa particolare categoria di forme di vita vegetale, oppure il giardiniere addetto a prendersi cura quotidianamente del singolo gruppo di elementi clorofilliani più massicci di un intero parco/giardino, che possono avere molte fogge, ma del resto presentano almeno una categoria in comune: l’altitudine raggiunta dai loro più sporgenti rami. Ragione per cui, di categoria degna di meritarsi l’aureo titolo, ce n’è almeno un’altra, ovvero quella di tutti coloro che occasionalmente, soltanto quando necessario, riescono ad arrampicarsi fino in cima, per rimuovere la pianta in modo graduale. Certo, non puoi urlare CADE! In zone semi-urbane, poi dar l’ultimo colpo d’ascia e metterti di lato. Innanzi tutto, perché così risolveresti solo parte del problema; l’albero in orizzontale, con tutta la sua massiccia presenza, andrebbe in ogni caso fatto a pezzi, quindi caricato sui furgoni. Oppure sminuzzato in fine segatura, ma usando macchine tanto grandi, e pesanti, che trovano il posto solo dentro alle migliori segherie. Molto meno peggio, dunque, procedere per gradi. O per meglio dire dar principio all’opera dal punto culmine, la cima sopraffina del problema. Come faceva lo stregone in questione, in questo caso tanto efficacemente offerto ai nostri occhi grazie a un paio di videocamere per sport estremi.
Il video, caricato sul servizio di self-publishing Vimeo, è comparso all’improvviso sul portale Reddit, ad opera dello stesso protagonista, che si è quindi prodigato in un ricchissimo botta e risposta con gli innumerevoli utenti del sito, offrendo interessanti spiegazioni ad alcuni suoi colleghi statunitensi, ad alpinisti ed altri hobbisti dello spostamento verticale, come ai semplici curiosi delle cose varie, vera e propria linfa di simili discussioni divaganti presso il vasto web. Tra le risposte maggiormente gettonate (in questo sito ogni intervento è soggetto all’attribuzione di un punteggio collettivo) quella data all’utente dal nome sfizioso di readythespaghetti, che chiedeva candidamente: “Quali sono gli alberi che preferisci tagliare?” Ottenendo due specie piuttosto diverse tra loro, benché entrambe appartenenti alla categoria degli alberi più amati dai koala. La prima è il colossale Eucalyptus botryoides, o Mogano del sud, un arbusto che supera spesso i 40 metri, e che a quanto costui ci racconta, fino alla fine degli anni ’70 fa veniva piantato indiscriminatamente, ad esempio come tratto distintivo dei campi da golf. Il risultato è che ad oggi abbondano grandi quantità di simili eco-mostri all’incontrario (spauracchi dell’ambiente artificiale) ormai vecchi, stanchi e in pessime condizioni di salute. Rimuoverli, quindi, è una semplice questione di responsabilità, nonché un’impresa non da nulla, specie se si ha il mandato o l’intenzione di proteggere le piante vicine. Il secondo albero citato, invece, è il Corymbia citriodora, anche detto eucalipto citrato dal delicato profumo di limone che emanano le sue fronde e la liscissima corteccia. Scalare quest’albero in realtà originario delle regioni settentrionali dell’Australia, ma spesso trapiantato fin quaggiù in Tasmani, è una prova d’alpinismo arboreo non alla portata di tutti, specie in condizioni umide o bagnate. Ma l’agilità e la sapienza tecnica di quest’uomo alquanto eclettico, direi, sono davvero sotto gli occhi di noi tutti…

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Come costruire una casetta primitiva

Primitive Technology

In mezzo alla foresta pluviale che costituisce una parte significativa dello stato australiano del Queensland, si aggira un uomo in calzoncini che di questo luogo ha fatto il suo cortile. Il suo nome è…Primitive Technology…Beh, per lo meno quello che dichiara al mondo tramite l’omonimo canale di YouTube. Del resto, come si chiama non è (davvero) importante, almeno non quanto ciò che riesce a dimostrare: che persino un appartenente alla società moderna, un prodotto di tre millenni di civiltà, può ancora ritrovarsi, per puro caso o un hobby stravagante, in mezzo all’assoluto nulla, solitario, privo di risorse e/o di strumenti. Riuscendo, nonostante tutto, a realizzare un qualche cosa che va molto oltre la pura e semplice sopravvivenza. È una casa vera questa, non un semplice rifugio. Grossomodo cubica, larga due metri, con tetto spiovente per proteggersi dagli elementi, mura spesse ed isolanti fino a un metro d’altezza, un letto sollevato da terra, uno spazio per accendere il fuoco e, nelle battute finali del processo progressivo di miglioramento, addirittura un ottimo camino, che permette di chiudere completamente un lato della costruzione, dando adito ad un lato riscaldato in modo più efficiente. Non riesce così difficile immaginare uno scenario in cui una simile abitazione o la sua versione più grande, nel corso del tardo Paleolitico superiore (circa 10.000 anni fa) si rivelasse un bene prezioso per un’intera famiglia dei nuovi popoli stanziali, i primi che iniziavano a dimostrare il vero potere della mente sopra la natura. In via di trasformazione quest’ultima, da risorsa nebulosa e sfruttabile soltanto attraverso la caccia e la raccolta, a un vero spazio in cui la tecnica può dare un senso al legno, la pietra e l’argilla, gli amici di chi ha il metodo e lo studio per apprenderne i segreti. Ma soprattutto importante, a quell’epoca, non era tanto il semplice possesso: ancor più che adesso, nulla durava per un tempo lungo, ed ogni cosa andava sottoposta a continui interventi di manutenzione, portando in primo piano i meriti di chi sapeva far le cose, come costui.
Il video inizia in modo semplice, con l’ingegnere che ci mostra la sua ultima creazione: una rozza ascia litica, creata a partire da una pietra oblunga di quello che dovrebbe essere basalto, piuttosto che l’ideale selce, probabilmente non disponibile in quel singolo contesto. Viene mimato quindi il gesto di modellazione, tramite un sassetto che lui impiega per colpirla in prossimità del bordo, per accentuare un filo tagliente che nei fatti è già perfettamente pronto all’uso. Del resto, la sequenza ha lo scopo di contestualizzare ciò che viene dopo, ovvero l’abbattimento e il disfacimento di alcuni piccoli alberi, attraverso colpi ben vibrati del pesante arnese. E benché sia chiaro come l’efficienza del processo si configuri in modo tutt’altro che ideale, nel giro di un tempo imprecisato gli riesce di crearsi una catasta di legna lunga e flessibile, cui abbina alcune radici e liane raccolte in giro, perfetti ausili alla costituzione di legame tra le parti. Perché P.T, nei fatti, sta per impiegare la tecnica relativamente sofisticata del torchis, il primo sistema strutturale nella storia dell’uomo. L’abbinamento di uno scheletro in legno intrecciato o fibre vegetali a una copertura plastica, come l’argilla. Sostanza, quest’ultima, che in apparenza abbonda in questi luoghi, al punto che nelle battute successive la userà anche per costruire l’intera serie delle ciotole e i bicchieri, perfetto corredo di qualsiasi ottima bicocca. Ma non prima di occuparsi della cosa più importante, il tetto. Quella cosa che, per ottime ragioni, viene spesso usata in senso allusivo per riferirsi ad un’intera abitazione, ad ulteriore riconferma della sua importanza al culmine di qualsiasi processo che possa davvero dirsi, per l’appunto, archi-tettonico. Qui lui compie un significativo errore, largamente trattato nella descrizione scientifica a margine di questo interessante esperimento archeologico. Si tratta della scelta di una soluzione d’impermeabilizzazione basata sull’impiego di una serie di grandi foglie, infilate una per una lungo l’asse di alcuni lunghi bastoni, poi sovrapposti l’uno sopra l’altro, a mo’ di tegole. Nell’ottenimento di un prodotto esteticamente affascinante ed, almeno nei primi tempi, anche funzionale, se non che dopo alcune piogge, forse prevedibilmente, detta materia vegetale ha iniziato a marcire. Così lui, al ritorno sul luogo dell’operazione (nonostante le apparenze, dubito che ci abbia trascorso più di qualche notte) ha dovuto smontare il tutto e ricoprire nuovamente la casa, questa volta, grazie all’impiego della sottile corteccia degli alberi di Melaleuca, le myrtacee d’Oceania a volte dette paperbark. La cui scorza sottile e flessibile, nei fatti, si sta dimostrando molto più valida nel resistere all’insistenza delle precipitazioni locali. Quindi, affinché si possa definire veramente una casa, P.T. si preoccupa di fornire alle sue quattro mura un altro servizio assolutamente irrinunciabile, ciò che distingue, soprattutto, i semplici animali dalla forma di vita (non microscopica) di maggior successo sulla Terra: il focolare.

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Nuovi metodi per cuocere la carne: lavico e fluviale

Lava Barbecue

Il terrore semi-liquido che avanza, rosseggiante fuoco della distruzione fin sopra le spiagge delle Hawaii. Nessun turista assisterà ad un simile spettacolo, tranne i più convinti vulcanologi con lo stipendio assicurato; tutti gli altri, dal primo all’ultimo, fuggiranno via per tempo. Elicotteri, barche, aerei con il pieno di benzina. E automobili che corrono fino alla riva dell’Oceano, per lo meno, al fine di osservare da lontano i fumi fetidi della montagna. Lentamente, inesorabilmente si consuma la foresta. Tanti tronchi e foglie rigogliose, mentre gli uccelli gridano alla fine delle loro uova. È una totale evacuazione, senza il minimo risvolto positivo per la collettività. Ma in mezzo a questo panico, ci sarà un uomo. L’eroe degli affamati, un differente tipo di messia: colui che ricevuta l’illuminazione, piuttosto che fuggire. Ritrovandosi sul promontorio, coraggiosamente irto contro l’ansia ed il pericolo, una grande griglia stretta fra le mani. Ed una borsa sulle spalle tutta piena, piena fino all’orlo di bistecche. Vermiglie, già quasi sfrigolanti nell’aspettativa di… Ah, se soltanto la TV internazionale potesse essere lì, per assistere ad un tale gesto! Se i satelliti di Google, lasciata l’orbita geostazionaria, trovassero il modo di puntare l’obiettivo sul suo volto, per un attimo e in obliquo, al fine di conoscerne l’identità. Quel giorno, finalmente, saremmo a conoscenza del Segreto. Senza più doverci accontentare delle inefficienti imitazioni del nirvana del filetto, l’apogeo della cibaria, vedi questo strano e malriuscito esperimento della Syracuse University, proprio nel centro rumoroso di New York. Dove, nonostante le molte trovate dell’apoteosi cinematografica, mai ebbe a palesarsi questo spettro del vulcano, l’orribile bocca infuocata che rigetta verso il cielo. Fino ad ora, fino ad oggi, finché a Bob Wysocki (assistente professore d’arte) e Jeff Karson (cattedratico di scienze della terra) non è venuta l’idea di mettersi a produrre scienza tanto per gradire, e così tanto facilmente, grazie all’uso della lava “fatta in casa” ovvero roccia pura e fusa, alla bisogna, dentro un grande calderone posto (molto) in alto. Con lo scivolo di fronte e poi…Dopo dipende. Sul canale Vimeo del primo dei due, traboccante d’inesorabili devastazioni, è possibile assistere allo spettacolo non-del-tutto-naturale dell’effusione lavica che s’incontra con la sabbia, col cemento, con più vasche piene d’acqua, che non costa e questo è un bene. A tal punto era insaziabile la sete di nuove bizzarre sperimentazioni di ciascuna delle altre eminenze coinvolte in ciò che sarebbe stato definito a posteriori il Lava Project, che ciascuno gridava a gran voce la sua idea, in un caustico bailamme di presunte dilapidazioni. Un po’ come un ragazzo troppo cresciuto con un fuoco d’artificio, che non sa se metterlo dentro un mucchio di foglie, un recipiente di sabbia, un secchio della spazzatura…Oppure: “Proviamo con il ghiaccio, heh, heh, heh.” Si, dai, mettiamoci la LAVA e così… È stato. Una scena orribilmente affascinante, andata in onda nel corso di una puntata della terza stagione del programma Outrageous Acts of Science durante la quale il flusso squagliato è stato fatto scendere sopra un lastrone congelato, al motto e la domanda di “Cosa mai succederà?” Un’esplosione (probabilmente ci speravano) o magari l’immediato squagliarsi della superficie, troppo liscia e delicata per fermar l’effetto gravitazionale sulla pietra fusa (e vabbé) oppure, oppure…La realtà, come tanto spesso capita, riuscì a superare l’immaginazione: il flusso incandescente, raggiunto quello specchio d’acqua congelato, iniziò a vaporizzarlo, ebbene si. Da uno stato all’altro della materia, saltando quello che ci stava in mezzo. Letteralmente ma con un significativo corollario: le particelle umide, lanciate verso il cielo, che si ritrovano a sbarrargli la strada un generoso strato, guarda caso, di LAVA. Il risultato fu la formazione di uno straordinario susseguirsi di bolle nerastre, sovrapposte nella furia e nel bisogno di scappare via. Ma riassunte, facilmente, nella poetica espressione: “A voi non sembra un po’ una pizza?”
E così, a costoro venne fame. E quando hai a disposizione le risorse monetarie di un gruppo di ricerca universitario statunitense, poco ma sicuro, non puoi certo accontentarti di uno snack. Basaltica fu l’occasione. Piroclastica, la gioia delle gente. Insomma tanto è stato, han fatto ed è successo, che alla fine loro, gli studenti assieme a chi altro di dovere (o gusto personale) si son ritrovati con un carico di splendide bistecche, corposi doni della mucca al mondo, e poi salsicce, un trancio di salmone. Che ottimo pretesto per far festa. Ma l’impazienza è una cattiva consigliera, ed il bisogno di far conoscere al mondo il proprio lavoro, a volte, porta a strani eccessi. Così posizionato lo scivolo pietroso sotto la fornace ribaltabile, vi hanno piazzato sopra il tipico sostegno di metallo. Per fare del convivio un’altra scena offerta in sacrificio al grande nume della scienza.

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I treni che in Australia non richiedono binari

Road Train

La logica di un mondo proiettato verso innumerevoli punti di fuga, ciascuno logica, ed inevitabile conclusione di un particolare filo conduttore di ricerca: Internet, sei piena di caselli. E metodi di spostamento, differenti tra di loro quanto quelli fisici, con i semafori del mondo. In origine era il modem telefonico, ruggente, squillante scatola facente le funzioni della fila innanzi al varco, ciascuno per pagare l’obolo, prima di andare verso l’obiettivo. Mentre oggi, volando sulle bande larghe di altrettanti e veri jet di linea, viviamo un viaggio che al momento di partire, grossomodo, è già concluso. Ma questo non significa che manchi la motivazione della gente per approfondire, anzi! Giusto verso la metà della scorsa settimana, presso quel grande catalogo d’esperienze che è la board autogestita del portale Reddit, si è personalmente presentato l’individuo noto come Ozdriver, un camionista proveniente dalle lunghe, polverose strade degli antipodi, laggiù nel quinto continente. Ed a farlo ben volere tra l’utenza soprattutto americana, ci ha pensato il suo carico di foto, video e racconti da quello che è un mestiere assai diffuso in quasi ogni paese del pianeta (fanno eccezione i luoghi come il Principato del Liechtenstein, oppure il Vaticano) ma che varia in modo eccezionale in base al luogo, al tempo ed alle circostanze. E in nessun luogo il gesto del trasporto stradale devia dalla norma del senso comune, maggiormente che in Australia, dove le strade sono luu-unghe, diritte, totalmente prive di una qualsivoglia distrazione. Tranne quella, qui scopriamo, della fotocamera sopra il cruscotto, da usarsi per restare svegli tra una sosta e l’altra, se non altro con lo scopo di mostrare al mondo dei momenti..Straordinari, inaspettati. Testimonianze con finestre sul possibile. Di un mondo in cui l’unico limite è quell’orizzonte che si perde tra la nebbia e la foschia, mentre un migliaio di cavalli/macchina ti spingono, con il tuo carico, verso comunità che non esisterebbero nemmeno, dopo un paio di viaggi mancati dal Road Train.
Tutto ebbe inizio, almeno stando alla leggenda alquanto nebulosa, con l’idea dell’inventore e imprenditore Kurt Johansson di Alice Springs, nei Territori del Nord, la regione più disabitata dell’Australia. Nato nel 1915 e proveniente da una famiglia di noti autotrasportatori, che negli anni ’70 gestiva un’autorimessa e si occupava di condurre a destinazione gli animali dei suoi concittadini, tra l’una e l’altra tenuta di quei luoghi, poste a centinaia di chilometri di distanza. Finché non avvenne, successivamente alla consegna di alcuni tori da monta a 320 km dalla sua sede operativa, che si presentasse la necessità di riportare indietro non 10, né 20 capi di bestiame, ma bensì 200. Una missione semplicemente impossibile per un sol uomo, a meno che…Johansson, che aveva già fatto una parte della sua fortuna grazie all’invenzione di nuovi metodi di propulsione  a legna basati sul principio del biodiesel, oltre che con partecipazioni nell’industria di estrazione salina, non era un tipo da perdersi d’animo. E quando individuava il nesso di un problema, sapeva come affrontarlo con lo spirito risolutivo del pioniere: così, ricevuto un finanziamento di “alcune migliaia di sterline” (la fonte dell’aneddoto è un segmento documentaristico dell’ex-host di Top Gear Jeremy Clarkson) quest’uomo, che oggi è ritenuto l’inventore del Road Train moderno, si procurò in qualche maniera un camion dell’esercito americano, residuato della seconda guerra mondiale, subito ribattezzato Bertha, cui si avvicendò per abbinare due vagoni motorizzati di sua concezione, affinché l’insieme fosse in grado di superare le ripide salite sulla strada verso la destinazione di turno, con tutto il suo seguito di mugghianti, nitrenti passeggeri. La missione fu quindi compiuta, e con essa innumerevoli successive. Il presente nato da una simile trovata è davvero ben esemplificato dal video-racconto di Ozdriver. Le progressive evoluzioni del concetto del primo treno su pneumatici, che risultano a seconda dei casi estendibili a fino 30-40 metri di lunghezza, costituiscono ad oggi la colonna portante dei trasporti tra le comunità dell’outback australiano, dove la messa in opera di una vera e propria ferrovia non sarebbe pratico, né economicamente sensato data la bassa densità degli abitanti. Per simili veicoli, la somma della potenza dell motrice e quella dei motori con trasmissioni automatiche sui vagoni successivi supera facilmente i 1000 hp. La vita di chi si ritrova a guidarli, attraverso simili peripezie, dev’essere tremendamente interessante. E forse, appena un po’ ripetitiva?

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